Il difficile è volere e “intelligere” il limite, scrive un filosofo di rara sapienza, Pier Paolo Ottonello, nel suo prezioso La barbarie civilizzata. Ai filosofi sfugge talvolta la ragion pratica. Non sempre vanno al fondo della domanda che sorge spontanea ai semplici: cui prodest, a chi giova? Il nemico del limite, l’elemento che ne organizza la scomparsa è l’unico che se ne avvantaggia, il liberismo economico nella forma globalizzata di dominio finanziario e tecnoscientifico.
Lo scopo è l’economicizzazione di tutto, la trasformazione in fatto economico di ogni aspetto della vita, la mercificazione senza regole né confini. Il verme è nel frutto coltivato dal liberismo, la melliflua volontà di potenza che ha ucciso il sacro, il simbolo, il morale sull’altare apocrifo del libero scambio. La sua logica travolge il limite per distruggere modi di vita, dilapidare patrimoni sociali accumulati in secoli se non in millenni. La posta in palio è la conquista delle menti e dell’immaginario, riconvertite in macchine a gettone dei desideri da rilanciare sempre “oltre”.
Non sfugge a tale logica il tempo, il cui nuovo paradigma è cumulativo e lineare, teso al dominio della natura sino a modificarla nel profondo– si pensi agli OGM, organismi geneticamente modificati per esclusive ragioni di sfruttamento economico – in nome di una fede insensata nella ragione calcolante e strumentale come unico movente dell’agire umano. Nel recente passato, persino l’equilibrio del terrore determinato dagli armamenti atomici in grado, per la prima volta, di distruggere la terra e la presenza umana sul pianeta, fu un limite. La nozione stessa di equilibrio richiama un limite, il punto critico al di là del quale non ci si deve sporgere.
È sconvolgente, in tempi di costanti litanie sulla democrazia e la libertà, che siano saltati tutti i limiti giuridici e la realtà effettuale dimostri che è il potere, la pura forza a fare il diritto (might make right), eppure lo ha ripetuto senza essere contraddetto da alcuno un banchiere, Mario Draghi, ricordando agli immemori chi comanda davvero. Illimitato, infatti, è innanzitutto il potere dei mercati finanziari, cioè di chi li domina, tesi a includere tutto, ma proprio tutto, vite e corpi compresi, nel novero del compravendibile a cui assegnare un codice a barre.
Il primo limite ad essere aggredito è quello geografico territoriale. Un filosofo francese, Thierry Paquot ha scritto un dialogo surreale che così inizia: Da dove vieni? Da lì. Ma quale lì? Un lì mobile, mutante, molteplice, a-geografico. La parola limite è geopolitica, la radice sta nel latino limes, la barriera costruita dall’impero romano per difendere i propri confini che presto ha assunto il significato di frontiera. In tempi in cui da ogni lato dell’Occidente agonizzante si invita ad abbattere muri, ci piace citare due intellettuali francesi di orientamento progressista, Régis Debray e Serge Latouche, che hanno difeso l’idea di confine. Debray ha pubblicato un Elogio delle frontiere in cui attacca quello che chiama senzafrontierismo, una sorta di colonialismo culturale sublimato. La frontiera è fondamentale per riconoscere l’altro e riconoscerne la dignità.
Latouche afferma che la frontiera non isola, filtra, ed è indispensabile per ritrovare l’identità necessaria allo scambio con l’altro. “Al contrario di quel che sostiene la tesi mondialista, non c’è democrazia senza capacità del corpo dei cittadini di darsi dei limiti”. In questo senso è priva di logica, è anzi un grottesco ossimoro, la pretesa di essere cittadini del mondo, tanto gradita ai superpadroni. Viene da loro la visione degli Stati come macchine oppressive. La verità è opposta: nella visione dei nemici dei limiti, territoriali, geografici e giuridici, le istituzioni pubbliche devono ridursi a esecutori degli ordini diramati dal potere gerarchico anonimo, l’oligarchia plutocratica mondiale. Nei confronti degli amministrati, al contrario, l’imperativo è comportarsi da occhiuti, inflessibili prefetti di polizia, tipo Javert, il personaggio dei Miserabili di Victor Hugo implacabile persecutore di Jean Valjean.
Lo Stato è destituito di fondamento in quanto “limite”, baluardo, tanto che un intellettuale libertario, lo scrittore Michel Houellebecq ha affermato, a proposito della Francia, che “è un albergo a ore nei cui confronti non si ha alcun dovere”. Triste destino per l’orgogliosa patria inventrice della nazione figlia dei lumi di cui l’abate Sieyés disse che è preesistente a tutto, origine di tutto, la cui volontà è sempre conforme alla legge perché è la legge stessa. Un esercizio di illimitatezza entro un pezzo di mondo.
La Via Crucis prosegue con l’abbattimento dei confini delle civiltà e la distruzione delle distinzioni culturali. Si avanza a passo di carica verso il pianeta uniforme, ma il paradosso è che la sedicente crescita culturale, ribattezzata emancipazione dalla ristrettezza di ogni cultura (che è al contrario l’insieme dei valori che costituiscono le frontiere di un gruppo umano) incontra gli stessi ostacoli, la medesima impossibilità della crescita economica illimitata. Non si possono sfruttare all’infinito le risorse del pianeta senza distruggerlo – lo vietano il secondo principio della termodinamica e l’entropia- ma nemmeno è possibile spremere all’ infinito, dandogli il nome di evoluzione dei costumi, “il tesoro antropologico accumulato dalle generazioni precedenti senza compromettere la condizioni stesse della sopravvivenza morale dell’umanità” (Jean Paul Michéa).
Il limite ha un profondo significato etico, la cui radicale messa in discussione avviene esclusivamente con l’avvento della modernità e l’egemonia dell’Occidente. E’ stata istituita una cultura dell’illimitato la cui religione è l’economia, etimologicamente “cattolica” nella sua pretesa universale. L’Occidente, megamacchina tecnica ed economica, respinge ai margini un’immensa periferia grande quanto il mondo, erode e schiaccia tutto ciò che non si conforma al modello a taglia unica. L’illimitatezza contiene altresì i tratti regressivi della deculturazione, la distruzione dei patrimoni culturali allo scopo di sostituire le visioni del mondo altrui con l’Unica.
Si finisce per pensare con la sua testa, guardare con i suoi occhi, desiderare di sciogliersi nell’illimitato chiamato di volta in volta consumo, tolleranza, progresso, cosmopolitismo. Tra gli effetti visibili la volgarità elevata a sistema di vita, la superficialità dilagante, il conformismo di individui atomizzati “diversamente identici” cui è proibito ogni termine di paragone, l’imbarazzante riduzionismo culturale in cui si inseguono al ribasso uno specialismo sempre più parcellizzato e una vernice sottilissima di sapere standardizzato da Bignami scolastico.
La società senza limite si considera autonoma, sciolta dai legami, la più libera di ogni tempo, ma è la più eteronoma di tutte, soggetta a ben tre dittature, quella dei mercati finanziari, quella dell’economia misura di tutte le cose dotata di leggi indiscutibili, e l’ultima, quella delle tecnoscienze, possedute dagli stessi padroni. Il furore universalistico tracima nella negazione di qualsiasi alterità, dimostrando la validità di un paradosso matematico, il teorema di Goedel, l’insieme di tutti gli insiemi non è un insieme. Una cultura, per esistere, ha bisogno di confronto. Condizione per la sua esistenza è la pluralità, non può sussistere una cultura dell’universale. Abolire il limite significa agitarsi nel vuoto, di cui la natura umana ha orrore (horror vacui), ed al quale risponde con esplosioni identitarie violente e spesso totalitarie.
L’illimitatezza economica determina la collisione con la natura i cui limiti ecologici sono simboleggiati dall’entropia, l’irreversibilità finale delle trasformazioni dell’energia, dimostrata da Sadi Carnot nel 1824. L’indifferenza nei confronti della natura da parte dell’economia, pseudo scienza al servizio della “crescita “illimitata, è sconcertante e non risparmia alcuna ideologia moderna. La teoria neoclassica, eliminando la Terra dalle funzioni della produzione, rompeva gli ultimi legami con la natura al tempo in cui Marx ed Engels ignoravano gli avvertimenti di Sergei Podolinskij, autore del primo trattato di economia energetica. Solo da pochi anni, e in ambiti ristretti, si rivaluta l’opera di Nicholas Georgescu Roegen, che vincolò la scienza economica alla biologia, la freccia del tempo nella cornice della meccanica newtoniana.
Il sistema non ascolta ragioni, e il XXI secolo dirà se l’irruzione sulla scena mondiale di giganti come Cina e India sarà compatibile con l’equilibrio generale del pianeta, limitato da 51 miliardi di ettari di superficie utilizzabile. I cinesi stanno lavorando allo sfruttamento dei mari e lanceranno in orbita un mega satellite di mille tonnellate, un gigantesco apparato provvisto di pannelli per catturare energia solare dalla biosfera. Nulla di strano, poiché il vangelo postmoderno sposa il postulato della crescita infinita non perché sia possibile, ma perché così deve essere. L’accumulazione senza limiti ha come esito la società dei consumi; consumare è sinonimo di esaurire, gettare via, tanto che un oceano di rifiuti di milioni di chilometri quadrati galleggia tra i sette mari. Aveva ragione Marx rilevando che il capitale percepisce qualsiasi limite come un intralcio, salvo prendere atto che l’economia collettivista si è comportata alla stessa maniera con risultati peggiori.
Alla base, vi è sempre la logica della ragione strumentale e mercantile- illimitata – e il meccanismo dell’interesse composto, il cui germe è il primato del virtuale sul reale, l’autogenerazione del capitale come cuore della logica di accumulazione senza freni. Una sconfitta di Aristotele, avversario della crematistica, la ricchezza per la ricchezza, interprete del ripudio greco per la hybris in nome della phrònesis, la saggezza che orienta le scelte, distinta dalla sapienza. La perfezione spirituale, nella cultura spazzata via dal progresso modernista, sta nell’attitudine all’equilibrio chiamata dai greci sophrosyne. Tutto dimenticato in nome della globalizzazione, tappa decisiva sulla via dell’abbattimento di ogni limite. Si può, quindi si deve produrre, investire, disinvestire, sfruttare dove è più profittevole, disinteressati a uomini, cultura, natura.
Un limite caduto è, dicevamo, quello del consumo, che la pubblicità, estesa anch’essa oltre ogni ambito, induce attraverso il lavoro dei suoi funzionari, mercanti di scontento e desiderio. Di pari passo, vengono screditati e azzerati i limiti della conoscenza, vista come onnipotenza tecnoscientifica. Le nuove scienze ri- fabbricano il mondo e riproducono la vita senza riguardo per nulla. Lo stesso termine “artificiale” ha perduto la sua connotazione iniziale, negativa, ed è divenuto sinonimo di qualcosa in grado di eccedere i limiti naturali. E’ la rivincita postuma di Pelagio, il monaco britannico del IV secolo sostenitore dell’autonomia della volontà umana da Dio, che ci ha dato la capacità di perfezionarci senza limite, negando l’estensione all’intera umanità del peccato originale di Adamo.
Del resto, anche la religione non ha limiti, ciascuno se ne può fabbricare una a sua immagine, magari mettendola sul mercato e guadagnandoci, poiché l’unico confine sta nella possibilità, per un’idea, un oggetto, una scoperta, di alimentare il mercato e potersi misurare in termini di valore aggiunto, prodotto lordo.
Il limite, con buona pace dell’umanità nuova, resta essenzialmente un fatto morale. Talora lo capiscono meglio i comici come Groucho Marx, con la battuta: ho dei principi, e se non vi piacciono ne ho altri. La liberazione dalla gabbia degli imperativi etici è risolta in un immoralismo corruttore di massa, distruttivo del legame sociale, una forma nuova di banalità del male. L’ideologia libertario tecnocratica, in realtà, non abolisce esplicitamente la morale, fa di peggio, rendendola relativa, temporanea, valida sino alla prossima scoperta, il momento in cui l’asticella dovrà essere spostata per l’ennesima volta. Trasgredire, nel senso di rifiutare ogni limite, sembra l’unico anelito dell’ipermodernità.
Un altro attentato ai limiti è l’utopia democratica che rigetta le differenze costitutive. Sradicate le radici individuali e comunitarie, lo comprese bene Simone Weil, niente può fermare la rivendicazione di diritti (o capricci) sempre nuovi. Il limite stesso della condizione umana è messo in discussione in nome del rifiuto di confini per la stessa democrazia, garante del diritto assoluto ad un impossibile benessere illimitato. La hybris ipermoderna sfocia nel rifiuto della condizione umana in nome della superiorità “tecnica”. Il bene comune, un limite antico e concreto, è abbandonato in nome dell’efficienza. Ciò che conta è il risultato, anzi la performance. Chi resta indietro nella corsa è colpevole, non ha colto le opportunità, si è attenuto al limite.
Sconfiggere l’entropia, ovvero la dissipazione dell’energia, ricreare ciò che si è consumato, sembra il prossimo traguardo, forse il definitivo, poiché la posta titanica è l’abolizione della morte. Nel racconto dello scrittore di fantascienza Isaac Asimov L’ultima domanda, alcuni uomini chiedono al supercomputer definitivo se si possa sconfiggere il secondo principio della termodinamica. L’apparato artificiale risponde “informazioni insufficienti”, ma il racconto termina quando, in un mondo ritornato al caos primigenio, il computer sopravvissuto ordina: “che la luce sia”. E la luce fu.
(Seconda e ultima parte)
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1 commento su “Difesa ragionata del limite (seconda parte) – di Roberto Pecchioli”
Bellissimo