Le campane rimangono mute se non si vuole parlare con Dio. Il profumo dell’incenso non sale al Cielo se non si vuole pregare. L’uomo che teme solo la morte del corpo non ha tempo per guardare in alto: così muore due volte. In questo periodo, nel quale più che lo strepitare del mondo atterrisce il silenzio di una chiesa senza una sola parola dal sapore eterno, offriamo ai nostri lettori quattro scritti di Cristina Campo in cui il suono delle campane e il profumo dell’incenso continuano a essere di casa.
Non è molto quello che possiamo fare per chi ci segue, ma è il segno di una convinzione che ci fa piacere condividere come il pane alla tavola dei poveri. In momenti difficili come quello attuale sembra che la nostra sopravvivenza dipenda dal sapere e dal progresso tecnologico della società occidentale, e forse è in parte anche vero. Ma la nostra vita dipende dalla capacità di evitare che tale sapere e tale progresso penetrino nel nostro cuore.
Se è veramente Cristo colui che sorregge il mondo e il nostro essere, allora tutto dipende dal fatto che continuino a esistere alcuni uomini che ci credono e vivono di conseguenza. Coloro a cui è toccata tale sorte devono comprendere che la lotta per la loro personale santificazione è quanto di più difficile si possa affrontare, ma è anche ciò che gode della più attenta e premurosa cura di Dio.
Anche se i nostri occhi troppo carnali non sono in grado di vederli, dobbiamo sapere che sono tra noi. Uniamoci alla loro preghiera.
Alessandro Gnocchi
La campana
La campana – il cui nome ha origine in quello di Campania felix – nacque, si pensa, per ispirazione di san Paolino, vescovo di Nola, che per primo avrebbe pensato di convocare i fedeli ai templi cristiani con uno strumento di solido bronzo anziché con le antiche raganelle.
Voce del tempio – per il popolo voce di Dio – la campana divenne mediatrice tra il cielo e la terra: strumento di lode e sollecitazione delle forze celesti e insieme oggetto esoreistico per eccellenza, le cui onde sonore creano e dilatano uno spazio privilegiato, spezzando le energie negative e i “tempestosi spiriti” che insidiano l’area del tempio e l’animo dei fedeli. È quindi naturale che la Chiesa cattolica abbia per secoli dedicato, battezzato, consacrato la campana con cura minuziosa e solenne, come una creatura vivente.
È noto che ad ogni campana è legata una nota musicale: un gruppo di campane forma quindi un armonioso concerto, che varia di chiesa in chiesa e si presta a illimitate varietà di combinazioni. È forse meno noto che ogni campana è dedicata al Redentore, alla Vergine o a un santo, e ne assume il nome: la Redenta, la Gloriosa, la Giovanna. Su ogni campana è un’iscrizione latina in onore di colui o colei al quale è votata, insieme con una formula di intercessione. Nelle comunità monastiche la grande campana chiama alla messa, la seconda ai Vespri, le minori alle diverse ore canoniche. Per le campane nuove è usato quasi sempre anche il bronzo delle antiche, cosicché si può dire che ogni campana sopravviva nell’altra, di generazione in generazione.
Sin dalla sua nascita nella fonderia, la campana è circondata di cerimonie. La stessa arte di fonditore di campane è tramandata per secoli nelle famiglie come una vocazione religiosa. “Mentre nell’immane calore del forno di fusione il bronzo si liquefa, formando un lago d’oro, viene offerto nella fonderia il Divino Sacrificio. Poi sulla massa incandescente discende la benedizione sacerdotale e infine, dopo le invocazioni litaniche alle tre Divine Persone, nel momento in cui viene invocata la Madre di Dio – Sancta Maria – il torrente di fuoco comincia a scorrere ed a riempire la grande forma sepolta nel terreno, accompagnato dal mormorio delle preghiere, recitate da tutti i fonditori” (da un’Omelia per la consacrazione di una campana).
Formata, liberata dalla sua cappa esterna e accuratamente rifinita, la campana è trasportata alla chiesa. Avanti che sia issata sul campanile viene sospesa in chiesa o all’aperto per esservi battezzata e consacrata dal vescovo con solenni orazioni ed esorcismi, le cui formule sono raccolte nel Pontificale romano.
Si recitano cinque salmi penitenziali; il pontefice, a capo scoperto, esorcizza l’acqua e il sale, mischiandoli in modum crucis con lunga orazione: per la loro virtù purificatrice, alla voce della campana che ne sarà aspersa, “recedano le forze insidiose, l’ombra degli spettri, l’incursione dei turbini, la percossa delle folgori, la ferita del tuono, la calamità delle tempeste, l’infestazione dei rettili e ogni tempestoso spirito”; alla sua dolce voce si levino nella Chiesa dei santi “il cantico nuovo, le modulazioni del salterio, la soavità dell’organo, la giocondità dei cembali”, e ne siano invitate “moltitudini d’Angeli”. La campana viene poi interamente lavata all’interno e all’esterno: inizia la lustrazione il vescovo con l’olivo o l’issopo, la proseguono i ministri; dopo, con un lino mondo, la si asterge.
Ora, al canto di tre salmi di lode, il pontefice, mitrato, segna la campana di una croce con l’Olio degli Infermi, ricordando, con altra solenne preghiera, le argentee trombe che Mosè prescrisse nel tempo della immolazione sacerdotale; così durante il Divino Sacrificio, alla voce della campana, segnata dal vessillo della croce, pieghino il ginocchio il cielo, la terra e gli inferni. Altre sette croci vengono poi tracciate con lo stesso Olio all’esterno della campana, quattro all’interno col Sacro Crisma. È questa la vera e propria consacrazione della campana, la cui formula è la seguente:
“Sia santificata e consacrata, Signore, questa campana. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. In onore di san… Pace a te”. La segue una breve preghiera nella quale si impetra che essa spezzi le frecce dei nemici e l’impeto delle pietre, che il mare possa risponderle, come il Mar Rosso nell’interrogazione profetica, volgendo indietro le sue onde e che, per il Sacro Crisma e l’Olio Santo su di essa effusi, chiunque oda il suono della campana sia liberato da ogni tentazione e resti fermo nella fede cattolica.
Nel turibolo vengono poi messi l’incenso, il rimiamo e la mirra: lo si pone sotto la campana, che ne riceva interamente il profumato vapore, e si invoca che, a somiglianza del Cristo addormentato nella barca, lo Spirito Santo, ridestato dalla melodia soave come dalla cetra di Davide, discenda sul popolo in celeste rugiada.
Ora il diacono, parato di dalmatica bianca, legge il Vangelo di Marta e Maria – il Vangelo della preghiera contemplativa – che chiude la cerimonia della consacrazione della campana.
Dell’incenso
L’incenso, gomma odorifera in cristalli proveniente dall’Arabia, spesso mischiato a mirra, limiamo, cassia od altri aromi, fu usato nelle cerimonie liturgiche cristiane sin dal secolo IV.
Tra i molteplici significati dell’offerta d’incenso il più antico è forse il simbolo scritturale della preghiera che, a somiglianza della colonna profumata dell’incenso, si leva dalla terra verso il cielo al cospetto di Dio. Questo sacrificio di adorazione è palese nella chiesa bizantina, nelle funzioni dette dei Presantificati, nelle quali, durante il canto del Salmo 140 (“Salga a te la mia preghiera come incenso / l’elevazione delle mani come sacrificio vespertino”), il turibolo fumante viene deposto e lasciato sull’altare, mentre il sacerdote leva alte le mani.
L’offerta d’incenso all’imperatore, questo atto d’idolatria che costò al cristianesimo tanti martiri, fu presto tradotto anch’esso nei termini cristiani di omaggio all’Onnipotente. Ha questa origine l’incensazione liturgica dell’altare, del libro dei Vangeli, delle Oblate all’Offertorio e, ogni qualvolta sia esposto, del Santissimo Sacramento. I bizantini incensano persino il velo del calice prima che questo ne venga ricoperto e tutti i paramenti del vescovo, via via che egli li indossa. Il tempio bizantino viene del resto incensato completamente, icona per icona, all’inizio e nel corso di molte cerimonie. Le persone dei celebranti e degli assistenti sono anch’esse incensate in entrambe le Chiese. Ai Vespri conventuali latini si incensa l’altare della Vergine al canto del Magnificat. Nelle antiche abbazie benedettine l’incensazione si ripeteva tre volte, a ogni Notturno dell’ora canonica di Mattutino.
L’interpretazione mistica tradizionale dà all’offerta dell’incenso ulteriori significati. Esso si brucia:
1) per rendere omaggio a Dio col distruggere una creatura in suo onore;
2) per imitare in terra ciò che gli Angeli fanno in cielo, dove san Giovanni li vide offrire a Dio molti incensi bruciati in turiboli d’oro;
3) per profumare lo spazio sacro in odore di soavità e allontanare ogni ricordo del mondo profano prima che vi discenda Iddio;
4) per insegnare ai fedeli a bruciare e consumare anch’essi la loro vita per la gloria di Dio e diffondere ovunque il buon odore del Cristo.
Se la Chiesa incensa, oltre al tempio e alle cose sacre, anche i vivi ed i morti, essa fa questo:
1) per onorare quei corpi che col Battesimo divennero membra del Cristo e templi dello Spirito Santo;
2) per rivolgere ai vivi, nel modello visibile, l’invito a far ascendere la loro mente a Dio;
3) per mostrare che, come i fedeli morti hanno già fatto olocausto della loro vita al Signore, così i viventi debbono farne olocausto ogni giorno nel servizio di Dio.
È noto infine che la presenza degli spiriti del male è segnalata o simboleggiata da sgradevole odore. L’incenso, fragrante e benedetto dal celebrante col segno della Croce, si oppone a questa presenza, creando un cerchio di benedizione e operando nel regno dell’olfatto quello stesso esorcismo che la
campana opera nel regno dell’udito, l’acqua benedetta in quello del tatto. Tale potere esoreistico è dimostrato dalla triplice incensazione circolare della salma nella cerimonia dell’assoluzione e in quella della sepoltura, e dichiarato esplicitamente da papa Innocenzo III in De sacrificio missae: “Fumus incensi valere creditur ad effugando daemones”.
Monaci alle icone
Macario l’ipodiacono, trecce attorte sull’incolpevole nuca,
si rotola a piè delle icone come un cucciolo d’oro.
L’igùmeno Isacco, inflessibilmente orizzontale la barba,
depone a terra la vita dinanzi all’azzurra Madre.
Con tre piccoli, costernati segni di croce,
Ireneo bacia tremando tre luoghi della salvifica scena.
Ma il giovane Gregorio? Con mani che mai fu più pura
la vergine betulla, circonda come il volto più amato,
più inconsolabilmente amato la Divina Veronica;
e il lentissimo bacio a occhi chiusi, dopo il lunghissimo sguardo,
non è più bacio a un’icone non è più bacio a un’icone.
Missa Romana
I
Più inerme del giglio nel luminoso sudario
sale il Calvario teologale penetra nel roveto crepitante dei millenni
si occulta nell’odorosa nube della lingua.
Curvato da terribili venti bacia sacre piaghe in silenzio
eleva e mostra pure palme trapassate mendica pace
tra pollice e indice tende un filo sull’abisso del Verbo.
Dagli ossami dei martiri tritume di gaudio cresce
la radice di Jesse sboccia nel calice rovente e nella bianca luna
crociata di sangue e stendardo che sorgendo gli fiacca i ginocchi.
Sulla pietra angolare ci spezza la morte
la eleva all’orizzonte delle lacrime la posa
con materno terrore su stimmate di labbra a medicare la vita.
Intorno al pasto mortale tra i lembi del Dio sibilano serpenti
addentano il corporale ai quattro angoli del conopeo
si arrotolano i fogli dei cieli crepe saettano nei pilastri.
Ossessi alla porta nel profumo di peste mimano
e vendono con lazzi agli infermi e deformi
della probatica vasca la sua soave maschera di suppliziato.
II
Falconiere del Cielo sulla cui mano alzata
piomba l’eterno Predatore avido di prigione…
III
Dove va questo Agnello che ai vergini è dato seguire ovunque vada
dove va questo Agnello stante diritto e ucciso
sul libro dei segnati ab origine mundi?
Non si può nascere ma si può restare innocenti.
Dove va questo Agnello che a noi gli ucciditori
non è dato seguire coi segnati né fuggire
ma singhiozzando soavemente concepire
nel buio grembo della mente usque ad consummationem mundi?
Non si può nascere ma si può morire innocenti.
I testi sono tratti da Sotto falso nome e La tigre assenza, editi da Adelphi
6 commenti su “Curare il corpo senza curare lo spirito è morire due volte”
Caro dottor Gnocchi, noi preti per non incorrere nelle sanzioni penali dobbiamo celebrare a porte chiuse. La CEI è riuscita nel “miracolo” di sospendere la libertà di culto in Italia: posso tenere la chiesa aperta per eventuali visite e/o confessioni, ma se inizio la Messa, ci fosse anche una sola persona, deve uscire. È l’Eucaristia che per il nostro “caro” Conte, discepolo dell’altrettanto “caro” Silvestrini, provoca il contagio e i vescovi, ovviamente, obbediscono. D’altronde mi chiedo: per quale motivo Dio dovrebbe aiutarci quando tutto il mondo occidentale è una bestemmia permanente a Dio con i suoi comportamenti, le sue idee, le sue scelte? Cerchiamo il Signore ora che ci fa comodo, ma intanto continuiamo a trucidare bambini negli ospedali con l’aborto e magari malati con l’eutanasia e avanti così.
Ha ragionissima, don Ettore! Basterebbe la piaga dell’aborto con i suoi milioni di bimbi massacrati a suscitare l’ira di Dio, tanto misericordioso sì, ma infinitamente giusto, soprattutto di fronte a una ostinata impenitenza che non può non gridare vendetta al Suo cospetto.
Nonostante le rare preghiere che Le giungono, la Madonna Santissima non smetta di assisterci.
Nemmeno domenica le campane hanno suonato, ché da tempo (dicono) non funzionano più. Affidarsi ai meccanismi per evitar fatica alle braccia (in parole poverissime) può produrre brutti scherzi. Ma è il cuore che manca e con esso la cura del bello che pure in un suono a distesa può rappresentare il sublime. Ci hanno tolto anche questo e non se ne rattristano, né se ne curano: mancanze che ci straziano l’anima e fanno assaporare la durezza della prova, sebbene si ostinino a dirci che Dio non punisce. Esistono, certo, come è avvenuto in San Pio da Pietrelcina, anime capaci di restare innocenti, tanto è forte l’impronta di Dio su di loro e il desiderio di uniformarsi alla Sua volontà. La loro incessante e tremenda battaglia commuoverà oggi il cuore di Dio? Speriamolo, ché siamo così poveri, così miseramente piccoli e deboli, che non sapendo più guardare al Cielo, ci siamo ridotti a urlare dalle finestre e dai balconi delle nostre prigioni, insulse canzonette stonate e l’inno di una indefinita patria al posto di un salutare “Ti salutiamo, Vergine” con la sua bella invocazione finale: “Madre che tutto puoi, abbi di noi pietà!”.
Sempre belli e commoventi i suoi commenti, Tonietta, specialmente l’invocazione finale all’Immacolata, Vergine potente contro il Male, Dato il tempo a disposizione nell’attuale “consegna” domestica, sarebbe bene utilizzarlo anche per la recita quotidiana del Santo Rosario, arma potente con la quale si possono vincere tutte le battaglie, come ci ricorda Suor Lucia di Fatima.
Caro Don Ettore,non se la prenda personalmente…regole regolucce conferenze episcopali varie…Manca il coraggio! Lo stesso coraggio che ebbe Don Camillo uscendo a benedire il Fiume a rischio delle mitragliate di peppone e compagni…perché Don Camillo obbedì a Cristo e non alla CEI…e non aspettò neanche i carabinieri,NON aspettò ‘un altro san Benedetto ma sicuramente diverso’….Si fece coraggio e obbedì al Padre e non al Servo e fu ancora come S’Atanasio,come tutti i Veri Santi…ma uguale uguale uguale proprio! Viva Guareschi
Stamattina, leggendo Don Camillo, mi sono imbattuta in questa frase (detta da don Camillo a Peppone): il mestiere del prete è quello di accaparrare anime da spedire in Paradiso, via Vaticano. Quindi, per un prete, trovarsi in mezzo a una epidemia di colera, in mezzo a un terremoto o ad una guerra è una pacchia. È la cuccagna per uno che si guadagna la vita salvando delle anime.
Fine della citazione. Fine di tutto.