“Dixit autem ad mulierem: “Fides tua te salvam fecit: vade in pace!” (Lc 7, 50).
di Carla D’Agostino Ungaretti
.
Gli amici che ormai da vari anni seguono le mie riflessioni di cattolica “bambina” – ossia (tengo a sottolineare) non di teologa, o di filosofa, o di esegeta, o di storica del Cristianesimo, ma solo di appassionata di studi biblici che ama analizzare la Parola di Dio in ogni sua sillaba e in ogni suo più recondito significato ricavandone un enorme beneficio spirituale – avranno ormai capito che io reputo i quattro Vangeli (ma non solo essi) un pozzo inesauribile dal quale si può sempre attingere qualcosa che in precedenza ci era sfuggito e che ad ogni nuova lettura ci si ripresenta con una fisionomia più completa e meglio delineata[1].
E’ quanto mi è capitato recentemente rileggendo per l’ennesima volta il Vangelo secondo Luca che a me piace particolarmente, forse perché essendo donna mi è sempre sembrato che Luca – il quale, secondo la tradizione confermata da S. Paolo era medico (Col 4, 14) e forse, secondo altri, anche pittore – avesse una particolare considerazione per le donne e per i loro problemi, derivatagli probabilmente dall’aver conosciuto personalmente la Madre di Gesù dalla quale, fra l’altro, avrebbe attinto le informazioni relative alla nascita e all’infanzia del Figlio. Inoltre, secondo la Bibbia di Gerusalemme, pare che S. Paolo lo stimasse particolarmente “a motivo del Vangelo” (2 Cor 8, 18).
L’episodio al quale mi riferisco è quello del fariseo e della peccatrice pentita (Lc 7, 36 – 50). E’ uno dei brani più commoventi e insieme più sconvolgenti del Vangelo, è pieno di contenuti e suggestioni, contiene numerosi spunti psicologici, suggerisce delicati risvolti sociali, delinea orientamenti morali come il rapporto tra la legge, l’amore e il peccato e da ultimo, ma non meno importante, preannuncia l’essenza della salvezza consistente nella Fede e nel saper riconoscere la volontà del Padre. Perciò cercherò, con l’aiuto di Dio, di commentare il ricchissimo insegnamento che questo episodio ci propone, nella speranza che Egli si serva delle mie povere parole per confortare chi è tentato dalla disperazione.
L’Evangelista esordisce facendoci sapere che uno dei farisei invitò Gesù a pranzare a casa sua ed Egli – accettato con piacere, come faceva sempre, questo gesto di stima e di cortesia – andò da lui e si mise a tavola con gli altri ospiti.
I commensali si erano appena accomodati sui loro bassi lettini secondo l’usanza sia palestinese che romana[2], quando improvvisamente entra, non invitata, “una donna, che era una peccatrice di quella città”. Luca, rivelandosi uomo di animo profondamente delicato, non solo non ne rivela il nome anche se sicuramente lo conosceva, ma evita anche di chiamarla prostituta (indice, come dicevo poc’anzi, della considerazione e del rispetto che egli nutre per tutte le donne) ma dall’espressione che usa è plausibile che essa fosse conosciuta da tutti come tale, una donna di cui gli altri abusavano, una poveretta abituata ad essere usata e poi buttata via, un rifiuto della società cui era negato ogni rispetto, insomma una “peccatrice” senza se e senza ma, come più tardi riconoscerà lo stesso Gesù.
Questa donna, a noi sconosciuta, ha avuto una gran faccia tosta, un bel coraggio, lei che fa parte del gruppo sociale più emarginato e reietto, disprezzata da ogni pio ebreo, a irrompere nella casa di un gran signore, di rango sociale elevato, rappresentante della parte religiosamente più impegnata e ineccepibile del popolo giudaico! Gesù non è solo, sta a tavola circondato da altri “signori”, anche essi personaggi altolocati certamente a lei ostili[3]. Chi gliene ha dato il coraggio? Come ha potuto superare le barriere del pregiudizio e della stessa Legge che sicuramente anche lei conosce? Ma lei non si lascia intimidire e si dirige verso Gesù tenendo in mano un vasetto di olio profumato che vuota sui piedi di Lui per esprimere il suo rispetto al Maestro secondo l’usanza orientale e sconcertando così non solo i presenti ma anche tutti noi che, dopo tanti secoli, leggiamo questo episodio. E infine scoppia a piangere, inonda di lacrime i piedi del Maestro e, compiendo un gesto sconveniente per una donna secondo il costume dell’epoca (già: era una “peccatrice” …), si scioglie i capelli e con essi li asciuga arrivando anche a baciarli.
La poveretta piange perché l’incontro con Gesù le ha capovolto la vita; piange perché ora riconosce chiaramente la miseria morale della sua esistenza per la quale invoca il perdono; piange perché si credeva perduta e invece ora sente di essere stata raggiunta dall’infinita misericordia di Dio. Il suo pianto è quello della gioia e della riconoscenza; il suo comportamento è ardito fino alla sconvenienza, ma allo stesso tempo si mostra umilissimo, è devoto e rispettoso, ma anche affettuoso e spontaneo; tutto il suo essere è coinvolto nell’incontro con Gesù. La carica emotiva di questa scena mi sembra enorme perché rivela una realtà interiore che, quando viene totalmente percepita come è avvenuto per questa donna, rivela che l’amore di Dio è totale, radicale, profondo, libero, nuovo, trasformante, in una parola: è INFINITO.
Gesù cosa fa? Non fa niente, non mostra alcun imbarazzo per i gesti della donna, la lascia fare davanti a tutti gli invitati e il suo comportamento appare agli astanti insolito come quello di lei[4].
E il padrone di casa che ruolo ha in questa scena? E’ evidente che lui, ingabbiato com’è nei suoi rigidi schemi di legge, non capisce nulla di ciò che vede e sente, non afferra il significato del gesto della donna rivelando il difetto di fondo della mentalità farisaica: l’incapacità totale di prescindere dalla lettera della Torah[5]. Infatti mi torna in mente l’episodio della guarigione del cieco nato (Gv 9, 16): i farisei, invece di lodare e ringraziare Dio per il “segno” compiuto da Gesù, negano che Egli venga da Dio perché ha violato la Legge operando una guarigione di sabato. Quello che il bravo fariseo ha visto e sentito lo fa dubitare, secondo i suoi schemi mentali, della capacità profetica di Gesù. Lo ha invitato a pranzo in casa sua, ma non lo ha accolto nel suo cuore e dentro di sé lo disapprova: “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice”. Il vero profeta deve scacciare da sé una prostituta, deve rimproverarla e allontanarla, non deve avere niente a che fare con lei
Ora l’interesse del racconto si sposta sul dialogo tra Gesù e il fariseo. Il Maestro si rivolge direttamente a lui chiamandolo per nome e facendoci così sapere che si chiama Simone. Ha qualcosa da dirgli. “Maestro, parla pure” risponde cortesemente il padrone di casa, pieno di affabilità per il suo ospite ma, da buon fariseo, anche con un po’ di ipocrisia e di benevola condiscendenza. E Gesù, ottimo conoscitore dell’animo umano (oggi forse diremmo anche ottimo psicologo) prende il discorso alla larga con una parabola che conduce Simone a esprimere, senza saperlo, un giudizio che lo riguarda personalmente e, operando un totale capovolgimento di prospettiva e di valori, alla fine gli farà capire che uno degli attori della parabola è lui stesso[6].
Un creditore, molto generoso in verità, condona i debiti di due debitori che gli dovevano due diverse somme di denaro: “Chi di loro lo amerà di più?” cioè gli sarà maggiormente riconoscente? “Simone rispose: “Suppongo quello a cui ha condonato di più”. Simone ha ragione, ma non si rende conto ancora che, svalutando la riconoscenza di colui il cui debito era più esiguo, di fatto svaluta se stesso ed esalta invece l’enorme amore della donna tanto superiore al suo. Infatti i debitori della parabola sono lui stesso e la “peccatrice”: quello che ha un debito più ingente ed ama di più è la prostituta, quello che ha un debito più esiguo ed ama di meno è proprio lui.
A questo punto Gesù gioca a carte scoperte e parla senza peli sulla lingua confrontando i due “amori” per Lui: quello di Simone e quello della donna. Mette direttamente in risalto quest’ultima: “Vedi questa donna?”. Lei ha fatto per Gesù molto di più di quanto non abbia fatto Simone, che pure lo ha invitato a pranzo: gli ha versato l’olio profumato sui piedi, li ha bagnati con le sue lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli dimostrandogli un amore immenso. Lui non ha riservato a Gesù un’accoglienza amorosa, ma solo di cortesia perché, a differenza di quella povera donna, non sente di essere un peccatore bisognoso della misericordia di Dio.
Per ben tre volte Gesù mette in risalto le differenze di comportamento: “Tu, Simone, non mi hai dato l’acqua per i piedi … tu non mi hai dato un bacio … tu non mi hai unto il capo … “. Gesù non è uno snob formalista e con queste parole non intende rimproverare il suo ospite per l’inosservanza di quelle regole di accoglienza – che, oltre tutto, non erano neppure osservate da tutti – ma vuole fare un confronto: la peccatrice è andata molto al di là delle comuni regole di cortesia. Ha compiuto gesti che rivelano amore. Le situazioni si capovolgono: il fariseo colto, ricco e importante agli occhi del mondo è rimasto prigioniero della rigidità del suo cuore, mentre la prostituta, rifiutata dalla società, si è rivelata veramente capace di amare, quindi ha fatto molto più di tutto questo, ha compiuto gesti sostanziali di amore, non puramente formali.
Ci avviciniamo così alla fine dell’episodio e il v. 47 è un po’ la chiave di volta di tutto il brano. Ora Gesù parla da Maestro ed enuncia una Verità, un principio, una regola di vita che nessuno può trascurare: “Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco”. Queste parole rivelano la stretta relazione esistente tra il dolore dei propri peccati e l’amore per Dio, due moti dell’animo umano intimamente connessi. Chi ama Dio riconosce di averLo offeso se gli capita di peccare e, col suo sincero pentimento, ne ottiene il perdono; chi non ama Dio, o Lo ama poco come Simone, anche se pecca non si sente peccatore e non ha motivo di chiedere e ottenere il Suo perdono cambiando il proprio stile di vita[7]. Perché Simone mostra di non amare l’ospite che ha invitato a pranzo? Perché l’amore per Gesù presuppone la capacità di accogliere il Suo perdono e questo è possibile, non solo se si è peccatori, ma anche se ci si “sente” tali.
Siamo perdonati nella misura in cui amiamo; e quando il nostro cuore è pieno di amore, in esso non c’è più posto per il peccato, poiché in tal caso abbiamo fatto posto a Gesù che rivolge anche a noi le sconvolgenti parole che Egli rivolge alla donna: “Ti sono perdonati i tuoi peccati”. Ora ella non è più la pubblica peccatrice, il perdono di Dio l’ha resa una persona nuova, ricolma di grazia e Gesù la congeda dicendole: “La tua fede ti ha salvata: va’ in pace!”,
Luca, in pochi versetti del suo Vangelo, ha dipinto due ritratti a tutto tondo, quello di Simone e quello di una donna che ha voluto ci rimanesse sconosciuta ma, a ben guardare, ha delineato anche un terzo ritratto, stavolta collettivo: quello degli altri commensali. Anche loro, sconcertati come Simone dalle parole di Gesù, si domandano tra sé e sé: “Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?” Questo interrogativo (“E voi chi dite che io sia?”) rispecchia un problema enorme che si presenta da duemila anni all’umanità chiamando tutti noi a risolverlo nel profondo dei nostri cuori alla luce della Fede: se solo Dio può perdonare i peccati, come può quell’uomo attribuirsene il diritto? Per quella donna, di cui ignoriamo il nome, la risposta è stata facilissima: perché Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, è Dio stesso, ma per i farisei sia antichi che moderni, come per tanti sedicenti cristiani moderni, Gesù si ripresenta ancora come il “segno di contraddizione perché siano svelati i segreti di molti cuori”, come aveva profetizzato il vecchio Simeone (Lc 2, 34 – 35) e come puntualmente molti anni dopo è avvenuto nella casa del fariseo Simone. Quella donna ha avuto la Fede e per questa Fede è stata salvata. Che ne sarà stato di quegli altri uomini saccenti e supponenti? Mi viene da sperare che, dopo questo episodio, quella povera sconosciuta, ora veramente libera e nella pace profonda che solo Dio può dare, abbia pregato per loro. Che altro potrei aggiungere?
.
[1] In proposito devo dire che per capire sempre meglio ciò che gli Evangelisti intendono esprimere, nonostante la mia età non più molto verde ho rispolverato il greco antico – ricordo del mio altrettanto antico liceo classico frequentato quando le lingue classiche si studiavano sul serio – tenendo sempre a portata di mano il mio vecchio e logoro vocabolario di Lorenzo Rocci. Ancora non ho osato accostarmi all’ebraico del Vangelo secondo Matteo, ma chissà che in futuro …
[2] Usanza confermata da Luca che infatti usa i verbi greci “kataklino” e “katakeimai”
[3] … ma, osservo io con una punta di cinismo, probabilmente prontissimi all’occorrenza a usufruire anch’essi, ma in gran segreto, dei “servizi” offerti da quella donna conosciuta da tutti in città. Infatti il mestiere più antico del mondo ha sempre tratto vantaggio dalla legge economica della domanda e dell’offerta.
[4] In realtà ci fu anche un’altra unzione del Signore a Betania verso la fine della Sua vita, quella operata da Maria, la sorella di Lazzaro (Gv 12, 3). Ma il significato è diverso: nel nostro caso, è un atto di pentimento cui segue il perdono di Dio; nell’altro, si tratta di un delicato gesto d’amore nel quale Gesù vede anticipata l’unzione che avrebbe ricevuto al momento della sepoltura.
[5] L’unico fariseo che Luca descrive mettendone in risalto la saggezza e l’apertura mentale è Gamaliele (At 5, 34 ss). Giovanni parla anche di Nicodemo che rimane impressionato dalla conversazione notturna con Gesù senza tuttavia comprenderla. Più tardi, davanti al Sinedrio tenterà, senza successo, di difenderlo e dopo la morte di Lui, porterà mirra e aloe per l’imbalsamazione (Gv 3, 1 – 21; 7, 50 -52; 19, 39). Mi piace pensare che la saggezza del primo e la pietà del secondo abbiano favorito in loro l’azione dello Spirito Santo e si siano entrambi salvati.
[6] Gesù usa la stessa tattica del profeta Natan nei confronti di David dopo che questi aveva fatto uccidere Uria l’Hittita per prendersi come amante la moglie di lui, Betsabea. David risponde a Natan in termini fortissimi senza sapere che in realtà si trattava di lui (2 Sam 11 – 12).
[7] Tutto ciò mi fa pensare all’arroganza spirituale del mondo moderno, anche tra coloro che si professano cattolici. Molti ritengono di avere diritto di accedere ai Sacramenti pur vivendo in una situazione di peccato che non hanno alcuna intenzione di modificare. Si sentono “a posto” e ritengono di non avere bisogno del perdono di Dio.
3 commenti su “Due ritratti dipinti da S. Luca nel suo Vangelo – di Carla D’Agostino Ungaretti”
Riflessioni di piacevole lettura. Volesse il Cielo che tali pensieri uscissero da bocche di teologi, esegeti o storici del Cristianesimo.
Il brano in oggetto, purtroppo, viene troppo strumentalizzato in nome della falsa misericordia….
Grazie per i suoi spunti……
Sto preparando la mia tesi su Gesù che annuncia alle donne il suo vangelo e tra le pericopi degne di maggior risalto, ho scelto quella della peccatrice. Grazie per questo contributo per me preziosissimo. Posso avanzare una richiesta ? Chi è l’autore dell’opera pittorica riportata? Mi occorre,
per la lectio divina, sapere chi l’ha dipinta. Grazie
grazie per questo lavoro che è risultato preziosissimo per la stesura della mia tesi sulle donne incontrate da Gesù nel Vangelo di Luca e di Giovanni. Posso azzardare una richiesta? chi è l’autore dell’opera pittorica riportata?
Grazie