L’Italia ha vinto la coppa Davis, un motivo per essere contenti, anche se pure questa colonna portante dello sport moderno è stata minata da qualche anno da una formula che l’ha svilita nel suo significato sportivo e ne ha un po’ diminuito l’importanza, sacrificandola alle esigenze della televisione e degli altri interessi che ruotano intorno al tennis, come a tutto lo sport professionistico dei nostri giorni.
Ma che importa? Qualche volta bisogna mollare il colpo, come si dice; guardare le cose come le guardavamo, far finta che tutto va bene, proprio come una volta (ci pareva che tutto andasse bene).
Sicché, quando è suonato l’inno mi sono anche un po’ commosso, come spesso mi succede per qualche impresa sportiva importante. Non sono sicuro però che non fosse più la nostalgia sulle vestigia di una civiltà al tramonto, del genere di quella descritta da Joseph Roth nei suoi romanzi asburgici, si parva licet ed è concesso scherzare su cose serie (la coppa Davis dico).
È una nostalgia che i giovani campioni del nostro tennis non possono provare, come è giusto che sia. Nessuno di loro era nato quando l’Italia vinse la Davis per la prima e ultima volta prima di ieri, nel 1976. Sinner, Arnaldi, Sonego e gli altri avranno però sicuramente apprezzato Adriano Panatta quando, a vittoria ottenuta, insieme a una simpatica battuta, “me so’ tolto il pensiero”, ha dedicato loro delle belle parole: gli auguro di rimanere quarantasette anni nel cuore della gente come vi sono rimasto io insieme ai miei compagni di squadra, Bertolucci, Barazzutti, Zugarelli e al capitano non giocatore Nicola Pietrangeli.
Ed è vero: il ricordo di quella squadra è rimasto nella mente di tanti. Allora le notizie di sport si leggevano sui quotidiani e soprattutto sulla “Gazzetta” che informava diffusamente di tutti gli sport e anche per questo i vari campioni entravano più facilmente nel cuore della gente. Al di fuori del calcio, e dei maggiori avvenimenti come potrebbe essere la vittoria di una coppa Davis, oggi l’appassionato deve cercare le notizie non sul giornale, ma in rete, frequentando siti internet e social, e contribuendo così alle rilevazioni statistiche, agli studi di mercato, e quant’altro serve al sistema del controllo globale per i suoi molteplici scopi. Altri tempi, altre logiche, altri interessi.
Dire Panatta-Bertolucci-Barazzutti-Zugarelli, la squadra che vinse la Davis nel 1976, è quasi recitare una formazione come Sarti-Burgnich-Facchetti o Zoff-Gentile-Cabrini. E poi c’erano altri campioni amatissimi, ricordati spesso come coppie rivali, come Thoeni e Gros, o Moser e Saronni, e tanti altri non meno importanti, tra cui quello che forse mi ha dato le emozioni più forti: il grandissimo, veramente grande, Pietro Paolo Mennea da Barletta. Ma come si fa a fare una classifica? Un giorno mi ci proverò, ma avrò difficoltà a non concludere con un ex aequo collettivo.
Ricordo quel 1976: Panatta aveva vinto i tornei di Roma e Parigi, i più prestigiosi al mondo su terra battuta. Era già stato il suo anno migliore prima ancora di volare a Santiago del Cile per la finale di Davis contro i solidissimi cileni Cornejo e Fillol. La vigilia della sfida era stata occupata dalla polemica sull’opportunità di giocare nel Cile del dittatore Pinochet, ma, ammesso che la cosa sia mai stata in dubbio, alla fine si andò come del resto due anni dopo si andò a giocare i mondiali di calcio nell’Argentina di Videla.
Nel doppio decisivo, Panatta e Bertolucci, in segno di dissenso dal regime cileno, indossarono delle magliette rosse, pare per idea di Panatta, notoriamente di simpatie di sinistra. Ma, forse anche per via della televisione in bianco e nero, la cosa passò abbastanza inosservata. La vittoria fu relativamente facile come del resto era nelle previsioni e la famosa insalatiera d’argento arrivò per la prima volta in Italia.
Non era più il tennis degli anni 50 o degli anni 60, con i giocatori vestiti rigorosamente di bianco, e quei colpi morbidi, sapienti , pennellati. Quando la pallina andava al di là della rete ci voleva un po’ prima che l’avversario la ributtasse nel tuo campo, ma quanta bellezza in quei gesti, per esempio nel rovescio di Ken Rosewall che è rimasto leggendario. Ma i tempi cambiano, pare sia inevitabile, e a proposito di Rosewall ricordo ancora un simbolico passaggio di consegne al torneo di Wimbledon del 1974, quando il quarantenne australiano raggiunse la finale dopo averne perse tre in precedenza, la prima nel 1954. Si trovò ad affrontare un giovane ventiduenne americano di nome Jimmy Connors, uno dei primi che io ricordi ad usare la racchetta metallica, che picchiava la pallina come un fabbro, e tirava il rovescio impugnando la racchetta a due mani, una cosa inaudita che non si trovava in nessun manuale e che nessun maestro fino ad allora avrebbe mai insegnato a un allievo. L’anziano fuoriclasse australiano, con mio dispiacere (sempre stato restio alle suggestioni della modernità, anche a sedici anni) fu surclassato a suggellare il passaggio da un’epoca all’altra.
Comunque, non era ancora arrivato nemmeno il tempo del tennis a mille all’ora, delle racchette con l’ovale più grosso, in materiale che non so più quale sia, delle urla e dei gemiti a ogni ribattuta. C’era ancora spazio per giocatori che si affidavano più alla classe che alla potenza, come lo spagnolo Orantes, e gli stessi Panatta e Bertolucci, il braccio d’oro del tennis italiano con un rovescio da sogno. Loro usavano racchette di legno, non ricordo di quale marca. Quelle che andavano di più tra gli appassionati erano la Maxima Torneo e la Maxply Dunlop. La Maxima ce l’ho ancora. La Maxply, bellissima, me la prese in prestito qualcuno e non l’ho più rivista, ma la ferita, passati cinquant’anni, si va rimarginando.
C’erano state, prima della vittoria del 1976, due finali perse contro l’Australia, nel 1960 e nel 1961. L’Italia schierava Pietrangeli e Sirola, un’altra coppia mitica dello sport italiano , ma gli australiani in quegli anni mettevano in campo autentici giganti del tennis, come Rod Laver e Roy Emerson, quasi imbattibili, e ci fu poco da fare.
Negli anni successivi alla vittoria, l’Italia andò in finale altre volte senza mai riuscire a riconquistare l’insalatiera. Poi questa vittoria, che ci ha fatto divertire e dato l’occasione per un piccolo tuffo nel passato dal quale ci siamo fatti prendere la mano.
Per finire, due parole sul merito agonistico: il giovane Arnaldi, all’esordio su un palcoscenico importante e difficile, ha vinto al terzo set una combattuta partita contro un giocatore di pari valore e mi è parso che abbia le doti mentali giuste (nel tennis fondamentali) per continuare a competere a buon livello internazionale. Sinner è un campione di classe superiore e, come da pronostico di Panatta, così letteralmente espresso, ha preso a pallate l’avversario rifilandogli un 6-0 nel secondo set. In definitiva la vittoria di squadra più facile dopo quelle contro l’Olanda e contro la Serbia, quando Sinner per vincere contro Djokovic ha dovuto annullargli tre match point, un particolare che dà il segno del livello stellare raggiunto dal giocatore tirolese.
Sempre per dovere di cronaca: la vittoria della nazionale di tennis ha un po’ messo in ombra un’altra bella affermazione dello sport italiano, il secondo mondiale Motogp vinto da Francesco Bagnaia su Ducati. Vorrei dirne qualcosa, ma di motociclismo non so molto, e magari una certa inclinazione di questo periodo a voltarmi all’indietro, mi porterebbe a parlare più di Libero Liberati o di Carlo Ubbiali, che comunque un ricordo lo meriterebbero tutto. Ma per ora con la storia può bastare così.