RADIOMESSAGGIO DI SUA SANTITÀ PIO XII
PENTECOSTE 1941
nel 50° anniversario della «Rerum novarum»
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La solennità della Pentecoste, glorioso natale della Chiesa di Cristo, è all’animo Nostro, diletti figli dell’universo intero, un dolce e propizio invito fecondo di alto ammonimento, per indirizzarvi, tra le difficoltà e i contrasti dei tempi presenti, un messaggio di amore d’incoraggiamento e di conforto. Vi parliamo in un momento, in cui tutte le energie e forze fisiche e intellettuali di una porzione sempre crescente dell’umanità stanno, in misura e con ardore non mai prima conosciuti, tese sotto la ferrea inesorabile legge di guerra: e da altre parlanti antenne volano accenti pregni di esasperazione e di acrimonia, di scissione e di lotta.
Ma le antenne del Colle Vaticano, della terra consacrata a centro intemerato della Buona Novella e della sua benefica diffusione nel mondo dal martirio e dal sepolcro del primo Pietro, non possono trasmettere se non parole che s’informano e si animano dello spirito consolatore della predica, di cui alla prima Pentecoste per la voce di Pietro risonò e si commosse Gerusalemme; spirito di ardente amore apostolico, spirito che non sente brama più viva e gioia più santa di quella di tutti condurre, amici e nemici, ai piedi del Crocifisso del Golgota, al sepolcro del glorificato Figlio di Dio e Redentore del genere umano, per convincere tutti che solo in lui, nella verità da lui insegnata, nell’amore di lui, benefacendo e sanando tutti, dimostrato e vissuto fino a far sacrificio di sé per la vita del mondo, si può trovare verace salvezza e duratura felicità per gl’individui e per i popoli.
[3] In quest’ora, gravida di eventi in potere del consiglio divino, che regge la storia delle nazioni e veglia sulla Chiesa, è per Noi gioia e soddisfazione intima, nel far sentire a voi, diletti figli, la voce del Padre comune, il chiamarvi quasi ad una breve e universale adunata cattolica, affinché possiate sperimentalmente provare nel vincolo della pace la dolcezza del cor unum e dell’ anima una, (Cf At 4,32.) che cementava, sotto l’impulso dello Spirito divino, la comunità di Gerusalemme nel dì della Pentecoste. Quanto più le condizioni, originate dalla guerra, rendono in molti casi difficile un contatto diretto e vivo tra il Sommo Pastore e il suo gregge, con tanta maggior gratitudine salutiamo il rapidissimo ponte di unione, che il genio inventivo dell’età nostra lancia in un baleno attraverso l’etere collegando oltre monti, mari e continenti ogni angolo della terra. E ciò che per molti è arma di lotta, si trasforma per Noi in strumento provvidenziale di apostolato operoso e pacifico, che attua e innalza a un significato nuovo la parola della Scrittura: «In omnem terram exivit sonus eorum; et in fines orbis terrae verba eorum» (Sal 18,5; Rm 10,18). Così pare che si rinnovi il gran miracolo della Pentecoste, quando le diverse genti dalle regioni di altre lingue convenute in Gerusalemme ascoltavano nel loro idioma la voce di Pietro e degli Apostoli. Con sincero compiacimento Ci serviamo oggi di un tal mezzo meraviglioso, per attirare l’attenzione del mondo cattolico sopra una ricorrenza, meritevole di essere a caratteri d’oro segnata nei fasti della Chiesa: sul cinquantesimo anniversario, cioè, della pubblicazione, avvenuta il 15 maggio 1891, della fondamentale enciclica sociale Rerum novarum di Leone XIII.
Mosso dalla convinzione profonda che alla Chiesa compete non solo il diritto, ma ancora il dovere di pronunziare una parola autorevole sulle questioni sociali, Leone XIII diresse al mondo il suo messaggio. Non già che egli intendesse di stabilire norme sul lato puramente pratico, diremmo quasi tecnico, della costituzione sociale; perché ben sapeva e gli era evidente – e il nostro predecessore di s. m. Pio XI lo ha dichiarato or è un decennio nella sua enciclica commemorativa Quadragesimo anno – che la Chiesa non si attribuisce tale missione. Nell’ambito generale del lavoro, allo sviluppo sano e responsabile di tutte le energie fisiche e spirituali degl’individui e alle loro libere organizzazioni si apre un vastissimo campo di azione multiforme, dove il pubblico potere interviene con una sua azione integrativa e ordinativa, prima per mezzo delle corporazioni locali e professionali, e infine per forza dello Stato stesso, la cui superiore e moderatrice autorità sociale ha l’importante ufficio di prevenire i perturbamenti di equilibrio economico sorgenti dalla pluralità e dai contrasti degli egoismi concorrenti, individuali e collettivi.
E’ invece inoppugnabile competenza della Chiesa, in quel lato di ordine sociale dove si accosta ed entra a toccare il campo morale, il giudicare se le basi di un dato ordinamento sociale siano in accordo con l’ordine immutabile, che Dio creatore e redentore ha manifestato per mezzo del diritto naturale e della rivelazione: doppia manifestazione, alla quale si richiama Leone XIII nella sua enciclica. E con ragione: perché i dettami del diritto naturale e le verità della rivelazione promanano per diversa via, come due rivi d’acque non contrarie, ma concordi, dalla medesima fonte divina; e perché la Chiesa, custode dell’ordine soprannaturale cristiano, in cui convergono natura e grazia, ha da formare le coscienze, anche le coscienze di coloro, che sono chiamati a trovare soluzioni per i problemi e i doveri imposti dalla vita sociale. Dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e s’insinua anche il bene o il male nelle anime, vale a dire, se gli uomini chiamati tutti ad essere vivificati dalla grazia di Cristo, nelle terrene contingenze del corso della vita respirino il sano e vivido alito della verità e della virtù morale o il bacillo morboso e spesso letale dell’errore della depravazione. Dinnanzi a tale considerazione e previsione come potrebbe esser lecito alla Chiesa, madre tanto amorosa e sollecita del bene dei suoi figli, di rimanere indifferente spettatrice dei loro pericoli, tacere o fingere di non vedere e ponderare condizioni sociali che, volutamente o no, rendono ardua o praticamente impossibile una condotta di vita cristiana, conformata ai precetti del Sommo Legislatore?
Consapevole di tale gravissima responsabilità Leone XIII, indirizzando la sua enciclica al mondo, additava alla coscienza cristiana gli errori e i pericoli della concezione di un socialismo materialista, le fatali conseguenze di un liberalismo economico, spesso inconscio o dimentico o sprezzante dei doveri sociali; ed esponeva con magistrale chiarezza e mirabile precisione i principi convenienti e acconci a migliorare – gradatamente e pacificamente – le condizioni materiali e spirituali dell’operaio.
Che se, diletti figli, oggi, dopo un cinquantennio dalla pubblicazione dell’enciclica, voi Ci domandate fino a qual segno e misura l’efficacia della sua parola corrispose alle nobili intenzioni, ai pensieri ricchi di verità, ai benefici indirizzi intesi e suggeriti dal suo sapiente Autore, sentiamo di dovervi rispondere: proprio per rendere a Dio onnipotente, dal fondo dell’animo Nostro, umili grazie per il dono, che, or sono cinquant’anni, largì alla Chiesa con quell’enciclica del suo vicario in terra, e per lodarlo del soffio dello Spirito rinnovatore, che per essa, da allora in modo sempre crescente, effuse sull’umanità intera. Noi, in questa solennità della Pentecoste, Ci siamo proposti di rivolgervi la Nostra parola.
Già il nostro Predecessore Pio XI esaltò nella prima parte della sua enciclica commemorativa la splendida messe, cui aveva maturata la Rerum novarum, germe fecondo, donde si svolse una dottrina sociale cattolica, che offrì ai figli della Chiesa, sacerdoti e laici, ordinamenti e mezzi per una ricostruzione sociale, esuberante di frutti; sicché per lei sorsero nel campo cattolico numerose e varie istituzioni benefiche e fiorenti centri di reciproco soccorso in favore proprio e d’altrui. Quale prosperità materiale e naturale, quali frutti spirituali e soprannaturali, non sono provenuti agli operai e alle loro famiglie dalle unioni cattoliche! Quanto efficace e opportuno al bisogno non si è dimostrato il contributo dei sindacati e delle associazioni in pro del ceto agricolo e medio per sollevarne le angustie, assicurarne la difesa e la giustizia, e in tal modo, mitigando le passioni, preservare da turbamenti la pace sociale!
Né questo fu tutto il vantaggio. L’enciclica Rerum novarum, accostandosi al popolo, che abbracciava con stima e amore, penetrò nei cuori e nelle menti della classe operaia e vi infuse sentimento cristiano e dignità civile; a segno tale che la potenza dell’attivo suo influsso venne, con lo scorrere degli anni, così efficacemente esplicandosi e diffondendosi, da far diventare le sue norme quasi comune patrimonio della famiglia umana. E mentre lo Stato, nel secolo decimonono, per soverchio esaltamento di libertà, considerava come suo scopo esclusivo il tutelare la libertà con il diritto, Leone XIII lo ammonì essere insieme suo dovere l’applicarsi alla provvidenza sociale, curando il benessere del popolo intero e di tutti i suoi membri, particolarmente dei deboli e diseredati, con larga politica sociale e con creazione di un diritto del lavoro. Alla sua voce rispose un’eco potente; ed è sincero debito di giustizia riconoscere i progressi, che la sollecitudine delle autorità civili di molte nazioni hanno procurato alla condizione dei lavoratori. Onde ben fu detto che la Rerum novarum divenne la Magna Charta dell’operosità sociale cristiana.
Intanto trascorreva un mezzo secolo, che ha lasciato solchi profondi e tristi fermenti nel terreno delle nazioni e delle società.
Le questioni, che i mutamenti e rivolgimenti sociali e soprattutto economici offrivano a un esame morale dopo la Rerum novarum sono state con penetrante acutezza trattate dal Nostro immediato Predecessore nella enciclica Quadragesimo anno. Il decennio che la seguì non fu meno ricco degli anni anteriori per sorprese nella vita sociale ed economica, e ha versate le irrequiete e oscure sue acque nel pelago di una guerra, che può avere imprevedibili flutti urtanti l’economia e la società.
Quali problemi e quali assunti particolari, forse del tutto nuovi, presenterà alla sollecitudine della Chiesa la vita sociale dopo il conflitto che mette a fronte tanti popoli, l’ora presente rende difficile designare e antivedere. Tuttavia, se il futuro ha radice nel passato, se l’esperienza degli ultimi anni Ci è maestra per l’avvenire, Noi pensiamo di servirci dell’odierna commemorazione per dare ulteriori principi direttivi morali sopra tre fondamentali valori della vita sociale ed economica; e ciò faremo animati dallo stesso spirito di Leone XIII e svolgendo le sue vedute veramente, più che profetiche, presaghe dell’insorgente processo sociale dei tempi. Questi tre valori fondamentali, che s’intrecciano, si saldano e si aiutano a vicenda, sono: l’uso dei beni materiali, il lavoro, la famiglia.
L’Enciclica Rerum novarum espone sulla proprietà e sul sostentamento dell’uomo principi, i quali col tempo nulla hanno perduto del nativo loro vigore e, oggi dopo cinquant’anni, conservano ancora e profondono vivificante la loro intima fecondità. Sopra il loro punto fondamentale, Noi stessi abbiamo richiamata l’attenzione comune nella Nostra enciclica Sertum laetitiae, diretta ai Vescovi degli Stati Uniti dell’America del Nord: punto fondamentale, che consiste, come dicemmo, nell’affermazione della inderogabile esigenza «che i beni, da Dio creati per tutti gli uomini, equamente affluiscano a tutti, secondo i principi della giustizia e della carità».
Ogni uomo, quale vivente dotato di ragione, ha infatti dalla natura il diritto fondamentale di usare dei beni materiali della terra, pur essendo lasciato alla volontà umana e alle forme giuridiche dei popoli di regolarne più particolarmente la pratica attuazione. Tale diritto individuale non può essere in nessun modo soppresso, neppure da altri diritti certi e pacifici sui beni materiali. Senza dubbio l’ordine naturale, derivante da Dio, richiede anche la proprietà privata e il libero reciproco commercio dei beni con scambi e donazioni, come pure la funzione regolatrice del potere pubblico su entrambi questi istituti. Tutto ciò nondimeno rimane subordinato allo scopo naturale dei beni materiali, e non potrebbe rendersi indipendente dal diritto primo e fondamentale, che a tutti ne concede l’uso; ma piuttosto deve servire a farne possibile l’attuazione in conformità con il suo scopo. Così solo si potrà e si dovrà ottenere che proprietà e uso dei beni materiali portino alla società pace feconda e consistenza vitale, non già costituiscano condizioni precarie, generatrici di lotte e gelosie, e abbandonate in balia dello spietato giuoco della forza e della debolezza.
Il diritto originario sull’uso dei beni materiali, per essere in intima connessione con la dignità e con gli altri diritti della persona umana, offre ad essa con le forme sopra indicate una base materiale sicura, di somma importanza per elevarvi al compimento dei suoi doveri morali. La tutela di questo diritto assicurerà la dignità personale dell’uomo, e gli agevolerà l’attendere e il soddisfare in giusta libertà a quella somma di stabili obbligazioni e decisioni, di cui è direttamente responsabile verso il Creatore.
Spetta invero all’uomo il dovere del tutto personale di conservare e ravviare a perfezionamento la sua vita materiale e spirituale, per conseguire lo scopo religioso e morale, che Dio ha assegnato a tutti gli uomini e dato loro quale norma suprema, sempre e in ogni caso obbligante, prima di tutti gli altri doveri.
Tutelare l’intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle agevole il compimento dei suoi doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere. Non è forse questo che porta con sé il significato genuino del bene comune, che lo Stato è chiamato a promuovere? Da qui nasce che la cura di un tal bene comune non importa un potere tanto esteso sui membri della comunità, che in virtù di esso sia concesso all’autorità pubblica di menomare lo svolgimento dell’azione individuale sopra descritta, decidere sull’inizio o (escluso il caso di legittima pena) sul termine della vita umana, determinare a proprio talento la maniera del suo movimento fisico, spirituale, religioso e morale in contrasto con i personali doveri e diritti dell’uomo, e a tale intento abolire o privare d’efficacia il diritto naturale ai beni materiali. Dedurre tanta estensione di potere dalla cura del bene comune vorrebbe dire travolgere il senso stesso del bene comune e cadere nell’errore di affermare che il proprio scopo dell’uomo sulla terra è la società, che la società è fine a se stessa, che l’uomo non ha altra vita che l’attende fuori di quella che si termina quaggiù.
Anche l’economia nazionale, com’è frutto dell’attività di uomini che lavorano uniti nella comunità statale, così ad altro non mira che ad assicurare senza interrompimento le condizioni materiali, in cui possa svilupparsi pienamente la vita individuale dei cittadini. Dove ciò, e in modo duraturo si ottenga, un popolo sarà, a vero dire, economicamente ricco, perché il benessere generale e, per conseguenza, il diritto personale di tutti all’uso dei beni terreni viene in tal modo attuato conformemente all’intento voluto dal Creatore.
Dal che, diletti figli, vi tornerà agevole scorgere che la ricchezza economica di un popolo non consiste propriamente nell’abbondanza dei beni, misurata secondo un computo puro e pretto materiale del loro valore, bensì in ciò che tale abbondanza rappresenti e porga realmente ed efficacemente la base materiale bastevole al debito sviluppo personale dei suoi membri. Se una simile giusta distribuzione dei beni non fosse attuata o venisse procurata solo imperfettamente, non si raggiungerebbe il vero scopo dell’economia nazionale; giacché, per quanto soccorresse una fortunata abbondanza di beni disponibili, il popolo, non chiamato a parteciparne, non sarebbe economicamente ricco, ma povero. Fate invece che tale giusta distribuzione sia effettuata realmente e in maniera durevole, e vedrete un popolo, anche disponendo di minori beni, farsi ed essere economicamente sano.
Questi concetti fondamentali, riguardanti la ricchezza e la povertà dei popoli, Ci sembra particolamente opportuno porre innanzi alla vostra considerazione oggi, quando si è inclinati a misurare e giudicare tale ricchezza e povertà con bilance e con criteri semplicemente quantitativi, sia dello spazio, sia della ridondanza dei beni. Se invece si pondera rettamente lo scopo dell’economia nazionale, allora esso diverrà luce per gli sforzi degli uomini di Stato e dei popoli e li illuminerà a incamminarsi spontaneamente per una via, che non esigerà continui gravami in beni e in sangue, ma donerà frutti di pace e di benessere generale.
Con l’uso dei beni materiali voi stessi, diletti figli, comprendete come viene a congiungersi il lavoro. La Rerum novarum insegna che due sono le proprietà del lavoro umano: esso è personale ed è necessario. E’ personale, perché si compie con l’esercizio delle particolari forze dell’uomo: è necessario, perché senza di esso non si può procurare ciò che è indispensabile alla vita, mantenere la quale è un dovere naturale, grave, individuale.
Al dovere personale del lavoro imposto dalla natura corrisponde e consegue il diritto naturale di ciascun individuo a fare del lavoro il mezzo per provvedere alla vita propria e dei figli: tanto altamente è ordinato per la conservazione dell’uomo l’impero della natura.
Ma notate che tale dovere e il relativo diritto al lavoro viene imposto e concesso all’individuo in primo appello dalla natura, e non già dalla società, come se l’uomo altro non fosse che un semplice servo o funzionario della comunità. Dal che segue che il dovere e il diritto a organizzare il lavoro del popolo appartengono innanzi tutto agli immediati interessati: datori di lavoro e operai. Che se poi essi non adempiano il loro compito o ciò non possano fare per speciali straordinarie contingenze, allora rientra nell’ufficio dello Stato l’intervento nel campo e nella divisione e nella distribuzione del lavoro, secondo la forma e la misura che richiede il bene comune rettamente inteso.
Ad ogni modo, qualunque legittimo e benefico intervento statale nel campo del lavoro vuol esser tale da salvarne e rispettarne il carattere personale, sia in linea di massima, sia, nei limiti del possibile, per quel che riguarda l’esecuzione. E questo avverrà, se le norme statali non aboliscano né rendano inattuabile l’esercizio di altri diritti e doveri ugualmente personali: quali sono il diritto al vero culto di Dio; al matrimonio; il diritto dei coniugi, del padre e della madre a condurre la vita coniugale e domestica; il diritto a una ragionevole libertà nella scelta dello stato e nel seguire una vera vocazione; diritto quest’ultimo personale, se altro mai, dello spirito dell’uomo ed eccelso, quando gli si accostino i diritti superiori e imprescindibili di Dio e della Chiesa, come nella scelta e nell’esercizio delle vocazioni sacerdotali e religiose.
Secondo la dottrina della Rerum novarum, la natura stessa ha intimamente congiunto la proprietà privata con l’esistenza dell’umana società e con la sua vera civiltà, e in grado eminente con l’esistenza e con lo sviluppo della famiglia. Un tal vincolo appare più che apertamente; non deve forse la proprietà privata assicurare al padre di famiglia la sana libertà, di cui ha bisogno, per poter adempiere i doveri assegnatigli dal Creatore, concernenti il benessere fisico, spirituale e religioso della famiglia?
Nella famiglia la nazione trova la radice naturale e feconda della sua grandezza e potenza. Se la proprietà privata ha da condurre al bene della famiglia, tutte le norme pubbliche, anzitutto quelle dello Stato che ne regolano il possesso, devono non solo rendere possibile e conservare tale funzione – funzione nell’ordine naturale sotto certi rapporti superiore a ogni altra – ma ancora perfezionarla sempre più. Sarebbe infatti innaturale un vantato progresso civile, il quale – o per la sovrabbondanza di carichi o per soverchie ingerenze immediate – rendesse vuota di senso la proprietà privata, togliendo praticamente alla famiglia e al suo capo la libertà di perseguire lo scopo da Dio assegnato al perfezionamento della vita familiare.
Fra tutti i beni che possono esser oggetto di proprietà privata nessuno è più conforme alla natura, secondo l’insegnamento della Rerum novarum, di quanto è il terreno, il podere, in cui abita la famiglia, e dai cui frutti trae interamente o almeno in parte il di che vivere. Ed è nello spirito della Rerum novarum l’affermare che, di regola, solo quella stabilità, che si radica in un proprio podere, fa della famiglia la cellula vitale più perfetta e feconda della società, riunendo splendidamente con la sua progressiva coesione le generazioni presenti e future. Se oggi il concetto e la creazione di spazi vitali è al centro delle mete sociali e politiche, non si dovrebbe forse, avanti ogni cosa, pensare allo spazio vitale della famiglia e liberarla dai legami di condizione, che non permettono neppure la formazione dell’idea di un proprio casolare?
Il nostro pianeta con tanti estesi oceani e mari e laghi, con monti e piani coperti di neve e di ghiacci eterni, con grandi deserti e terre inospite e sterili, non è pur scarso di regioni e luoghi vitali abbandonati al capriccio vegetativo della natura e ben confacentesi alla coltura della mano dell’uomo, ai suoi bisogni e alle sue operazioni civili; e più di una volta è inevitabile che alcune famiglie, di qua o di là emigrando, si cerchino altrove una nuova patria. Allora, secondo l’insegnamento della Rerum novarum, va rispettato il diritto della famiglia ad uno spazio vitale. Dove questo accadrà, l’emigrazione raggiungerà il suo scopo naturale, che spesso convalida l’esperienza, vogliamo dire la distribuzione più favorevole degli uomini sulla superficie terrestre, acconcia a colonie di agricoltori; superficie che Dio creò e preparò per uso di tutti. Se le due parti, quella che concede di lasciare il luogo natio e quella che ammette i nuovi venuti, rimarranno lealmente sollecite di eliminare quanto potrebbe essere d’impedimento al nascere e allo svolgersi di una verace fiducia tra il paese di emigrazione e il paese d’immigrazione, tutti i partecipanti a tale tramutamento di luoghi e di persone ne avranno vantaggio: le famiglie riceveranno un terreno che sarà per loro terra patria nel vero senso della parola; le terre di densi abitanti resteranno alleggerite e i loro popoli si creeranno nuovi amici in territori stranieri; e gli Stati che accolgono gli emigrati guadagneranno cittadini operosi. Così le nazioni che danno e gli Stati che ricevono, in pari gara, contribuiranno all’incremento del benessere umano e al progresso dell’umana cultura.
[26] Sono questi, diletti figli, i principi, le concezioni e le norme, con cui Noi vorremmo cooperare fin da ora alla futura organizzazione di quell’ordine nuovo, che dall’immane fermento della presente lotta il mondo si attende e si augura che nasca, e nella pace e nella giustizia tranquilli i popoli. Che resta a Noi, se non nello spirito di Leone XIII e nell’intento dei suoi nobili ammonimenti e fini, esortarvi a proseguire e promuovere l’opera, che la precedente generazione dei vostri fratelli e delle sorelle vostre hanno con si ardimentoso animo fondata? Non si spenga in mezzo a voi o si faccia fioca la voce insistente dei due pontefici delle encicliche sociali, che altamente addita ai credenti nella rigenerazione soprannaturale dell’umanità il dovere morale di cooperare all’ordinamento della società e, in special modo della vita economica, accendendo all’azione non meno coloro i quali a tale vita partecipano che lo Stato stesso. Non è forse ciò un sacro dovere per ogni cristiano? Non vi sgomentino, diletti figli, le esterne difficoltà, né vi disanimi l’ostacolo del crescente paganesimo della vita pubblica. Non vi traggano in inganno i fabbricatori di errori e di malsane teorie, tristi correnti non d’incremento, ma piuttosto di disfacimento e di corrompimento della vita religiosa; correnti, le quali pretendono che, appartenendo la redenzione all’ordine della grazia soprannaturale ed essendo perciò esclusiva opera di Dio, non abbisogna della nostra cooperazione sulla terra. Oh misera ignoranza dell’opera di Dio! « Dicentes enim se esse, sapientes, stulti facti sunt» (Rm 1,22).
Quasi che la prima efficacia della grazia non fosse di corroborare i nostri sforzi sinceri per adempiere ogni di i comandi di Dio, come individui e come membri della società; quasi che da due millenni non viva e perseveri nell’anima della Chiesa il senso della responsabilità collettiva di tutti per tutti, onde furono e sono mossi gli spiriti fino all’eroismo caritativo dei monaci agricoltori, dei liberatori di schiavi, dei sanatori d’infermi, dei portatori di fede, di civiltà e di scienza a tutte le età e a tutti i popoli, per creare condizioni sociali che solo valgono per rendere a tutti possibile e agevole una vita degna dell’uomo e del cristiano. Ma voi, consci e convinti di tale sacra responsabilità, non siate mai in fondo all’anima vostra paghi di quella generale mediocrità pubblica in cui il comune degli uomini non possa, se non con atti eroici di virtù, osservare i divini precetti inviolabili sempre e in ogni caso.
Se tra il proposito e l’attuazione apparve talvolta evidente la sproporzione; se vi furono falli, comuni del resto a ogni umana attività; se diversità di pareri nacquero sulla via seguita o da seguirsi, tutto ciò non ha da far cadere d’animo o rallentare il vostro passo o suscitare lamenti o accuse; né può far dimenticare il fatto consolante che dall’ispirato messaggio del pontefice della Rerum novarum scaturì vivida e limpida una sorgente di spirito sociale forte, sincero, disinteressato; una sorgente la quale, se oggi potrà venire in parte coperta da una valanga di eventi diversi e più forti, domani, rimosse le rovine di questo uragano mondiale, all’iniziarsi il lavoro di ricostruzione di un nuovo ordine sociale, implorato degno di Dio e dell’uomo, infonderà nuovo gagliardo impulso e nuova onda di rigoglio e crescimento in tutta la fioritura della cultura umana. Custodite la nobile fiamma di spirito sociale fraterno, che, or è mezzo secolo, riaccese nei cuori dei vostri padri la face luminosa e illuminante della parola di Leone XIII: non lasciate né permettete che manchi d’alimento e, sfavillando ai vostri commemorativi ossequi, muoia, spenta da una ignava, schiva e guardinga indifferenza verso i bisogni dei più poveri tra i nostri fratelli, o travolta nella polvere e nel fango dal turbinante soffio dello spirito anticristiano o non cristiano. Nutritela, ravvivatela, elevatela, dilatatela questa fiamma; portatela ovunque viene a voi un gemito di affanno, un lamento di miseria, un grido di dolore; rinfocatela sempre nuovamente con l’ardenza di amore attinto al Cuore del Redentore, a cui il mese che oggi si inizia è consacrato. Andate a quel cuore divino, mite e umile, rifugio per ogni conforto nella fatica e nel peso dell’azione: è il cuore di colui, che a ogni opera genuina e pura, compiuta nel suo nome e nel suo spirito, in favore dei sofferenti, degli angustiati, degli abbandonati dal mondo e dei diseredati di ogni bene e fortuna, ha promesso l’eterna ricompensa beatificante: Voi benedetti del Padre mio. Ciò che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me!
Festa di Pentecoste, 1° giugno 1941
PIO PP. XII
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