Il distributismo è una visione economico, sociale, politica e anche finanziaria elaborata da G.K.Chesterton, H.Belloc e padre V. McNabb a partire dall’insegnamento della Dottrina Sociale della Chiesa.
Tale visione è complessa ed articolata ma in essa è possibile individuare quattro punti cardine, paradigmatici che, insieme, ne configurano l’essenza.
Un punto è la centralità, anche economico-sociale, della famiglia naturale, composta da un uomo ed una donna uniti nel matrimonio ed aperti alla procreazione ed educazione dei figli. Un altro punto è la necessità di superare la rappresentanza partitica, restituendo quanti più poteri concreti possibili ai vari comparti socio-lavorativi presenti sui territori, aggregando le persone intorno alla propria funzione lavorativa, al di là di ogni sterile e divisiva separazione per censo o classe. Tale aggregazione, basata sul senso comune, deve avvenire secondo i criteri di partecipazione e competenza, tra loro integrati.
Un altro punto ancora è la necessità di adottare una moneta che rispetti la natura intrinseca della moneta stessa, e quindi non nasca più, come succede oggi, come debito verso il sistema bancario dell’intero corpo sociale e non nasca più gravata da interessi. Una moneta, secondo il distributismo, per essere veramente al servizio dell’economia reale e del bene comune, non può altro che essere prodotta dai poteri politici legittimi, qualsiasi essi siano, e priva di interesse.
Infine esiste un ulteriore punto, l’unione tra capitale e lavoro.
Mentre tutti e tre i punti precedenti si possono trovare, magari disgiunti tra di loro, nell’opera di pensatori anche lontani dal distributismo, l’unione tra capitale e lavoro ne rappresenta invece una specificità peculiare.
Vale la pena quindi chiarire bene cosa si intende con questo termine.
Per unione di capitale e lavoro i fondatori del distributismo, sopra menzionati, intendevano quella condizione della società in cui la proprietà produttiva è in maniera preponderante e varia suddivisa sul territorio piuttosto che concentrata in poche mani. Chesterton, Belloc e padre McNabb, in particolare Belloc, storico di un certo peso, sapevano bene che questa situazione era quella che si era realizzata, per il confluire di una serie di variabili, nell’Inghilterra della Cristianità precedente alla razzia dei territori “comuni” e della Chiesa, che avvenne con la riforma Anglicana da parte di un ristretto numero di proprietari terrieri. Sapevano anche bene che, nel periodo in cui vivevano loro, cioè nella prima metà del secolo scorso, la tendenza in atto era diametralmente opposta, era quella indotta sia dal liberalismo sia dal social-comunismo: concentrazione della proprietà produttiva nelle mani di pochi, siano questi pochi un gruppo sempre più ristretto di capitalisti od un’élite oligarchica di burocrati statali.
Per i distributisti questo punto – il rapporto tra capitale e lavoro – era una questione centrale e dirimente, che li portava a considerare e denunciare come sostanzialmente complementari, piuttosto che opposti, liberal-capitalismo e social-comunismo. Il social-comunismo infatti fu considerato dai distributisti come una reazione al capitalismo, ma nello stesso segno, destinata ad evolvere a brevissimo nella fase successiva, lo Stato Servile, cioè quell’alleanza tra grande Stato e grande capitale che i distributisti profetizzarono con incredibile chiaroveggenza e di cui già osservarono i segni premonitori.
I distributisti furono cioè in grado di esplicitare ciò che nella Dottrina Sociale della Chiesa ufficiale era contenuto in maniera implicita. Finchè infatti la società non conobbe la grande crisi sociale portata dalla rivoluzione industriale, finchè cioè la concentrazione dei capitali e la loro separazione dal lavoro rimase contenuta ad una parte minoritaria della popolazione e non impresse il proprio marchio su tutte le principali attività umane, non ci fu alcun bisogno, all’interno del pensiero sociale cattolico, di teorizzare quale dovesse essere il giusto rapporto tra capitale e lavoro. Ci si illuse, all’inizio, che sarebbe bastato “convertire” i capitani d’industria ad un sano spirito evangelico, lasciando inalterato il fossato tra capitale e lavoro, e tutte le cose sarebbero andate a posto.
La Rerum Novarum di Leone XIII del 1891 e la Quadragesimo Anno di Pio XI del 1931 aprirono la strada ad una imponente riflessione. Il contributo del pensiero distributista fu poi decisivo, a questo proposito, per chiarire, sulla base di una sana filosofia tomista, che, per per risolvere il problema, non si trattava più di “evangelizzare” i capitalisti ma di ristabilire un ordine sociale, economico e politico che era stato distrutto e che questo ristabilimento poteva avvenire solo reintroducendo un giusto rapporto tra capitale e lavoro.
Il distributismo infatti riprende da Aristotele e San Tommaso la centralità della proprietà privata, intesa non come proprietà assoluta, cioè svincolata da qualsiasi norma di morale sociale, ma soggetta a responsabilità e collegata ai principi di sussidiarietà, solidarietà e bene comune. Approfondendo il discorso, il distributismo chiarisce il rapporto inequivocabile che esiste tra proprietà produttiva e libertà economica e politica, affermando in maniera risoluta che libertà economica e politica sono parole vuote se non accompagnate dal possesso di proprietà produttiva. Per il distributismo inoltre non può esistere vera libertà lavorativa senza possesso dei mezzi di produzione e, poiché l’aspirazione ultima dell’uomo è quella alla libertà, una libertà intesa come massima espressione delle proprie potenzialità, è sensato ritenere che qualsiasi società che miri al bene comune non può altro che puntare alla massima possibile diffusione della proprietà produttiva. Il compito dello Stato, poi, non dovrà essere quello di imporre dall’alto con la forza tale distribuzione ma di emanare una serie di leggi, prevalentemente di natura fiscale, che facilitino l’evolversi di questo processo dal basso, in modo che chiunque voglia sviluppare le sue capacità lavorative sia messo nella condizione di farlo e di ottenere in cambio il giusto, incluso l’accesso alla proprietà dei mezzi di produzione.
Avulsi da ogni tentazione demagogica, statalista od ideologica, i distributisti ritenevano che sarebbe bastato che lo Stato avesse favorito, con un adeguato regime fiscale, lo sviluppo della piccola e media impresa familiare, del piccolo artigianato, dei piccoli esercenti locali, dei piccoli proprietari terrieri in agricoltura, dei piccoli gruppi di professionisti, contro ogni indebita tendenza alla concentrazione ed al monopolio. In questo modo, cioè con la massima possibile diffusione della proprietà produttiva, si sarebbe creata quella stabilità e prosperità economica in cui ci sarebbe sempre stato chi poteva acquistare e chi poteva produrre. É chiaro che tutto questo, in una società distributista, va accompagnato dalla creazione delle gilde o corporazioni di arti e mestieri, a cui è conferito un forte potere politico-decisionale in ogni comparto lavorativo. Ciò spiega come ciascuno dei quattro punti fondanti del distributismo sia legato inestricabilmente all’altro e tutti siano ugualmente non negoziabili.
Come distributisti, ci rammarichiamo quindi profondamente che questa importante intuizione del pensiero distributista – la necessità di unire capitale e lavoro e puntare alla massima possibile diffusione della proprietà produttiva – sia stata abbandonata, insieme al resto della Dottrina Sociale Cattolica, dai laici cattolici impegnati in politica, a partire dal dopoguerra.
Tale rammarico dipende non da un vano protagonismo ma dalla consapevolezza che senza riprendere questa centrale tematica, legata al senso comune ed alla ragionevolezza, ogni tentativo di risolvere i gravi problemi economici-sociali che ci attanagliano rischia di finire in un buco nell’acqua. Se non si affrontano cioè in profondità quali sono le inconsistenze concettuali che accomunano capitalismo e social-comunismo e si continua a utilizzare, quando va bene, ibridi e derivati di questi o, peggio ancora, come succede nella maggior parte dei casi, ci si perde nelle sterili scaramucce partitocratiche, mirando a campare nella totale assenza di ogni proposta di largo respiro, temo davvero che le cose non potranno migliorare.
Non capire che l’unione tra capitale e lavoro è il punto nodale che dobbiamo implementare per uscire dalla palude in cui ci troviamo è una mancanza che tutti, cattolici e non, oggi non ci possiamo permettere.
2 commenti su “Distributismo: unione tra capitale e lavoro”
Vi ringrazio per queste puntate sul distributismo, mi hanno fatto ben capire il motivo dei “gran resettatori” di chiudere le catene ho.re.ca.: era tutto troppo distribuito!
Ora confidiamo che i “cattolici” in politica portino -in blocco- la ristorazione alle grandi catene internazionali, per il bene di tutta la filiera s’intende!
A parte le facili battute, è davvero un peccato che nessun amministratore o politico osi esporre queste tesi.
Grazie per la mirabile sintesi, sempre da annotare negli anni a venire che restano.