Mentre in Italia ci si accapiglia per Antonio Conte come le bambine viziate con le bambole, il calcio vero ci insegna che prima di essere sportivi bisogna essere uomini. Perché ci sono cose che davvero non si possono spiegare, nella vita come nel football. È il caso del turno semifinale di Champions League. Non il turno che ci si aspettava, ma il turno di “Football is coming”. Quanto accaduto in settimana ad Anfield Road e alla Cruijff Arena, ne è la testimonianza: il Liverpool ha battuto 4-0 il Barcellona dopo aver perso 3-0 all’andata, per volare in finale di Champions League il secondo anno consecutivo. Madrid sarà così invasa da una marea rossa, ma non quella sconfitta dal Caudillo. Il Tottenham ha ribaltato un 2-0 del primo tempo, dopo aver perso l’andata a Londra 0-1.
Non è la prima volta che succede. La prima squadra a rimontare un 3-0 in coppa dei Campioni fu il Panathinaikos nel 1971 contro la Stella Rossa di Belgrado, non c’eravamo, ma la sensazione di cosa sia il potere del football, che non è una distrazione peccaminosa dalla Messa domenicale, dovettero averla anche allora. Siamo costretti però, a questo punto della nostra vita, a fare delle rilevazioni importanti, calcistiche, perché sono state due partite (e rischiano di essere il prototipo de “la partita”), ma anche extracalcistiche, perché queste partite vanno oltre.
Da un punto di vista strettamente sportivo i Reds guidati da Jürgen Klopp hanno dimostrato che non è vero che si vince giocando male, perché chi mette le ali (“e son buoni tutti” cit.) gioca bene, ma poi perde. E soprattutto, fatto corroborante per lo spirito, che il Barcellona è finito come ideale calcistico-politico, e con esso il tiki taka.
Il nostro godimento personale esonda soprattutto in considerazione del fatto che tutti i giornalisti nostrani si erano sgolati per una settimana in lodi sperticate alla nazionale catalana che, oltre al risultato forgiato da una prodezza di Messi (ultimo a cedere le armi), non era certo quella squadra di marziani che volevano presentarci. I marziani esistono solo nella fantasia di chi non ama la realtà.
Al contempo gli stessi fenomeni, vestali del guardiolismo ideologico, perseguivano il dogma secondo il quale le squadre inglesi non sanno cosa sia la tattica. Dovremmo riflettere seriamente sulla tattica di gioco in Italia, che, così avvitata su se stessa, non è più una virtù, ma un problema. La tattica di Klopp, invece, è stata perfetta. Pensiamo cosa avremmo visto se sulla panchina ci fosse stato un allenatore italiano: Spalletti quella sera avrebbe tolto una punta per mettere un terzino per l’equilibrio della squadra, Allegri un centrocampista per ingolfare il centrocampo. Con il risultato che la Kop, un anno e quattro giorni dopo la vittoria della Roma sul Barcellona, non avrebbe festeggiato.
Vediamo il Liverpool: privo di Salah, Firmino, Keita e nel secondo tempo anche di Robertson per le conseguenze di una tacchettata gaglioffa di Suarez. In un furibondo avvio di partita, ha giocato i primi minuti tutti nell’area del Barcellona e alla fine ha segnato. Questo è il Liverpool, l’insostenibile incoscienza di Origi, che entra e salta uomini senza troppo pensarci, l’inconsueta potenza atletica del capitano Henderson e poi dalla panchina entra il realizzatore di speranze Gini Weijnaldum. Bisogna dare atto al Barcellona di avere onorato la partita, cercando in ogni modo di continuare a giocarsela, anziché chiudersi per proteggere il 2-0 passivo, come avrebbe fatto una qualsiasi squadra di serie A.
Alisson Becker è l’unico giocatore presente in entrambe le rimonte (Roma e Liverpool) subite dal Barcellona e è stato veramente determinante nelle tre occasioni 1 vs 1, confermandosi come miglior portiere al mondo. Ma la tattica perfetta di Klopp, a parte la forma di gioco che ha saputo dare alla sua squadra in questi anni e che ha fruttato al Liverpool 3 finali europee in 4 anni, è stata perfetta perché non è stata una tattica. Prima della partita l’allenatore non ha parlato di tattica. Gran parte del motivo per cui questa partita va oltre il calcio e parla all’uomo sta nel discorso del tedesco.
Le parole di Josè Mourinho sul rivale sono esaustive: «Sapevo che Anfield poteva essere uno di quei posti che fa diventare possibile l’impossibile, ma devo essere onesto e dirvi che questa rimonta ha un solo nome: Jürgen. Non penso che fosse una questione di tattica o di filosofia, ma è stata una questione di cuore e anima. Prima della partita qualsiasi altro manager avrebbe parlato di tattiche e schemi, invece lui è stato onesto spiegando come questo tipo di risultati non sarebbero stati frutto di studi pregressi o schemi particolari. E, mentre lo diceva, sapeva di prendersi un’enorme responsabilità. A due partite dal termine della stagione rischiano di non vincere nulla, ma credo che Jürgen meriti di portare a casa questa Champions League. I risultati che sta ottenendo sono il riflesso della sua personalità, non piange perché la sua squadra gioca troppe partite o perché ha troppi giocatori infortunati. Cerca soluzioni concrete».
Jürgen Klopp in quest’impresa ci credeva. Alla vigilia aveva detto di voler pensare a vincere la partita, un concetto che, come rivela il difensore dei Reds Dejan Lovren, il tecnico tedesco è riuscito a trasmettere alla perfezione ai suoi prima dell’ingresso in campo. Il croato parla addirittura di qualcosa che “non avevamo mai sentito prima”: «Credete. Mettetevi nella testa che possiamo farlo. Ragazzi, credete. Uno o due gol, anche se non segnate nei primi 15-20 minuti. Credete anche al 65esimo, al 66esimo, al 67esimo che possiamo segnare, e allora con Anfield alle nostre spalle, credetemi ragazzi, ce la faremo».
Un discorso straordinario, tremendamente concreto ma allo stesso tempo sublime nel significato. Un discorso da film, quei minuti sono pesanti e madidi come la fatica di ogni centimetro di “Ogni maledetta domenica”, ma questa volta la sceneggiatura non era già scritta su un copione. Il “Believe Speech” di Jurgen Klopp è entrato già di diritto nella storia della Champions e del calcio.
Verrà ricordato dagli amanti dello sport, come l’episodio di Carlo Tagnin prima della finale di Coppa dei Campioni del 1964 della Grande Inter di Helenio Herrera al Prater di Vienna. Una squadra che ha fatto la storia del calcio. Pochi minuti prima di entrare in campo, Armando Picchi chiese l’attenzione dello spogliatoio: «Signori! Un minimo di silenzio. Carlo (Tagnin) ha qualcosa da dirci». E Tagnin commosse tutti dicendo: «Signori, io non son come voi. Voi siete dei campioni. Voi di partite come questa ne giocherete tante altre nella vostra carriera, ma io no. Io sono certo che non ne giocherò più. Per favore, vincete anche per me». Uno troppo normale per avere un soprannome, un gregario ma con l’anima del campione. L’emblema dell’uomo normale che sa trascendere se stesso e entrare nella storia.
Seguiamo il calcio per questi momenti, per queste partite. Al termine dell’incontro tutto il Liverpool è sceso in campo, e con tutto si intende tutto. Non si erano mai visti tutti i giocatori, insieme ad allenatore, assistenti e collaboratori vari, raccattapalle, magazzinieri e lavapiatti abbracciarsi a partita conclusa già da qualche minuto per cantare “You’ll Never Walk Alone” insieme ai 55 mila di Anfield.
Klopp alla fine dice in diretta tv: «I bambini sono già a letto a quest’ora. Quindi vi dico: questi ragazzi sono fottutamente incredibili. Multatemi pure adesso ma non c’è altro che posso dire».
Straordinariamente rocambolesca anche la partita di Amsterdam. Non ci si divertiva così dalla sera prima. Noi stiamo a impazzire con gli schemi quando il calcio puro e emozionante è questo semplice divertimento di chi lo gioca e di chi lo vede, il furore di chi lo vuole vincere mettendoci il cuore, e il batticuore di chi lo vede con la furia negli occhi nell’attesa del gol. Così, contro un Ajax che non ha per nulla demeritato, esprimendo a tratti il gioco più brillante della competizione, gli Spurs hanno giocato fino all’ultima stilla di sudore (Dele Alli esausto si trascinava), contro ogni logica vincendo e noi, fino all’ultima goccia di birra, con loro.
I londinesi devono recuperare il gol subito all’andata, nulla è perduto, fino a quando non riescono a subirne altri due. Alla fine del primo tempo, vista da qualsiasi persona normale, la situazione è irrecuperabile, il Tottenham spacciato. Ma per uno scarto no. Lo scarto del PSG Lucas Moura entra e ne fa tre. Non contento, dopo la partita li definisce “regalo di Dio”: «E’ impossibile descrivere quello che sto provando in questo momento” – ha commentato l’attaccante brasiliano ai microfoni di Esporte Interativo, in lacrime dopo la riproposizione del suo ultimo gol commentato in portoghese – Sono molto felice e orgoglioso dei miei compagni. Ci abbiamo creduto e abbiamo dato tutto sul terreno di gioco. È un regalo di Dio. Ognuno ha lavorato duramente. Giocare qui con l’Ajax è difficile ma ho sempre creduto nei miei compagni di squadra e nelle loro qualità. Il calcio è qualcosa di incredibile, ti regala dei momenti che non potevamo nemmeno immaginare». Il calcio non è un satanico nemico della Chiesa. Il calcio può esprimere la grazia dell’uomo e l’incomprensibile bellezza del creato, condensata in una sfera dalle infinite parabole proiettate dall’umile piede umano e in balia delle forze insondabili della natura, per l’estro e la gioia dei figli di Dio. Basta saperlo vedere. Il football è Dio, palla e famiglia.
Quella che ringrazia Mauricio Pochettino, l’allenatore (poco conosciuto) degli Spurs. Pochettino, altro uomo normale che fa una cosa straordinaria, ringrazia la famiglia e scoppia in lacrime davanti ai microfoni delle tv nel post partita. Uomo. Professionista che porta per la prima volta nella sua storia il Tottenham in finale, senza aver fatto alcun acquisto o cessione, per terminare il nuovo stadio, costato 1 miliardo di sterline. Non ha vinto niente, ha solo mentalità, cuore. «Straordinario, i miei giocatori sono degli eroi. Il secondo tempo è stato incredibile. Grazie al calcio, queste emozioni fuori da questo sport non esistono. Ringrazio i tifosi, ringrazio chi ha creduto in noi dall’inizio della stagione. Non ho molte parole, mi mancano in questo momento. È il momento più importante della mia carriera. Ora penso alla mia famiglia, alle mie origini, a tutta la mia storia. Dedico a loro e a chi mi ha sempre supportato anche nei periodi difficili questa impresa».
“It was impossible so…. WE DID IT” ha scritto il centrocampista Sissoko. Per noi: Dio, palla e famiglia. Ma è la stessa cosa.
Al termine di queste due partite, che rischiano di diventare “la partita”, il paradigma calcistico del ventunesimo secolo, chiunque ami il football è oggi consapevole che così devono essere tutte le partite. Chiunque non lo conosca, invece, viste queste, se ne è innamorato.
Un minuto di compassionevole silenzio per tutti quelli a cui il calcio fa schifo.
Fate vedere questo calcio ai bambini delle scuole calcio, fate loro vedere che il calcio sa andare oltre lo sporco che vediamo ogni giorno, dite loro che esiste sempre una speranza. Never give up, dicono gli Inglesi. Risultato, tattica, fitness, tutto collabora, ma è importante prima essere uomini. Il resto verrà. Perché «Ogni maledetta domenica si vince o si perde, resta da vedere se si vince o si perde da uomini» (Tony D’Amato, interpretato da Al Pacino, in “Ogni maledetta domenica”).
Ora, dopo le lacrime, il sudore, la gioia e la paura, la finale è quasi superflua e rischia persino di essere una delusione. Ma queste due squadre meriterebbero entrambe di vincere, ci hanno mostrato il bello del football e possono farlo ancora, con in più le rispettive stelle in campo: Salah e Kane.
Ora, dopo la scrematura, a Madrid sono attesi 60 mila Inglesi, mentre il prezzo della birra rimane di 3.50 euro.
Per festeggiare a base di birra gelata e jambalaya attendiamo l’esito della finale, intanto, mentre i bambini dormono confesso anche io una cosa: «I f*cking love football».
5 commenti su “DIO, PALLA E FAMIGLIA Resta da vedere se si vince o si perde da uomini – di Matteo Donadoni”
Il Liverpool è di proprietà americana ed ha allenatore tedesco. Il Tottenham è di proprietà ebrea (benché inglese) ed ha allenatore argentino. Il Chelsea è di proprietà russa ed ha allenatore italiano (Deo gratias!). L’ Arsenal è di proprietà americana ed ha allenatore spagnolo. Non so quanti giocatori inglesi militino in questi club, ma mi pare siano una sparuta minoranza.
Il successo dei club inglesi è uno specchio della mondializzazione, perciò ritengo meriti solo esecrazione, indipendentemente dalla bontà dello spettacolo che hanno fornito.
Beh, lo stesso si può dire delle squadre italiane. Che però non vincono una cippa. Quindi cornuti per cornuti, gli inglesi almeno non sono anche mazziati…
Calcio uno degli sport dove abilità pura conta meno…attira perchè dannatamente simile alla vita…puoi essere bravo finche vuoi ma senza fortuna no vai da nessuna parte…alla faccia di chi si lava la bocca con aggettivi apocalittici…sacrificio dedizione applicazione…ce li mettono tutti…uno solo vince.
Ieri in piazza San Pietro Forza Nuova ha contestato apertamente Bergoglio paragonandolo a Badoglio che per i fascisti è sempre stato sinonimo di traditore; infatti voi non dite sempre che il papa tradisce la chiesa di Cristo e stravolge la dottrina? Ora sarete contenti di questa manifestazione antipapista e dovreste votare per Forza Nuova.
È vera una cosa. Prima di tutto bisogna essere persone serie. Cioè: lealtà, serietà, passione, impegno, fiducia, rispetto, lavoro. Anche se si perde. Le furbizie, le scorciatoie, l’opportunismo, l’utilitarismo he in Italia abbiamo praticato per decenni ora lo pagheremo per decenni. Non facciamoci illusioni, il prossimo anno i super-ricchi torneranno a vincere. Ma è stato bello vedere società “normali” giocarsela alla pari.