Dall’opera di Mozart, su libretto di Lorenzo Dal Ponte, riflessioni sul pessimismo e la misoginia illuminista. Con un piccolo paradosso finale.
di Carla D’Agostino Ungaretti
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“Padre nostro … non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male” (Mt 6, 13)
“Padre … non ci indurre in tentazione” (Lc 11, 4)
Alla fine dello scorso mese di giugno l’Accademia Nazionale di S. Cecilia ha proposto al suo fedele pubblico musicofilo romano, categoria della quale io faccio parte fin dalla gioventù, una splendida esecuzione di “Così fan tutte” di Mozart in forma di concerto, diretta da Semyon Bichkov e interpretata da un gruppo di giovani e valorosi cantanti. Naturalmente sono corsa ad ascoltarla, convinta che l’esecuzione priva di scene, costumi e soprattutto non afflitta da una regìa assurda e strampalata come quelle che imperversano oggi nei teatri d’opera, mi avrebbe consentito di gustare molto meglio questo capolavoro di quello che fu chiamato “il divino fanciullo”.
E così è stato perché, oltre alla musica di Mozart che ha sempre il potere di rigenerarmi lo spirito quando sono un po’ depressa, ho potuto apprezzare per l’ennesima volta lo spiritoso e geniale libretto di Lorenzo Da Ponte, simpatica canaglia e perfetto specchio del suo tempo illuminista, massonico, dissacrante e libertino, ma anche modernissimo per le situazioni perfettamente verificabili anche nel XXI secolo, sia pure con conseguenze diverse.
Riassumo brevemente la trama dell’opera per chi non la ricordasse. Guglielmo e Ferrando sono due giovani ufficiali felicemente fidanzati rispettivamente con Fiordiligi e Dorabella, ma il loro anziano amico don Alfonso – filosofo illuminista e cripto – massone che definisce se stesso “un uom di pace e duelli non fo se non a mensa”, dietro il quale si cela lo stesso Da Ponte – insinua in loro il sospetto che esse non siano fedeli (“E’ la fede delle femmine / Come l’araba fenice: / Che vi sia ciascun lo dice; / Dove sia, nessun lo sa”). I tre decidono allora di mettere alla prova le due ragazze scommettendo cento zecchini da spendere poi in una ricca cena. Istruiti da don Alfonso, i due giovanotti fingono di partire per la guerra, ma subito dopo si ripresentano alle due fanciulle travestiti da nobili albanesi innamoratissimi di loro e – con l’aiuto della servetta Despina, furba, ma non intelligente – fanno una corte serratissima l’uno alla fidanzata dell’altro, fingendo anche un tentativo di suicidio per essere stati inizialmente respinti. Ovviamente le due credulone non li riconoscono e, dopo le prime esitazioni, cascano in pieno nel tranello. Dopo le smorfie, i lamenti, i piagnistei e le invocazioni di morte seguiti alla notizia della (finta) partenza dei loro fidanzati, sotto l’occhio sornione e divertito di don Alfonso (“Io crepo se non rido … !) esse cedono alla serratissima corte dei loro due nuovi spasimanti e accettano di sposarli. A questo punto c’è l’agnizione finale col trionfo di don Alfonso, vero simpatico diavolo tentatore. Al momento della stesura del finto atto di nozze davanti a Despina, camuffata da “notaro” con tanto di palandrana nera e baffoni, I due ufficiali fingono di tornare all’improvviso perché “richiamati da regio contrordine” e devono riconoscere che le loro fidanzate li hanno traditi l’una con il fidanzato dell’altra, sia pure sotto mentite spoglie. Che fare ? Ucciderle, come imporrebbe il Codice d’Onore e come invocano le stesse pentite fedifraghe (“Ah, signor, son rea di morte, / E la morte sol vi chiedo / Il mio fallo tardi vedo … “) o sposarle ugualmente, come suggerisce lo stesso don Alfonso (“In fondo, voi le amate / Queste vostre cornacchie spennacchiate.”)? Guglielmo e Ferrando perdoneranno le loro fidanzate e le sposeranno, avendo però imparato a loro spese che “così fan tutte” e l’opera finisce con i sei protagonisti che inneggiano “all’uom che prende / Ogni cosa pel buon verso, / E tra i casi e le vicende / Da ragion guidar si fa”.
Il tema del marito geloso che vuole mettere alla prova la fedeltà della moglie è un topos letterario ed ebbe molta fortuna a partire dal Medioevo (ai mariti, invece, è sempre stata concessa la “licenza di tradire”) ma Da Ponte lo trasformò aggiornandolo alle tendenze filosofiche e letterarie del suo tempo, infondendogli un senso di cinico antisentimentalismo che si avverte alla lettura del libretto, ma che la musica di Mozart è capace di mitigare e spesso di contraddire. Infatti “la divina semplicità” della musica di Wolfgang Amadeus riesce a comunicare all’ascoltatore una sorta di benessere mentale, come accennavo all’inizio, malgrado la palese perfidia del soggetto di quest’opera. Da Ponte, ebreo convertito al cristianesimo per opportunismo, fu uno di quei geniali avventurieri italiani che, nel XVIII secolo, riempirono l’Europa di cortesie e di “audaci imprese”: amori, figli illegittimi, debiti, truffe, libelli, lazzi, bel canto e (nel suo caso) di capolavori come i tre libretti che egli scrisse per Mozart. “Così fan tutte”, composta nel 1789, fu rappresentata l’anno dopo in pieno illuminismo e il Nostro vi profuse un totale pessimismo e una totale misoginia che, anche a quel tempo, avrebbe dovuto apparire in contraddizione con lo spirito del secolo che aveva assolutizzato la Ragione. Infatti quella trama fu molto criticata nel periodo romantico e fu ritenuta immorale sia da Beethoven che da Wagner.
Non dobbiamo meravigliarci però se la vicenda è pessimista e misogina. Questi erano solo due degli aspetti della corrente filosofica e massonica che dominò tutto il XVIII secolo ed esplose nella Rivoluzione Francese. E’ noto che i più grandi illuministi furono misogini: Voltaire disprezzava le donne, non disdegnando però di farsi mantenere dalle sue ricche amanti che ammaliava con la sua intelligenza e la sua cultura; Il re di Prussia Federico il Grande, anch’egli illuminista e grande estimatore di Voltaire, non volle mai accanto a sé una regina pur non essendo omosessuale, perché si fidava più degli ufficiali usciti dall’Accademia Militare di Potsdam da lui fondata che delle donne; Thomas Jefferson, terzo Presidente degli Stati Uniti, grande illuminista e massone, ebbe molti figli (che non riconobbe mai) da una schiava di colore che, ovviamente, non si sarebbe mai sognato di sposare, anche perché le “illuminate” leggi che egli aveva contribuito a elaborare insieme agli altri Padri Fondatori degli U.S.A., non glielo avrebbero consentito. Perché Da Ponte avrebbe dovuto essere diverso? Non aveva respirato anche lui quell’atmosfera razionale e ottimista solo a parole?
Comunque i caratteri dei sei personaggi sono scolpiti a tutto tondo, sia poeticamente che musicalmente, e questo è quello che conta, anche se moralmente non si salva nessuno. Fiordiligi e Dorabella sono due scioccherelle incapaci di resistere, appena i loro fidanzati si sono allontanati, al corteggiamento dei due (supposti) sconosciuti; la loro servetta Despina, cooptata nella trama da don Alfonso con la lusinga del denaro, appare (come dicevo poc’anzi) più furba che intelligente, perché neppure lei riconosce i due uomini mascherati ma consiglia addirittura alle sue padrone, in assenza dei fidanzati, “di fare all’amor come assassine”; Guglielmo e Ferrando, poi, la cui anima è riposta solo nella spada, non sono certo figure eroiche e virili come don Giovanni, ma rivelano una totale assenza di senso morale, prima accettando una scommessa basata sull’inganno, poi meravigliandosi nel constatare che le loro fidanzate sono cadute nel tranello che essi stessi avevano accettato e contribuito a realizzare.
E don Alfonso? Da Ponte e Mozart riescono, ciascuno con la sua arte, a rendere simpatico un personaggio che altrimenti risulterebbe odioso. Don Alfonso non si limita a inoculare il sospetto nelle menti dei due giovani ufficiali, usandoli come cavie per affermare la propria visione del mondo (“Oh, poverini! / Per femmina giocar cento zecchini!”) ma, al pari del serpente biblico, si adopera concretamente per indurre in tentazione le due ragazze – sciocchine sì, ma fino a quel momento fedeli – architettando l’inganno nel quale esse cascheranno e corrompendo col miraggio del denaro la servetta per assicurarsene la complicità. Il suo esperimento conduce a esiti sconvolgenti: la natura umana, messa alla prova in una situazione inedita, rivela tutta la sua debolezza e la precarietà dei sentimenti amorosi. Più pessimista di così … ! Hanno ben ragione i cristiani, ammaestrati da Gesù, a chiedere al Padre: “Non indurci in tentazione, ma liberaci dal male”, perché nessuno sa cosa può capitare in una situazione inattesa e nessuno può salvarsi dal peccato con le sue sole forze.
Ma, un momento … Alla fine – ed eccomi arrivata all’aspetto di questa vicenda che più mi dà da riflettere – una piccola catarsi, una briciola di speranza e ottimismo si possono trovare anche in quest’opera così disfattista. L’intrigo si conclude col matrimonio delle due coppie e sarà fondato non più sulla fiducia cieca e apodittica, ma sulla realistica consapevolezza della debolezza umana. Il tradimento in amore si è sempre verificato e oggigiorno, con il venir meno della riprovazione sociale nei liberi comportamenti sessuali, ha perso molto della sua carica devastante perché ad esso si può rimediare facilmente: nel fidanzamento o nelle convivenze, si pone fine al rapporto tout court; nel matrimonio l’adulterio conduce facilmente al divorzio. Nulla di tutto ciò in “Così fan tutte”: è lo stesso don Alfonso, illuminista, cinico, pessimista e misogino, a consigliare i due ufficiali di sposare ugualmente le loro fidanzate, nonostante le reputi due “cornacchie spennacchiate”, non solo perché essi le amano ancora, ma perché il buon Lorenzo Da Ponte, (specchio del suo tempo che parla attraverso la bocca del vecchio filosofo) nonostante la vita sregolata e libertina che condusse, ancora credeva nel valore antropologico, etico e sociale del Matrimonio. Il secolo dei lumi aveva addirittura inventato il matrimonio civile sancito poi dal Codice Napoleonico, per toglierne l’esclusività alla Chiesa, segno che quell’antichissimo istituto era ancora ritenuto capace di assicurare la tenuta umana e civile della società. Ma oggi che succede?
Oggi il pessimismo dilaga sovrano. Il Matrimonio non conta più nulla perché si vuole attribuirne la natura anche a rapporti umani che non hanno nulla di rapportabile ad esso, il che equivale a dire che il Matrimonio sta morendo e forse tra qualche decennio esso sopravvivrà solo nella sua natura sacramentale e solo per i cattolici “bambini”. Dovremo forse prendere esempio dalla più libertina opera di Mozart? Sarebbe un paradosso davvero strano, ma chissà che non funzioni lo stesso…
10 commenti su ““Così fan tutte” – di Carla D’Agostino Ungaretti”
Leggo e apprezzo molto i suoi articoli ma mi permetto di fare su questo una piccola osservazione: piacevole e godibilissimo, in particolare per me che amo moltissimo Mozart, ma conclusioni piuttosto deboli e non particolarmente pertinenti. Immagino che sull’onda del piacere che ha provato ascoltando l’ottima esecuzione (che ahimè io non ho potuto godermi), lei abbia desiderato farne parte, in qualche modo, anche a noi lettori, e di ciò le sono grata anche se con un pizzico di invidia. Ma il finale “chissà che non funzioni lo stesso…” mi ha quasi fatto pensare che lei condivida, quale “testimonianza”sull’importanza del matrimonio, l’idea di celebrare con 3 riti diversi le proprie nozze, espressa con gioiosa fanciullesca sventatezza dall’esponente PdF, e di cui parla l’articolo di Cristiano Lugli, giusto qui sopra… Non che lo creda veramente, considerato il tenore degli altri suoi ottimi scritti, ma tant’è…. questa è l’impressione!
Gentile Signora Annalisa, certo che sono TOTALMENTE d’accordo con l’articolo dell’amico Lugli! Il finale della mia riflessione voleva solo essere uno scherzoso paradosso per dimostrare che ci si può servire anche di un argomento immorale e libertino per capovolgerne il significato in senso morale e conforme alla legge di Dio. Infatti mi piace pensare che questa fosse l’intenzione recondita dello stesso Da Ponte il quale, dopo la sua opportunistica conversione al Cristianesimo, si fece anche prete, salvo poi gettare la tonaca alle ortiche per condurre meglio la sua vita da avventuriero che lo condusse a morire novantenne addirittura a New York. Ma evidentemente quello che aveva imparato a proposito del Sacramento del Matrimonio gli era rimasto impresso nell’anima ed è anche la dimostrazione che Dio scrive diritto anche su righe storte. Grazie per avermi letto.
Gentile Annalisa, io mi concentrerei di più su quel punto in cui viene detto che “quell’antichissimo istituto era ancora ritenuto capace di assicurare la tenuta umana e civile della società”. Credo che l’attentissima Dott.ssa Carla proprio questo abbia voluto mettere in evidenza: che nonostante l’epoca dei lumi volesse stravolgere il senso della vita, strappando dal suo centro l’essenziale, cioè Dio, tuttavia di quell’ antichissimo istituto non riteneva di poter fare a meno. Era insomma ancora una naturale condizione dell’umana società. Il paradosso è proprio questo: prendere esempio da una società che scardinava sì, ma che del matrimonio ancora riconosceva la basilare importanza.
Ho capito male, carissima Signora Carla?
Conosco molto bene le opere di Mozart, ma amo molto di più il melodramma italiano dell’ottocento in tutti i suoi autori (soprattutto Verdi sul quale feci la mia tesi di laurea) e le opere veriste del primo novecento. Sinceramente quando sento le opere di Mozart, a parte qualche brano particolarmente famoso ed orecchiabile, per il resto mi sembra di sentire “sempre la stessa musica”….le stesse sviolinature, le medesime tiritere settecentesche simili alle musiche di Haydn, di Handel, di Paisiello e di altri musicisti di quell’epoca, quasi degli “zunzuri” continui molto adatti se uno ha bisogno di rilassarsi e chiudere gli occhi…. infatti Mozart ha composto proprio di tutto, ma non c’è molta differenza fra la sua musica operistica e quella delle sinfonie o dei concerti. Tutt’altra cosa è Beethoven, ad esempio.
Concordo, caro camerata melomane.
Mozart, inoltre, ha avuto una vita turbolenta e ambigua. Non so se sia corretto estrapolare una seppur debole difesa del matrimonio da quest’opera. Onestamente la trovo offensiva, già nel titolo. Sarà, forse, perché Mozart non mi è mai piaciuto.
Ho letto con piacere l’interessante articolo (mi si passi l’infelice definizione) cultural-cattolico. Un solo appunto fuori-tema: nella recita del Pater Noster dentro di me rettifico sempre il corrente “Non indurci in tentazione, ma liberaci dal male” (che trovo fuorviante!) con “…fa che non cadiamo in tentazione, ma liberaci dal Male, liberaci dal Maligno, liberaci dalla persona di Satana”
Molto apprezzabile il Suo commento. Ho ascoltato per la prima volta quest’opera verso I qunidici anni e ricordo che all’epoca mi divertì molto per le situazioni tipiche da commedia degli equivoci di cui è ricca. Poi crescendo si maturano altre esperienze e adesso quando la ascolto non posso non notare l’amarissima ironia di cui è intrisa: a me pare che la musica di Mozart (più del libretto) inviti soprattutto a non prendere alla leggera l’amore ed i sentimenti più nobili. Concordo sulla Sua analisi delle figure di Despina e Don Alfonso; non mi ritrovo molto invece nel definire tutto sommato simili le caratteristiche dei fidanzati: Dorabella è evidentemente una ragazza “leggera” e scioccherella (“per divertirsi un poco e non morir dalla malinconia/non si manca di fé, sorella mia), mentre Fiordiligi mi pare una donna già più matura e drammaticamente consapevole di ciò che sta facendo (“Inorridisci: io amo/e l’amor mio non è sol per Guglielmo). Peraltro, la musica di Mozart suggerisce in modo…
…inequivocabile che le coppie “giuste” sembrino essere quelle della scommessa: Dorabella si accoppia indubbiamente meglio con lo spaccone e sensuale Guglielmo, mentre Fiordiligi sembra essere più affine al sognatore Ferrando, che molto più di Guglielmo pare soffrire del tradimento della fidanzata…sacrosante le Sue considerazioni finali sul libretto e sul valore pedagogico dell’ascolto.
Infine, per quanto immagini che l’esecuzione da Lei ascoltata sia stata di eccellente livello, ritengo francamente sia impossibile fare meglio della storica esecuzione discografica diretta da Karajan, con la Schwarzkopf (allora ancora immune da tanti difetti), la Merriman, Panerai ed il sommo Sesto Bruscantini, sicuramente il Don Alfonso più simpatico nella storia delle esecuzioni di quest’opera.
Non posso non condividere l’osservazione di Annalisa B. pur confermando in toto la stima per la Cattolica Bambina. Ma qui mi preme rimarcare una piccola frase che ogni giorno recitiamo più volte nel Padre Nostro e che dice: ..ma, non ci indurre in tentazione, sed…..”. ora nella lettera di san Giacomo, primo capo, versetto 13, l’autore ispirato dice: “Nessuno quando è tentato, dica: ; perchè Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e seduce ; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand’è consumato , produce la morte.”
Orbene circa venti mesi or sono sottoposi al mi direttore spirituale il quesito di come recitare propriamente il Padre Nostro, senza che la mia coscienza fosse sfiorata dall’offesa a Dio.
Egli mi suggerì di dire: .
Voi che ne dite?
Il mio computer si è messo a far capricci ed non sono riuscito a terminare la piccola frase che il mio direttore spirituale mi suggerì. La riporto ora: “et que nos non cadamus in tentatione, sed libera nos a malos, Amen”>. Infatti,fu leggendo san Giacomo: 1-13, che mi confermò nel dubbio che l’ultima piccola frase del Pater non confacesse a Dio.