Con l’autorizzazione dell’autore, che ringrazio per la fiducia accordatami, affido al Web perché raggiunga maggior diffusione, questo acuto articolo scritto per il mio Bollettino “Una Voce dicentes”. I lettori potranno agevolmente ricavar i limiti precisi dell’indagine kasperiana, la pericolosità e l’inconsistenza dell’assunto e delle argomentazioni improntate alla più vieta vulgata vaticansecondista in campo filosofico-teologico-ecclesiologico di un volume che vorrebb’esser una summa del pensiero più avanzato e consapevole sull’essenza della Chiesa, e che invece è una mera proposizione di propensioni affatto personali che non superan pressoché mai il confine di un sentimentalismo autobiografico per attinger dignità di autentica “ecclesiologia”.
Dante Pastorelli
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E’ PROPRIO QUESTA LA CHIESA CATTOLICA? NOTE IN MARGINE AD UN VOLUME DEL CARD. W. KASPER
di Alipio de Monte
Come 157° titolo della sua ben nota “Biblioteca Teologica Contemporanea”, la Queriniana offre al lettore italiano, in una decorosa traduzione di Carlo Danna e ad un solo anno dall’edizione in tedesco della Herder, un corposo volume del ben noto card. Walter Kasper: Chiesa Cattolica. Essenza-Realtà-Missione, ed Queriniana, Brescia 2012, p. 577, € 35,00. La notorietà dell’Autore è, per varie ragioni, tale che esime il recensore dal farne una pur sommaria presentazione.
Si tratta della sua ecclesiologia, di cui, oltretutto, già si avevano tracce inconfondibili nei nn. 60, 114 e 152 della predetta “Biblioteca”: una ecclesiologia personale, scaturita più dalle idee e dall’esperienza dell’em.mo Cardinale, che non dalle fonti classiche d’ogni vera elaborazione ecclesiologica. Leggendo pacatamente ed una dietro l’altra le 577 pagine della sua opera, si ha l’impressione che l’Autore proprio questo abbia inteso: filtrare dalla propria esperienza di vita ecclesiale i principii per una elaborazione scientifica della complessa realtà, essenza e missione della Chiesa. Non fortuitamente la trattazione è preceduta da una prima parte autobiografica, che si prolunga per una sessantina di pagine (7-65), sotto un titolo significativo: Il mio cammino nella e con la Chiesa. Sembra di capire che il cammino sia comune a due soggetti, l’uno dei quali lo percorre in lungo ed in largo alla scoperta dell’identità ecclesiale, e l’altro compie il medesimo percorso con lo scopo dichiarato di rispondere alle “sfide” del presente, dando al primo la sicurezza di essere sulla buona strada.
Alla prima parte fa seguito, senza alcuna preoccupazione di proporzioni simmetriche, una sola seconda parte (p. 67-577) che costituisce l’intera elaborazione ecclesiologica, suddivisa in sezioni progressivamente numerate che non sono né capitoli né trattati, e quindi in successive distinzioni e suddistinzioni, senza un epilogo chiaro e risolutivo, tale non sembrando né la scontatissima tripartizione in martyría-leiturghía-diakonía, né le battute finali sulla “Chiesa fraterna, dialogica e comunicativa”, sulla nuova Pentecoste e sulla “gioia per Dio e per la Chiesa”. Il mistero, che non è l’enigma, della Chiesa consiste in ben altro.
Per un commento dell’intera opera non procederò analiticamente punto dopo punto, la qual cosa richiederebbe uno spazio molto più ampio di quello dell’opera stessa, ma mi soffermerò di volta in volta su tematiche speciali, a incominciare dalla premessa autobiografica.
1 – Al fine di conoscere il mistero della Chiesa, le notizie anagrafiche e le tappe del progressivo avanzamento in posti di responsabilità, anche altissimi, hanno poca o nessuna importanza, nonostante che l’em.mo Autore la pensi diversamente. Egli, infatti, svolge tutta la prima parte, sottolineando i suoi vari momenti esistenziali e i correlativi passaggi dall’uno agli altri, fin all’ultimo nella Curia romana, convinto che “l’ecclesiologia è sempre anche una testimonianza personale”. Da tali passaggi si sarebbe in lui consolidata una sempre nuova consapevolezza ecclesiologica, ovviamente aperta alle tante sfide, sempre meno dipendente dalla ormai “pietrificata neoscolastica” e sempre più ricettiva dell’influsso di Tubinga: la Tubinga, si badi bene, dei vari Hölderling, Schelling, Hegel, Mörike e Uhland. Quello di Schelling sembra un chiodo fisso: ovviamente si tratta dell’ultimo Schelling, o della rivelazione, alla quale Schelling aprì i corsi che tenne a Berlino sotto il titolo di Filosofia della mitologia o della rivelazione. Ora, che l’ultimo Schelling sia stato molto sensibile al problema religioso è notorio; ma lo è pure la sua soluzione del problema, mediante la conoscenza dell’assoluto che è l’assoluto stesso in quanto si autoggettiva e s’intuisce, in un processo intemporale in cui l’autoggettivarsi dell’assoluto è chiamato da Schelling rivelazione. Fu questo, per lui, un interessantissimo processo di “disintossicazione dall’empirismo”; ma da qui alla teologia e alla parte che ne deriva nella fondazione critica della ecclesiologia, c’è di mezzo l’abisso. Che poi l’em.mo Autore dica che per lui il riferimento a Kant, Fichte, Hegel, Schelling, Kierkegaard, Marx e Nietzsche non porta ad “un soggettivismo abissale” e che “l’età moderna è più multiforme” di quanto certe schematizzazioni lasciano pensare, è un fatto da dimostrare e non da declamare. E il fatto è che se un vero rapporto tra la modernità e l’ecclesiologia può essere sottolineato, è quello a detrimento della grande Tradizione. E’ quindi quello della Nouvelle Théologie, in tanto nouvelle, in quanto si conforma alla modernità e non in quanto rinnova “l’antica teologia patristica…e scolastica…medievale”. Proprio per questo “il radicarsi nello spirito di Tubinga” significò, sì. “una concezione viva della tradizione”, ma viva non perché evoluzione omogenea della Tradizione apostolica, bensì perché aperta alla novità che, rispetto a quella Tradizione, il più delle volte è solo rottura.
Si ha quindi una sviolinata per il Vaticano II, per le sue “sfide”, per i suoi documenti chiave (Gaudium et spes, Dignitatis humanæ, Unitatis redintegratio, Nostra ætate) non senza osservare che “il potenziale del concilio per quanto riguarda il futuro è ben lontano dall’essere esaurito”. Son già passati cinquant’anni, in un’epoca in cui il presente è una corsa accelerata verso il passato; ma il concilio è un potenziale ancora da scoprire!
L’attenzione si fa ancor più autobiografica ricordando i rapporti intrattenuti con Rahner, Metz, Lehman, Küng, Ratzinger (l’Autore accenna anzi anche ad un suo screzio con l’allora astro nascente), le discussioni pastorali soprattutto sulla Humanæ vitæ di Paolo VI, sulla teologia della liberazione, sull’ “avvio di una propria concezione teologica”, radicata nella idea-guida della “Communio” e sulla conseguente “ecclesiologia di comunione”, sull’ “ampiamento ecumenico dell’orizzonte” all’interno della propria esperienza di vescovo, in prospettiva internazionale, “in dialogo con le Chiese orientali”, con quelle protestanti e con quelle libere, senza mai chiuderlo, ovviamente, nei confronti dell’ebraismo. Se tutto corrisponde al vero e non all’atteggiamento del “miles gloriosus”, si dovrà porgere un grazie a chi prese la decisione di portarlo a conoscenza: si é potuto capire in tal modo a chi si deve, almeno in parte, lo sconquasso postconciliare.
Dinanzi alla “Chiesa che si rimette in cammino e si rinnova”, l’Autore vede due blocchi contrapposti: quello dei progressisti, caduti in uno stato di “rassegnazione” perché “impauriti” dal fatto che le loro formule non convincono chi sta fuori dalla Chiesa; e quello “disperato” dei conservatori che vorrebbero ritornare alle “vecchie certezze e alla vecchia prassi”, operando per una impossibile “restaurazione”. L’impressione è che si sia dato spago ai più triti luoghi comuni e non si sia capito che non si tratta di grandezze tramontate e di certezze inattuali, bensì dell’unica verità rivelata e trasmessa, che è e rimane sempre attuale, solo perché signoreggia “la figura di questo mondo” (1 Cor 7,21), invece d’esserne signoreggiata.
2 – L’assunto è svolto dalle sette sezioni della seconda parte, imponenti dal punto di vista formale non solo per le dimensioni, ma anche per la compattezza ed articolazione delle singole tematiche; si vede bene che l’Autore si muove a suo agio, e gliene va dato atto, sul terreno della metodologia critico-scientifica. E’ impossibile renderne conto complessivamente. Ci soffermeremo su qualche punto piuttosto incandescente.
Tutto ha inizio con uno spostamento d’interesse: per sapere non già o non più che cos’è la Chiesa, ma dov’è la Chiesa vera. All’in sé della Chiesa la domanda preferisce l’habitat e quindi la reperibilità della Chiesa vera: uno spostamento d’attenzione non privo di gravi conseguenze, perché scartando l’in sé, non si avrà mai una risposta all’interrogativo sull’essenza e la realtà della Chiesa. Lo spostamento ingenera una vera confusione, peraltro già affiorata nelle pagine autobiografiche, là dove l’in sé viene scambiato con la relatività, come se la Chiesa fosse relazione e per questo comunione. L’essenza, infatti, o natura d’una data realtà designa il suo costitutivo formale, il suo in sé, la sua “intimità”, ciò che la specifica, separandola da ogni altra specie. La relazione, invece, è una categoria, un predicato, l’aristotelico pros tì, un rapporto. Ma il rapporto non fonda, bensì presuppone ciò che la cosa è in se stessa; il rapporto è semplicemente un ordo, la nota ad che, non avendo “né genesi, né corruzione, né movimento”, è entitativamente parlando qualcosa di ben lontano dalla sostanza. Non c’è dubbio che della Chiesa si può e si deve predicare il suo pros tì, non essendo affatto una monade a sé nell’universo delle realtà create; ma il predicato non ne costituisce e nemmeno segnala l’essenza. Che non sia la dipendenza da Schelling a determinare queste ambiguità?
3 – Si legge, inoltre: “Tra le testimonianze normative della fede, un ruolo particolare ed unico svolge la sacra Scrittura”. A parte il fatto che un ruolo particolare non è l’unico, è grave che si dica unico il ruolo normativo della sacra Scrittura nei riguardi della fede e che, nella Scrittura stessa, si riconosca “la testimonianza dell’inizio e dell’origine apostolica perennemente normativa…il documento originario della fede”. Noto anzitutto che la “reduplicatio” d’un medesimo concetto (“inizio” e “origine”) avrebbe senso se “apostolica” riguardasse soltanto “origine” e non anche “inizio”; ma nasce allora il problema: “inizio di che cosa”? e in che cosa diverso da “origine”? In realtà questa “reduplicatio” non ha senso. Ed ancor meno ne ha l’avere letteralmente calpestato due valori: la storia e il dogma. 1) La storia, perché la fede della Chiesa e la Chiesa stessa hanno inizio da Cristo e dagli apostoli, e perché fino da tale inizio, non esistendo ancora la Scrittura, la Chiesa è Tradizione viva della sua fede. “Vi trasmetto ciò che io pure ho ricevuto” (1 Cor 11,23): ricevuto, non letto. Nel trasmettere il ricevuto, la Tradizione si rivela come il criterio primordiale, la norma, il punto di riferimento e d’orientamento della Chiesa in sé e nei suoi singoli membri. Se così non fosse, la fede avrebbe dovuto attendere decine e decine di anni prima d’avere nella Scrittura il suo punto di riferimento e la sua norma. 2) Il dogma, perché è dottrina del Tridentino, poi ripresa dal Vaticano I, che la fede discende da due fonti, l’una scritta e l’altra orale (cioè la Tradizione). Due trova esplicita accoglienza nella formulazione dogmatica tridentina e non perde assolutamente nulla del suo valore dogmatico se un “tubinghese” ha poi dimostrato che il “partim/partim” della discussione preconciliare e conciliare non fu recepito dal Concilio. Questo fece invero molto di più: trasformò il “partim/partim” in “et/et”, dando al dogma un significato più chiaro e più forte.
4 – “La chiesa fa parte della serie delle questioni esistenziali fondamentali dell’uomo e (???) dell’umanità…La risposta a tali questioni non è la chiesa…,ma lo Spirito di Dio che si serve della chiesa come di un mezzo e (???) d’uno strumento”. Come si vede, il modulo reduplicativo è consueto all’Autore e ne contrassegna l’espressione, a scapito della chiarezza oltre che del controllo. Ne è una prova l’affacciarsi del sic et non dall’espressione stessa, che insieme afferma e nega. A meno che non si tratti d’un ennesimo tributo al sic et non d’idealistica memoria; nel qual caso sarebbe in gioco più Hegel che il riverito Schelling. Senza scomodare né l’uno né l’altro, va dichiarato con fermezza che di nulla e di nessuno può dirsi una cosa e il suo contrario: se dunque la Chiesa risponde alle questioni fondamentali dell’uomo, nessuno potrà dire il contrario; potrà solo spiegare come e perché la risposta della Chiesa è quella d’uno strumento nelle mani di Dio. Se poi qualcuno è convinto di potere o di dover dire il contrario, o ignora la logica o la dimentica. Dalla logica apprendiamo l’appartenenza della strumentalità alla causa efficiente, la quale è o principale o strumentale, l’una come sorgente prima dell’essere, l’altra come azione su ciò che già è (S. Tommaso, IV Sent. d. I, q. I, a. 4, sol.). Se la Chiesa è strumento, vuol dire che, sia pure nelle mani della causa efficiente principale (Dio), essa coopera all’azione di lui e che pertanto è lei a portare la risposta di Dio, o comunque in nome di Dio, alle questioni esistenziali fondamentali dell’uomo.
5 – Da un analogo difetto di logica dipende anche l’indecisione della definizione reale della Chiesa. Scorrendo le pagine che della Chiesa dovrebbero mettere in risalto “l’essenza, la realtà e la missione”, s’incontra una pluralità di definizioni che lascia interdetto il lettore. La Chiesa è, infatti, dichiarata corpo mistico, comunione, mistero, sacramento universale di salvezza, opera d’arte, segno escatologico, dimora della sapienza, tempio di Dio, congregatio fidelium, communio sanctorum. Alcuni interrogativi la seguono come la sua ombra: non si sa se sia regno, anzi non si sa nemmeno se sia stata davvero voluta da Cristo, se sia istituzione o evento, in che misura sia terrena ed in che misura celeste. Per fugare la perplessità ingenerata da tutto questo, il lettore potrà finalmente avvalersi della risposta chiarificatrice del Vaticano II: la “definizione dell’essenza della chiesa” è: a) “popolo di Dio” o “struttura teocentrica e dossologica fondamentale”; b) “corpo e sposa di Cristo” (perché chiamarla “prostituta” se Ap 17,5 la contrappone come comunità messianica sponsale alla meretrice Babilonia?); c) “tempio dello Spirito Santo” o sua dimensione pneumatologica. Sembra di capire che l’Autore, pur volendo spiegare che cosa sia la Chiesa, rifugga dai “formalismi” del discorso scolastico e si rifugi in quello biblico, privilegiato anche dal Vaticano II. In tal modo egli pensa di mettere in luce i motivi che fondano un’ecclesiologia biblico-teologica, ma di fatto complica l’analisi e devia dal discorso formale della definizione. Questa dovrebbe esprimere sempre l’essenza d’una cosa: il “quod quid est” di san Tommaso, il cui metodo sarà anche “pietrificato”, ma ha almeno il pregio di far capire qualcosa. Nel caso, fa capire l’essenza d’una cosa indicandone genere e differenza specifica. Non c’è definizione se non attraverso queste due strade. Una sola non basta, perché né il solo genere, né la sola differenza porta al traguardo del costitutivo formale, o della “essentia rei”. Là dove in oggetto è più la materia intelligibile che quella sensibile, più che di definizione si ha a che fare con una descrizione che non tocca né genere né differenza. Potrebbe essere questo, in gran parte, il caso della Chiesa. L’oggetto da descrivere ha rilevanze molteplici: un ecclesiologo sa coglierle e ridurle al loro comun denominatore. Basta consultare qualche classico del genere, per convincersene. Ma proprio il confronto con qualche classico mette alla corda il nostro Autore. Non si diventa ecclesiologi dall’oggi al domani. Né si è ecclesiologi solo perché si riferisce la propria esperienza di Chiesa per arricchirne la stessa ecclesiologia.
6 – Nonostante il programmatico uso della c minuscola per abbassare la Chiesa al livello delle cose comuni anche se non banali, un plauso meriterebbe l’assunzione di “proprietà” al posto di “note” o segni distintivi della Chiesa. Ma proprio da questo momento in poi l’opera, che peraltro si rivela dipendente dal Vaticano II fin dal suo esordio, parla esclusivamente in termini conciliari: istituzione/carisma, chiamata universale alla santità e sacerdozio comune, missione dei laici, ministeri al servizio della comunione, ministero petrino e collegialità, unità ed ecumenismo, dialogo e missionalità ed ovviamente, come naturale conseguenza postconciliare, nuova evangelizzazione: tutto in funzione della Chiesa fraterna, dialogica e comunicativa con le altre chiese, con tutte le religioni, col mondo intero. Non si contesta in assoluto una tale delimitazione; sorge solo il sospetto che l’ecclesiologia precedente, la grande fioritura di spunti ecclesiologici nei Padri, l’ecclesiologia in ordine sparso delle prime Summæ medievali, il “de Ecclesia” come preambolo alla fede nei commenti a san Tommaso d’Aquino, i trattati d’Egidio Romano, Giacomo da Viterbo, Giovanni da Parigi, Marsilio da Padova, Corrado da Gelnhausen, Pietro d’Ailly, Giovanni Gersone, Francesco Zabarella, Nicolò da Cusa, Giovanni da Ragusa, fin alle grandi elaborazioni di Francisco de Vitoria, Domenico Soto, Bartolomeo da Carranza, Melchior Cano, Domenico Bañez, dei Salmanticensi, dei controversisti (fra i quali spiccano il Caietano e il Bellarmino), senza dir nulla degli ecclesiologi più recenti (e ce ne sono di spicco, Journet p. es. e Anton), fossero solo espressione, come il vecchio metodo scolastico, d’un mondo “pietrificato”. L’apparato critico, nell’opera che stiamo discutendo, è rilevante, ma sembrerebbe dettato da una scelta ideologica: gli autori citati sono quasi esclusivamente tedeschi, con attenzione ai francesi di punta, a qualche teologo anglofono, e perfino a qualche “portaborse” italiano. Troppo poco, per legittimare un titolo così assoluto: Chiesa Cattolica.