Economia digitale e tasse. La cruna dell’ago – di Roberto Pecchioli

Nel Vangelo di Matteo (19,24) Gesù afferma che è più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio.  Dobbiamo aggiornare la parola del Redentore: il cammello evangelico passerà per la cruna dell’ago il giorno in cui il sistema finanziario e i protagonisti dell’economia digitale pagheranno le tasse. La constatazione sorge spontanea nelle settimane in cui divampa la polemica sulla legge di bilancio italiana, tanto osteggiata dall’ Unione Europea, nonostante non vi si trovi alcuna dirompente novità, se non l’intento di sfuggire alle imposizioni dei proconsoli comunitari, cani da guardia delle cupole finanziarie transnazionali.

L’occasione è propizia per osservare più in dettaglio il bilancio dello Stato, i flussi di entrata e i capitoli di spesa. La conclusione che se ne trae è che il peso delle tasse grava soprattutto sulle persone fisiche, in particolare i percettori di reddito fisso e le piccole e medie imprese. I dai consuntivi del 2017 (fonte: MEF) dimostrano che sul totale delle entrate tributarie, 456 miliardi, le imposte dirette pesano per 246 miliardi, di cui ben 183 di IRPEF (Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche), per la quasi totalità versata da lavoratori dipendenti e pensionati (solo 12,5 miliardi da lavoro autonomo).

Le imposte indirette hanno raggiunto i 210 miliardi. Di questi, ben 130 riguardano l’IVA e circa 45 le imposte di consumo, dette accise dopo la devoluzione del sistema all’Europa. Sulle piccole e medie imprese incombono, oltre all’imposta sulle attività produttive, un groviglio di tasse e balzelli nazionali e locali, i contributi previdenziali (l’altra grande fonte di entrate pubbliche, per un totale di 230 miliardi) e, tassa occulta ma non troppo, la difficoltà di accesso al credito, l’anticipo dei pagamenti fiscali e tanto altro.

Diventa sempre più difficile, al contrario, colpire redditi e profitti delle grandi corporazioni, specie finanziarie, mentre sfugge al fisco in maniera intollerabile la gran parte degli affari dei giganti della tecnologia, i protagonisti della cosiddetta economia digitale e dell’industria più innovativa (es. la robotica), nonché molti cespiti degli operatori delle telecomunicazioni. Ancora più opaca, sfuggente, irraggiungibile è l’enorme massa di transazioni speculative, le operazioni sui mercati finanziari, persino il fiorente mercato delle criptovalute (bitcoin).

La cruna dell’ago è più stretta che mai, poiché manca la capacità di controllo della grande rete Internet, che ha condotto ad una vasta deterritorializzazione delle operazioni online, favorita altresì dalla smaterializzazione del denaro. Ciò ha reso vulnerabili sino all’impotenza i sistemi tributari statali, ma arricchito smisuratamente gli attori globali della nuova economia. Non solo i fondi speculativi, le banche d’affari e le multinazionali dell’industria, ma soprattutto i Big Five della tecnologia elettronica, Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft, le piattaforme informatiche come Uber, Airbnb, e pochi altri, a Silicon Valley e dintorni, con l’irruzione cinese (Alibaba, Huawei).

Al di là delle polemiche ideologiche dell’Unione Europea e dell’inganno planetario del debito, non vi potrà essere equità nelle politiche degli Stati finché non verrà affrontato e risolto l’enorme problema di un’economia e di una finanza che sfuggono ad ogni controllo , per motivi strutturali (la Rete, la prevalenza della finanza, la privatizzazione dell’emissione monetaria, la deterritorializzazione delle transazioni, l’opacità programmatica di una parte preponderante delle operazioni finanziarie, i paradisi fiscali) evadendo o eludendo il pagamento di gran parte delle imposte.

Alcuni anni fa, un esperto del livello di Giulio Tremonti proponeva di spostare la tassazione dalle persone alle cose. Nobile intenzione priva di possibilità, giacché la principale leva resta l’imposta sul valore aggiunto (IVA), il cui temutissimo aumento – a suo tempo concordato dai nostri governi in sede europea- metterebbe in crisi i consumi e graverebbe soprattutto sui meno abbienti. Non si può fare molto sul versante delle antiche imposte di consumo, limitate dalle regole europee a pochissimi settori. Uniche possibilità concrete l’aumento delle imposte su giochi e lotterie, scesi a 14 miliardi, davvero pochi, le accise sugli alcoli, un consumo voluttuario, nonché quella sui tabacchi, su cui tuttavia occorre agire cautamente per la diminuzione del gettito in atto da alcuni anni e per il rischio di contrabbando.  L’IVA potrebbe essere aumentata sui diversi prodotti e servizi di lusso, come era nei primi anni della sua istituzione, ma si tratta più di segnali che di cifre davvero rilevanti.

Si può, noi affermiamo si deve agire sul versante delle agevolazioni, delle esenzioni, a partire dalle accise e dalle imposte indirette per continuare con l’ampia platea delle elusioni legali della tassazione delle società di capitali. In questo senso, ci sembra positivo l’operato del governo Conte, che ha tagliato deduzioni e facilitazioni a banche e grandi imprese, per un maggiore introito stimato di 4 miliardi.

Non stupisce quindi l’accanimento e le campagne di stampa orchestrate contro la manovra da ben individuati centri di influenza. La verità è amara; da un lato, non si può diminuire significativamente il carico fiscale per i motivi che diremo, dall’altro non si riesce a raggiungere una serie di grandi soggetti, gli unici a poter far pendere la bilancia fiscale in senso favorevole alla massa dei piccoli e medi contribuenti. In più, il margine di manovra dello Stato è drasticamente ridotto dalle regole comunitarie e, sul versante delle uscite, dagli interessi passivi, oltre 66 miliardi nel 2017, oltreché dalla natura assistenziale della nostra repubblica. Ecco il motivo per cui le imposte non possono diminuire in maniera importante: il crollo della natalità impedisce la normale riproduzione del sistema, impone costi fissi in crescita (sanità, pensioni), diminuisce la produttività poiché affluiscono meno giovani al lavoro, estingue il risparmio perché si formano meno famiglie tese al futuro. Dal 1975 a oggi l’incidenza delle tasse sul PIL è passata dal 25 per cento a circa il 50.

Non se ne esce senza cambiamenti davvero drastici, a meno di navigare a vista con l’austerità imposta o ulteriori aggravi fiscali. È la via della legge di bilancio spagnola, che asfissia il ceto medio senza incontrare critiche a Bruxelles, nonostante spunti interessanti come la tassa sulle transazioni finanziare allo 0,2 per cento, il tentativo di colpire i giganti informatici e talune attività dei gestori di reti telematiche.

Qui sta, a nostro avviso, una via d’uscita, stretta come la cruna dell’ago. Premesso che la tassazione di milioni di piccoli e medi contribuenti deve assolutamente essere alleggerita per motivi etici, di giustizia sociale e per l’esigenza di non comprimere i consumi, preso atto che è imperativo difendere il gettito, non c’è altra strada che aggredire le varie sacche di evasione ed elusione. Il punto è che, per le ragioni accennate, è impossibile il successo a livello nazionale.

Dicevamo di alcune misure annunciate dal governo spagnolo. La tassa sulle transazioni finanziarie, da cui Madrid si aspetta un miliardo, è fallita nell’esperimento svedese e altrove: il sistema si difende facilmente spostando i suoi affari con semplici ordini attraverso i server. La concorrenza tra sistemi tributari è spietata anche a livello intraeuropeo. La soluzione è un’armonizzazione virtuosa delle legislazioni. Da alcuni anni si dibatte sulla cosiddetta Google Tax, ovvero l’imposizione sui ricavi dei monopolisti della rete. A livello nazionale, si incasseranno spiccioli finché le normative non saranno simili in tutta l’UE.

Le cifre in ballo sono enormi. È nota la vicenda dello sconto fiscale da 13 miliardi di euro a Apple in Irlanda, ma c’è molto di più. La sola Facebook ha un volume d’affari, in paesi come la Francia e l’Italia, di 300-400 milioni annui. Nel 2016, le finanze francesi hanno incassato poco più di 300 mila euro, un miserrimo 0,2. La proposta in sede europea è di un’imposta modesta, il 3 per cento sul fatturato. La classica montagna che partorisce un topolino, un’aliquota che susciterebbe l’entusiasmo di ogni impresa, ma per gelosie nazionali, interessi lobbistici e dispareri “tecnici”, si rischia di non farne nulla.

Le entrate a regime per l’Italia potrebbero essere di diversi miliardi l’anno, realizzando oltretutto il dettato costituzionale sull’ uguaglianza tra i contribuenti. Oggi i criteri di progressività dell’imposta e di capacità contributiva di cui all’articolo 53 della Carta funzionano a rovescio.

I grandi gestori delle telecomunicazioni lucrano somme notevoli dalla pubblicità online, dall’intermediazione in rete e dalla vendita di dati, i nostri dati. Grande il profitto, modestissime le somme destinate all’erario degli Stati. Poi c’è il crescente settore dei servizi internazionali, la cui architrave è la rete Internet, e lo stesso arcano mercato delle criptovalute, i bitcoin. Esiste molta confusione, la materia è nuova, gli apparati giuridici saranno sempre in ritardo rispetto all’innovazione tecnologica, al “tempo reale” dell’economia digitale. Il commercio in rete è una zona grigia affiancata adesso dal trading finanziario diffuso, a cui vengono sollecitati quotidianamente migliaia di utenti telefonici con proposte al limite della legalità.

Non si può continuare a torchiare il signor Rossi e le piccole e medie partite IVA ignorando che i grandi flussi di denaro e di profitto si muovono altrove. L’Europa è abbastanza grande da vincere una battaglia culturale, tecnica e giuridica nei confronti di innovazioni detenute da soggetti che stanno strangolando gli Stati e le persone fisiche, pochi potentissimi che possiedono, dominano, privatizzano tutto, a partire dal controllo della rete.

Interi settori economici sono investiti da un ulteriore rivoluzione, l’automazione che porta i robot a sostituire gli uomini in un numero crescente di attività. Saranno perduti milioni di impieghi, si rende indispensabile una riflessione sulle forme di tassazione dell’economia generata dalla robotica. Si tratta di profonde novità che non devono cogliere impreparata la politica. Nel caso italiano, l’equilibrio è estremamente complesso, giacché l’industria robotica nazionale è tra le più avanzate al mondo e sarebbe sciocco colpirla nella sua fase espansiva. Tuttavia, non si può immaginare che il profitto vada ai monopoli industriali e le perdite agli Stati. Pensiamo alla diminuzione delle tasse e dei contributi sociali nel momento in cui si renderà indispensabile aprire nuovi paracadute sociali a fronte di ulteriore disoccupazione di lungo periodo per milioni di persone, anche molto qualificate.

Non è un problema di domani, occorre fare in fretta con margini ristretti. In questo senso, ben venga il dibattito sul reddito di cittadinanza, depurato dalle scorie del clientelismo e dei pelosi moralismi di chi ha molto e non vuole dividere la torta di cui si è appropriato.

Le leggi di bilancio nazionali, al netto delle ingerenze e follie europoidi, non possono risolvere i problemi strutturali di un mondo in cui le scoperte tecnologiche e le loro applicazioni sono quotidiane e provengono tutte da un pugno di giganti privati in grado di orientare le grandi scelte planetarie. Non possiamo però fare a meno di recuperare la forza del potere pubblico, cioè della politica, al fine di contrastare uno squilibrio di mezzi (e di fini) che non ha uguali nella storia.

Chi comanda, esige tributi, si chiami Stato, mafia, finanza, tecnologia. Non possiamo lasciare che continui l’impressionante trasferimento di mezzi, di risorse, di potere in mani private, innanzitutto quelle dell’economia digitale, alleata con i piani alti della finanza, ai danni di persone, famiglie, comunità, popoli, Stati sovrani. Anche attraverso un fisco più equo, lungimirante, al passo con i tempi, in grado di pretendere il giusto dai ricavi immensi di pochi colossi, deve tornare la politica. Vale la pena di tentare, far passare il cammello per la cruna dell’ago.

 

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