Il gambetto è una mossa del gioco degli scacchi attraverso la quale un giocatore accetta di perdere alcune pedine in vista di un attacco su larga scala. Sul tema dei dazi, Donald Trump sta giocando una partita la cui scacchiera è il mondo, mettendo in conto alcuni danni collaterali, la turbolenza di Wall Street – le borse detestano qualunque cambiamento dello status quo – oltre all’irritazione della Cina, il maggiore partner commerciale americano, colosso liberoscambista solo in uscita, poiché il mercato interno è blindato dal severo dirigismo dei mandarini di Xi Jin Ping.
La prima osservazione è che il presidente dal ciuffo arancione ha dato una forte scossa all’albero del libero scambio. Il mito mercatista della globalizzazione senza limiti e senza dazi subisce una battuta d’arresto. Decenni di ideologia ultraliberista, resa dogma a metà degli Anni 90 con l’accordo di Marrakesch, vengono finalmente messi in discussione. Qualche settimana fa Trump aveva iniziato a segare l’albero, innalzando barriere tariffarie nei confronti di paesi come il Messico, la Corea del Sud e in genere il Sud del mondo in cui sono concentrate le delocalizzazioni industriali, colpendo peraltro settori non strategici, come il tessile.
Adesso l’operazione è più massiccia: si tratta di dazi sull’acciaio, un comparto industriale pesante, ancora decisivo per l’economia del mondo e il destinatario delle misure è soprattutto la Cina, la seconda economia del mondo. Poi, potrebbe toccare alla Germania, ovvero, ci piaccia o no, anche a noi. Il timore tedesco è palpabile, il rigetto tedesco in sede europea della web tax, un’imposta sacrosanta destinata ai giganti tecnologici che hanno sede e influenza determinante negli Usa, va letto in un’ottica di difesa preventiva. Ciò che l’ordoliberismo teutonico vuole scongiurare ad ogni costo è l’imposizione di dazi o contingenti alle ricche esportazioni della sua industria automobilistica, meccanica e metallurgica.
I numeri parlano chiaro: metà dell’acciaio mondiale è prodotta in Cina, i dazi peseranno su un giro d’affari superiore ai 60 miliardi di dollari annui. La partita è enorme, la posta in gioco l’egemonia per i prossimi decenni. La novità è che tornano regole e misure antiche: il protezionismo, le tariffe doganali a modulare volumi e allocazione dell’import/export in base a criteri politici, ovvero l’interesse nazionale. Va in soffitta la fine della storia evocata da Fukuyama; subisce un colpo l’ideologia liberista. Salta, o almeno è revocato in dubbio il dogma, la religione secolare mercatista.
È probabile che nuove misure interessino a breve termine altri due settori chiave, l’elettronica e le calzature. The Donald, repubblicano anomalo, colpisce al cuore la globalizzazione; può vincere, ma può anche perdere. Le cifre, tuttavia, lasciano scarso margine ai dubbi. Il surplus commerciale americano è schiacciante nei confronti delle economie meno importanti del pianeta, ma il disavanzo nei confronti della altre potenze industriali è da capogiro. La sola Cina, secondo dati del New York Times, ha totalizzato nel 2017 un avanzo di 375 miliardi nei confronti dell’economia a stelle e strisce, mentre il totale del deficit commerciale è di ben 566 miliardi. Giappone e Germania occupano le posizioni di rincalzo al primato del Dragone. Si tratta delle cifre più alte dell’ultimo decennio, caratterizzato dalle politiche liberiste di Barack Obama.
In gioco non è più soltanto il destino di alcuni comparti industriali Usa e dei milioni di posti di lavoro ad essi legati, ma la stessa capacità degli Usa di rimanere una grande potenza manifatturiera. In questo senso, la politica di Trump è un’iniezione di realtà di fronte alla finanza, alle sue bolle, alle sue scommesse usuraie. Il fatto che sconcerta i liberisti duri e puri, i monetaristi, i sostenitori della religione della scarsità è che l’amministrazione Usa sceglie di non far pagare il conto a decine di milioni di americani della strada. Niente laissez faire, laissez passer, nessuna contrazione della domanda interna per via fiscale, ma il suo reindirizzo verso produzioni domestiche, evitando il dumping salariale tanto caro ai liberisti classici.
La leva fiscale, così attiva in Italia – vero Mario Monti salvatore della patria finanziaria? – viene impiegata per liberare risorse e tenere il denaro nelle tasche di cittadini e produttori, nella speranza che li investano nel mercato interno, primo volano di ricchezza di una nazione, con buona pace dei liberisti da accademia. Nulla a che vedere con la famigerata riforma del lavoro Hartz IV della Germania mercantilista, che ha prodotto una diffusa sottooccupazione a basso reddito insieme con profitti immensi per il sistema industriale teso all’esportazione. I beneficati restano minoranza, si sgretola il consenso dell’insieme del popolo tedesco, che nega ormai la maggioranza all’asse destra/sinistra di sistema, costringendo a perpetuare l’alleanza tra la Merkel e i socialdemocratici, a loro volta abbandonati da milioni di operai e impiegati.
Ciononostante, l’Europa si ostina nel liberoscambismo dei perdenti. Se la reazione stizzita dei tedeschi a Trump è comprensibile – potrebbero rimetterci 100 miliardi- appare francamente ridicola quella dell’enfant prodige di casa Rothschild, Emmanuel Macron, se non nell’ottica tutta francese di una grandeur al passato remoto, da “vorrei ma non posso”. Non stupisce il silenzio italiano; manca il governo, certo, ma soprattutto non abbiamo ancora capito chi la spunterà per saltare sul carro vincente. L’interesse nazionale è tuttavia chiaro: approfittare del vento che spira dall’America per far saltare i piani franco tedeschi, da sempre interessati a perpetuare la debolezza italiana in quanto ne temono la capacità manifatturiera insieme con l’adattabilità culturale delle nostre imprese ai mutamenti economici, tecnologici e di mercato.
Uno studio condotto da economisti di primarie università americane, insospettabili di pulsioni dirigiste o conati socialisti, conclude che un libero scambio totale, con l’abolizione completa di dazi, tariffe, quote e divieti, avrebbe un effetto risibile sul PIL mondiale. L’aumento sarebbe dello 0,1 per cento, ma aggraverebbe in maniera pesante i costi di distribuzione e, aggiungiamo noi, provocherebbe ulteriori disastri ambientali, sociali e antropologici. Viene quindi a proposito la scossa protezionista che potrebbe imprimere una svolta dopo oltre 30 anni di dominio culturale e di pratica liberista.
In Europa ci si aspetterebbe un dibattito non preconcetto. Con tutti i limiti e rischi di insuccesso a lungo termine, gli Usa mostrano di avere una visione di futuro, un progetto centrato su se stessi. Il loro vantaggio è indiscusso, stanno per tornare esportatori di energie fossili, il prezzo salirà anche per effetto del nuovo embargo che colpirà l’Iran, hanno l’esercito più potente del mondo, il dollaro è la valuta di riferimento del commercio mondiale. Ma che fa questa davvero vecchia Europa? Stretta tra l’ordoliberismo dell’Unione e della banca centrale più il tenace sogno di egemonia tedesca, un lebensraum (spazio vitale) fatto di mercantilismo e deflazione, scarsa di risorse naturali, afflitta da una drammatica denatalità, conosce un solo linguaggio. È quello al tramonto di un libero scambio forzato in cui sistemi economici, fiscali, produttivi, culturali assai differenti vengono costretti a convivere in una gabbia in cui il domatore (la finanza) è alleato con il leone (la Germania).
Il gambetto di Trump resta una mossa a rischio. Vedremo la contromossa cinese, gigante improvvidamente accolto al tempo di Clinton nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, da cui resta esclusa la Russia. Il Dragone possiede una quota significativa del debito pubblico americano, eventuali reazioni finanziarie avrebbero ripercussioni enormi. Quelle strettamente economiche potrebbero interessare le strategiche esportazioni statunitensi in Cina di grano e soia del Midwest, ma è più probabile una cauta apertura del mercato interno da parte di Pechino in cambio di un alleggerimento dei dazi americani.
Con tutte le cautele e senza illudersi troppo, sarebbe il momento di un’Europa finalmente indipendente e, dentro di essa, dell’Italia. L’onda liberoscambista per la prima volta dagli Anni 80 conosce una risacca, è il caso di approfittarne per riprendere le chiavi di casa. La secolare fobia antirussa di Gran Bretagna e Usa – il vecchio impero e quello in carica – dovrebbero consigliarci di guardare a Est, dove sorge il sole, per bilanciare la tradizionale stretta degli interessi francesi e britannici, e quella, più recente ma non meno pervasiva della nostra dipendenza dagli Usa.
Chiusa da oltre un quarto di secolo la lunga parentesi comunista, gli scricchiolii del liberoscambismo potrebbero determinare un doppio esito in chiave continentale, la riconfigurazione dei rapporti intraeuropei, riducendo il peso della Germania e l’infondata boria francese e, da parte italiana, la fine dell’interminabile dopoguerra da nazione sconfitta. La partita è all’inizio, la rinascita dei dazi non va (ancora) enfatizzata, ma può contribuire a cambiare in meglio il mondo. Potrebbe ritornare, in qualche misura, il ruolo degli Stati sovrani. La domanda essenziale, dal nostro angolo visuale, è se l’Italia parteciperà al gioco o se resteremo una remota, residuale provincia dell’Impero; finanziario transnazionale, americano o europoide, ma sempre straniero.