di Piero Vassallo
2° parte. La dottrina e l’evento
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Durante la fase più acuta della crisi postconciliare, il card. Giuseppe Siri pubblicò, nella rivista “Renovatio”, un articolo di fondo, che dava ragione del successo – apparente e momentaneo – della teologia progressista: “La Chiesa cattolica ha vinto le eresie, ma ha ben più difficoltà a vincere le confusioni” (“Renovatio”, anno X, 1975, fasc. 2, pag. 140).
Il cardinale di Genova non criticò i testi del Vaticano II (al contrario invitò a leggeri in ginocchio) ma si oppose al vento dell’impetuosa confusione teologica che soffiava sulla dottrina nell’intento di promuoverne una totale modernizzazione.
Un insigne interlocutore di Siri, Michele Federico Sciacca sosteneva, infatti, che il progetto neomodernista era finalizzato alla deteologizzazione del cristianesimo.
Siri sottopose a una critica implacabile i sommi banditori della confusione in atto nell’ambiente cattolico e ne fece anche i nomi: Henri De Lubac, Karl Rahner e Jacques Maritain.
Nell’aula conciliare il movimento modernista fu arrestato dalla nota previa, con cui Paolo VI smenti il cardinale belga Léon-Joseph Suenens e gli altri fautori della sovversione intesa ad abbattere il primato di Pietro e a stabilire il sommo potere del collegio dei vescovi.
Purtroppo l’errore neomodernista, strisciante nell’aula del Vaticano II, si diffuse negli stati d’animo e nella lettura tendenziosa dei testi conciliari, specialmente in quelli segnati da precipitosa indulgenza nei confronti del mondo moderno e delle false religioni.
Era prevedibile, peraltro, che una generazione di cattolici assordati dalle chiacchiere dei più prestigiosi teologi intorno alla meraviglia sovietica si lanciasse nella corsa verso le nuove frontiere del fantasticare.
La plumbea commedia degli esploratori cattolici, coinvolti nella bufera sessantottina e nel terrorismo – ad esempio – non si può valutare senza rivolgere il pensiero all’influsso della contorta teologia predicata da educatori, che usavano i testi del concilio come arieti contro la verticale.
Mentre denunciava il fumo di satana nella Casa di Dio, la mente di Paolo VI era forse rivolta alle maniglie che alcuni testi conciliari offrivano agli acrobatici volteggi dei banditori della teologia progressista, delirio teologico secondo la argomentata definizione di Cornelio Fabro.
Nel 1985, il cardinale Joseph Ratzinger confermò i giudizi di papa Montini, rammentando che, dopo il Vaticano II, “ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un percorso progressivo di decadenza”.
A proposito di balzi indietro, Brunero Gherardini rammenta che dall’uso spregiudicato dei testi del Vaticano II “Stava nascendo un Cristianesimo di nuovo conio: contestato e banalizzato il soprannaturale, gradualmente confuso con il naturale come se ne fosse un’esigenza ineludibile – in tutto questo era evidente una rivincita di Henri De Lubac ” [1].
Caduto il muro di Berlino gli anni dell’incandescenza progressista finirono nel libro delle memorie tristi e imbarazzanti. Purtroppo nel passaggio epocale l’errore progressista ha soltanto cambiato pelle, adattandosi alla figura cinerea della postmodernità, pornografica e relativista.
Ultimamente due opposte interpretazioni o ermeneutiche del Vaticano II stanno dividendo i cattolici dell’età postmoderna.
L’ermeneutica della continuità, formulata da Benedetto XVI, riafferma le indeclinabili verità della tradizione cattolica, legge il Vaticano II nella loro luce e raccoglie la sfida lanciata dal porno-relativismo, mediocre succedaneo del defunto pensiero moderno.
L’avventizia ermeneutica della discontinuità, elucubrata dal defunto professore Giuseppe Alberigo e adottata dai rumorosi ma sparuti eredi di Jacques Maritain e Giuseppe Dossetti, nel Vaticano II contempla un evento epocale: l’abbassamento della fede cattolica a opinione felicemente menomata e servilmente appiattita sul passato del pensiero moderno.
L’irriducibilità delle due scuole di pensiero manifesta le ragioni della restaurazione timidamente avanzante fra gli ostacoli elevati dai teologi progressisti e perciò nutre la speranza dei cattolici incapaci di rinunciare alla loro identità.
L’indirizzo perdente dell’ermeneutica eventuale si manifesta, peraltro, nelle anacronistiche escandescenze dei cattocomunisti, radunati in un’esangue aggregazione di nostalgici salmodianti intorno al relitto della rivoluzione sovietica.
La soluzione teologica del dilemma sul Vaticano II compete esclusivamente all’autorità del pontefice, che peraltro mostra di aver chiara la necessità di una svolta.
Tuttavia è lecito condividere la tesi formulata dall’autorevole padre Giovanni Cavalcoli o. p., secondo cui “è lecito avanzare riserve e anche critiche a certi aspetti del Concilio, ossia a quelli che mostrano eccessiva indulgenza nei confronti degli errori moderni”.
Detto questo occorre ribadire che la vera causa della crisi non risiede nei testi conciliari (talora superficiali, deboli e perciò datati, mai apertamente contrari alla verità) ma nel vento giornalistico sollevato dal conformismo e dall’ingiustificata paura del mondo moderno.
Il cardinale Siri sosteneva che la nuova teologia era alimentata da tradizioni filosofiche visibilmente destinate a tramontare nel ridicolo: la comica finale del comunismo sotto il muro di Berlino ha confermato il suo giudizio.
Oggi la passione dei teologi progressisti arde nella comica al quadrato, che si recita al San Raffaele intorno alla fumosa e uggiosa filosofia del maestro Cacciari.
Il maestre della nuova frontiera modernista è un mesto erede dell’illusione sovietica. Il cabaret lo ha definito kakkiari, parolina che allude alle mistiche banalità continuamente sciorinate dal maestro lagunare. Ed è questa la conclusione che si deve trarre dalla recente storia ecclesiastica: nella profondità dell’errore teologico abita il kakkiarismo, una farsa allegramente al galoppo. Grazie a Dio la leggerezza dell’ispiratore annuncia il declino dei teologi “ispirati”.
[1] Cfr.: “Concilio Ecumenico Vaticano II Un discorso da fare”, Casa Mariana Editrice, Frigento (Av.) 2009, pag. 72