di Piero Nicola
Quando gli alleati sgombrarono l’Italia, aveva preso a montare l’infatuazione per le cose americane, per romanzi, saggi, riviste, pellicole all’ombra della Statua della Libertà, dell’incrollabile e sempre, progressivamente rigenerata democrazia. La produzione recente riveriva Freud, attingendo spesso dalle sue teorie malate e zoppe, ma di apparenza magnifica.
Da noi, scrittori e cultori delle arti corsero per le stessa strada, che doveva proseguire in un budello di quartiere malfamato; anche questo, accolto col gaudio della grande e felice emancipazione da costrizioni e tabù. Ma ci furono i resistenti, i diffidenti, quelli che avevano conquistato i valori eterni e non vendevano la loro penna tradendo il Bene.
Piero Bargellini, classe 1897, valoroso artigliere nella Grande Guerra, si avviò a divenire un esperto dell’istruzione e un letterato. Dal 1931 al 1940 fu direttore della rivista cattolica Frontespizio, cui collaborarono molti intellettuali, anche fra i più notevoli. Le sue opere trattarono la critica e la storia delle belle arti, l’agiografia e l’apologetica, col dono del miglior stile. A differenza degli epurati che si ritirarono dalla vita civile o non poterono rientrarvi con onore, egli poté mettere le sue attitudini al servizio della comunità. Primo cittadino di Firenze nel 1966-67: sindaco della tristemente memorabile alluvione. Quindi, parlamentare.
Per rimanere nell’attualità delle celebrazioni risorgimentali, dal nutrito scaffale dei suoi scritti – trascurati com’è purtroppo normale – traggo Caffè Michelangiolo, pubblicato nella Città del Giglio nel 1944. Il libro ci porta a conoscere la pittura toscana del Secolo XIX. La prosa del Bargellini vi dà saggio della sua intramontabile eccellenza, legata com’è a personaggi, vicende e materia astrette alla realtà delle cronache. Sempre garbato, gustoso e originale senza virtuosismi, egli dosa armoniosamente le osservazioni critiche, le vite, l’atmosfera delle epoche: esauriente per l’esperto e per l’uomo di minima cultura generale. Entrambi godono della scrittura prima ancora che del sapere arrecato, delle sagaci deduzioni.
Col rivolgimenti delle idee e dei regimi politici, mutano gli stili. All’accademia dell’Impero succedono, nella Restaurazione, i sovvertimenti libertari e il romanticismo. Istaurato sulla Penisola il Regno costituzionale, porto apparente ove si innalza il non plus ultra, interviene il purismo, quindi la disillusione e la crisi di ogni scuola pittorica.
Il singolo artista opera entro i canoni dati. Del resto, indole, talento, fede o miscredenza sono vincolati alla realtà circostante, senza la quale non c’è arte viva e verace. “L’arte nel Trecento ebbe per luoghi di ritrovo i conventi; nel Quattrocento, le botteghe d’arte; nel Cinquecento, le corti; nel Seicento, i palazzi principeschi; nel Settecento, le accademie. Nell’Ottocento ebbe a ritrovo e a sede di discussione i caffè.
“Non entrò sola in questi strani locali, per capriccio o per posa. Andò, come sempre, dietro alla vita. E gli artisti si dettero convegno al caffè, perché al caffè s’incontravano i politici, gli affaristi e anche i mondani”. Così, nell’introduzione del volume.
“Prima d’entrare nel Caffè Michelangiolo, mi è parso doveroso visitare la scuola di un famosissimo (ai suoi tempi) pittore neoclassico, Pietro Benvenuti, e, subito dopo, quella di un suo gloriosissimo (ai suoi giorni) emulo, Luigi Sabatelli. Poi sono entrato nello studio ingombro di costumi storici, del romantico Giuseppe Bezzuoli, e alla fine in quello, austero come una chiesa, del purista Luigi Mussini”.
Dopo l’eclettismo nelle monarchie settecentesche, decadenti, inquinate dai falsi lumi, viene l’accademia neoclassicista, imperiale. “Avuti, non richiesti, i sovrani, si pensò di far loro il ritratto… Alla serie medicea dagli occhi bovini, era successa quella lorenese dai labbri tumidi. Ora si sarebbe avuta quella borbonica, dai nasi adunchi”, per cominciare, insediata da Napoleone; la cui sorella Elisa sarebbe poi succeduta alla Regina d’Etruria.
Per il Benvenuti “fu facile passare dalla scuola dei ‘caldi’ alla scuola dei ‘freddi’; da quella dei ‘neri’, a quella dei ‘chiari’. In luogo del carbone grasso e friabile, usò lo stile di piombo per disegnare grandi figure in rigida posizione o frontale o di profilo, mutando il punto di vista (…) perché nessuna prospettiva doveva sfondare il quadro concepito come un bassorilievo”. Egli “dovette soffrire nel ritrarre col suo stile accademico i sovrani d’Etruria, che erano non solo la negazione della bellezza classica, ma il contrario della olimpica serenità”.
“Difficilmente gli artisti neoclassici riuscivano a dare una interpretazione personale della bellezza pura. I più scivolavano sul vero reale e non attingevano la verità ideale”.
“Dopo una decina d’anni di vita romana, fu richiamato a Firenze” a dirigere l’Accademia. “Era temperamento di lavoratore tenace e coscienzioso. Profondamente onesto, buono, tranquillo, guardiamolo pure nel sincero ritratto che egli si fece per darlo in ricordo allo suocero”.
“Luigi Sabatelli, sotto la disciplina accademica morse il freno, agitato da pensieri e da sentimenti, che intorbidavano continuamente la fonte dove si sarebbe dovuta specchiare, in narcisistica contemplazione, la bellezza ideale”.
“A Milano, Andrea Appiani portava nello stile classico un certo languore di lombarda poesia. Al suo confronto Luigi Sabatelli appariva più energicamente virile (…) leggeva e meditava l’Apocalisse”.
“Sotto gli aspetti solenni e fastosi delle parate militari, delle celebrazioni civili e dei trionfi politici, egli sentiva le offese alla dignità umana, la crudeltà delle rapine, le sofferenze e le umiliazioni”.
“L’Apocalisse fu incisa nell’anno 1809, cioè nel momento in cui la lotta antireligiosa si inaspriva. Il vicario di Cristo, legato e deportato. I cristiani, intimiditi e messi nell’alternativa di scegliere tra lo spirito del secolo e la mortificazione”.
Crollato l’Impero, sotto il Granduca la pace non ritorna. Ecco i fermenti delle cospirazioni, le rinnovate rivoluzioni, e l’avvento del romanticismo storicista, retorico.
“E Pietro Benvenuti, il solenne maestro dell’Accademia, vedendo che la fama del giovane Bezzuoli oscurava i suoi trionfi, che cosa pensa di quel successo strepitoso? Egli guarda, sorride, e propone Bezzuoli come aiuto (…) cioè suo assistente”.
“Pareva che invece di spalmare il colore egli avesse direttamente forgiato, martellato e damaschinato l’acciaio delle corazze, degli elmi e delle spade. Veniva voglia di batter le nocche sulla tela, per udire il suono metallico. Tutti gridavano al nuovo prodigio più degno di Vulcano che di Apollo”.
“Negati alla speculazione, negati anche alla narrazione, i toscani fan subito groppo intorno a una figura, compongono in un quadro fermo, cercando l’equilibrio tra i vari elementi d’ordine naturale e soprannaturale, realistico e ideale. Giuseppe Bezzuoli non poteva sfuggire a questa legge etnica, confermata dall’ambiente intellettuale in mezzo al quale viveva”. Perciò i suoi ritratti “erano testimonianze, attestazioni di caratteri studiati con perspicacia e resi con sicurezza”.
Volse al tramonto anche l’astro romantico, che accompagnò i moti e le guerre risorgimentali sino al Regno italiano di Vittorio Emanuele; e l’accademia si volse indietro inaugurando il purismo. A Siena Luigi Mussini ne diviene il grande maestro.
“A uno che si era permesso di guardare con cupidigia gli affreschi di Michelangelo, scriveva: ‘Ti vedo in pericolo’. Anche Raffaello poteva essere pericoloso, se seguito senza discernimento: ‘Con Raffaello non andiamo al di là della Disputa!’ Non si stancava di ripetere ai suoi giovani che si avviavano verso Roma: ‘Raffaello e Michelangiolo sono pericolosi, se uno non li guarda sotto la scorta de’ Trecentisti”.
“I nemici dell’arte, i barbari, gli eretici erano gli idolatri del vero. Il verismo, non solo minacciava il purismo, ma attaccava le basi secolari della vita spirituale. E quei giovani iconoclasti che tra un poncino e l’altro, tra un sigaro e l’altro disputavano d’arte infamando il ‘divino Raffaello’ e i santi princìpi del purismo, si raccoglievano in un caffè fiorentino che per colmo d’ignominia s’intitolava a Michelangiolo!”
“Gli artisti di più sicura vocazione sentivano meno il bisogno di frequentare il caffè… Pure venivano anch’essi attratti dal clamore e dal fumo”.
“Gli artisti del Caffè Michelangiolo non volevano più saperne di tradizione e di antichi. Rinunziavano agli innesti in parchi addomesticati, su piante sterili. Se il tempo e le condizioni sciagurate della civiltà italiana non permettevano che misera cultura artistica, essi, i realisti, avrebbero fatto gli ortolani, portando sul mercato dell’arte sedani e carciofi, invece che cedri d’alabastro e pine di marmo”.
La borghesia mercantile, profittatrice, dedita a meschine soddisfazioni, dirige l’orchestra del parlamentarismo e del liberalismo, occorre confrontarsi con questa desolazione; la rivolta è impotente ad attuare un altro mutamento; ogni fuga nel sogno e nell’ideale diventa avulsa dalla realtà e meramente soggettiva. Nessun pittore ha la forza per intraprenderla risolutamente e creativamente. Ci si rifugia, tuttavia, in una nuova tecnica stilistica, il macchiaiolismo, e nell’idea di sorprendere e fissare la natura, meglio brutta che bella, giacché il brutto sembra il più confacente.
“Il Cecioni, insieme ai suoi amici, s’illudeva d’aver davanti a sé un infinito materiale di ricerche; presto la cosiddetta pittura realista sarebbe giunta in fondo al sacco dei motivi piccolo borghesi e campagnoli”.
Però tra i macchiaioli emersero grandi talenti e, come la loro esistenza, la loro arte ebbe gli sbocchi dello spirito che li animava, conforme alle vicende, agli amori, agli ambienti, alle fortune o alle sventure. Telemaco Signorini, polemico e mordace (“gli occhi piccoli bucavano e la bocca azzannava”) si placava a contatto con i contadini e i pescatori delle Cinque Terre. Fu l’unico a farsi tentare “dalle esperienze straniere, senza peraltro venirne travolto o assorbito, sarà il più inquieto e tormentato dei giovani macchiaioli”. Silvestro Lega e Giovanni Fattori “resteranno sempre estranei al movimento impressionistico”. “Combattevano l’accademismo per affermare i valori genuinamente tradizionali della sintesi forma-colore”, senza bisogno di mettere l’accento sulla luminosità o sul movimento.
Lega, di provenienza romagnola, convertitosi dal purismo al nuovo stile, diede le sue migliori prove da innamorato, e concluse la sua innata determinatezza nella miseria e nel declino di artista.
Fattori, uomo solido e spontaneo, il cui istinto sicuro suppliva alla cultura stentata, diede il meglio di sé nel primo periodo dei soggetti positivi, quando ancora le battaglie echeggiavano, le speranze fervevano e, come l’altro, terminò i suoi anni malinconicamente, alquanto disconosciuto. La fede, la pace, l’illibatezza dei maestri accademici, delle epoche neoclassica, romantica e purista, non dimoravano in essi. Ma forse si trattò d’una coincidenza.