Ci chiede un amico, esule anch’egli in un mondo straniero, di riflettere sul significato di essere “oltre la linea”. La tentazione è rispondere fingendo di essere colti, persino filosofi, citando la conclusione di due liriche del Novecento. Varcare la linea può essere la gravosa scoperta di Eugenio Montale in “Meriggiare pallido e assorto”: “e andando nel sole che abbaglia/ sentire con triste meraviglia/ com’è tutta la vita e il suo travaglio/ in questo seguitare una muraglia/ che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”. Oppure la virile consapevolezza di Camillo Sbarbaro: “nel deserto/ io guardo con occhi asciutti me stesso”.
Ci si può anche rifugiare nel soggettivismo dell’interpretazione di un quadro, eretto a metafora della vita. Pensiamo alla “Tempesta” di Giorgione, alla sua straordinaria eccedenza di simboli e significati. Oltre la linea è l’impassibile lanciere a guardia di due colonne incompiute su cui non posa nulla, costruite o finite sopra un muretto, di fronte alla vita che continua – la donna nuda che allatta – in attesa della tempesta che si avvicina, forse già scatenata nella misteriosa città sullo sfondo.
Ma non ci si può mimetizzare dietro ciò che è altrui, magari seguendo Faust, l’uomo della volontà di potenza, colui che più di tutti ambiva ad andare oltre, convinto che “in principio è l’azione”. In principio è il Verbo, l’assoluto, che alcuni si ostinano a chiamare Dio. La linea è per noi la condizione umana, valicarla significa percorrere uno dei due bivi: procedere senza pensare, ignari di ogni limite, lasciandosi esistere senza essere, oppure curvarsi, chinarsi alla ricerca della verità. Un vecchio detto mente clamorosamente proclamando che la verità è nuda. Al contrario, è coperta, mascherata, nascosta, avviluppata dietro innumerevoli pieghe. Per noi, superare la linea significa tentare di sfiorare con un dito la verità, come fa Adamo con il Dio antropomorfo del “Giudizio Universale” di Michelangelo.
Fin dall’infanzia, ci è sembrato chiaro che gran parte di ciò che appare non è la verità, le parole dette sono l’espressione di una ipocrisia profonda, il cosiddetto senso comune è l’esito di ciò che all’uomo viene fatto credere. In ogni gruppo umano, persino nei ragazzi che si riuniscono per giocare, cioè fingere la vita con la massima serietà, homoludens, i rapporti non sono mai sinceri, prevale il non detto, bianco e nero assumono infinite sfumature. La massa si accontenta dell’apparenza, del giudizio confezionato, dello sguardo di superficie. Alcuni cercano di andare oltre.
Amante del bosco, per me andare oltre la linea fu sollevare una pietra del sentiero e riconoscere con stupore il brulicare, là sotto, di una vita insospettata, celata allo sguardo. Non ha senso chiedersi che cosa c’è “dietro” un fatto, una storia, una persona. La domanda giusta è un’altra: che cosa c’è “dentro”. Mi sono fatto un’idea un po’ rudimentale, forse troppo schematica: l’uomo non vuole la verità, detesta guardare dentro le cose, tutt’al più dietro, il lato B della vita. Fissare ferisce gli occhi, desta l’angoscia. Oltre la linea è chi impegna se stesso non a decostruire i fatti, ma a riconoscerli, metterli in fila, cercare nessi per costruire. E’ tutt’altro che un esercizio di scetticismo, è la ricerca a tentoni della verità attraverso la tensione per l’Assoluto, l’Oltre.
È un’operazione che quasi ogni essere umano inizia a compiere, ma dalla quale si ritrae presto per spavento, mancanza di forze, o semplicemente perché la quotidianità prende il sopravvento. Andare oltre la linea significa scavalcare la quotidianità. Il prezzo da pagare è altissimo. Costa caro non credere nelle versioni ufficiali, nelle tesi preconfezionate, essere revisionisti. La gente preferisce il calduccio, i giudizi già pronti, il conformismo. Nel nostro tempo, più che in altre epoche, si ha orrore di trovarsi in minoranza. Sarà perché siamo miliardi e viviamo in alveari disseminati in immense aree urbane – periferie esistenziali – ma incontriamo soprattutto uomini e donne per i quali essere oltre la linea consiste nel suo opposto, seguire la corrente e chiamarla trasgressione perché così li ha convinti un potere pervasivo, onnipresente capace di farsi chiamare libertà, opportunità, diritti, progresso.
La verità non è nuda, ha indossato nuove maschere. Persona, la parola che indica l’essere consapevole di se stesso, significa in origine maschera. Gli antichi avevano ragione: per camminare nel mondo e osare essere persona, occorre indossare una maschera, poiché, comunque bisogna vivere e non si può reggere il conflitto vita natural durante. Bisogna “essere come tutti gli altri”. Per essere almeno tollerati, si è costretti a fingere, vivere accanto alla linea, cavalcare la tigre.
Non è opportuno avere convinzioni o principi, bastano le opinioni. Groucho Marx era un comico, e spesso per dire la verità bisogna fingere di scherzare: “Ho dei principi, ma se non vi piacciono, beh, ne ho degli altri”. La morale del droghiere associata a quella dell’opportunista. Cambiamo opinione a ogni campagna mediatica. Che si tratti del clima, del senso della famiglia, di Dio, della pace e della guerra, la nostra opinione è mobile, “muta d’accento e di pensier” come la preferenza per un detersivo o i dettami dell’ultima moda, sempre penultima rispetto a domani.
Conta rimanere al di qua della linea. Il diverso, il deviante, il dissidente è e sarà sempre un pessimo soggetto. La verità è questa, il resto sono favole per anime belle, pseudonimo di sciocchi animati da buone intenzioni. L’ho provato sulla pelle. Da bambino balbettavo, portavo gli occhiali e avevo due o tre chili di troppo. Escluso, deriso perché non ero “come tutti gli altri”. È la storia di molti, costretti a oltrepassare la linea, prendere la rincorsa per diventare forti e dimostrare, innanzitutto a se stessi, di non essere degli alieni, la maledizione di una vita.
Un episodio ha segnato l’inizio del percorso oltre la linea. Insieme ai compagni di scuola, guardavo il cinegiornale in attesa della proiezione dei film. Parlava dell’arrivo in Italia dei Beatles, ero l’unico a non averli mai visti, i fotogrammi mostravano le urla scomposte del pubblico, seguite da sequenze dei brani in concerto. Dissi che la musica non mi piaceva, i capelli lunghi mi sembravano una stupidaggine, come l’entusiasmo fatto di grida, convulsioni e pianti nervosi. Credo di essermi appiccicato quel giorno e per sempre l’etichetta di deviante. Le reazioni furono di tre tipi: la maggioranza ricorse al dileggio, qualcuno decretò l’espulsione, altri manifestarono un’ostilità aggressiva.
Vivere oltre la linea significa sperimentare l’estraneità, vivere a lato, capire che guardiamo lo stesso panorama degli altri ma vediamo colori e paesaggi diversi. Per continuare a vivere con sufficiente normalità, poiché là fuori ci sono la famiglia, il lavoro, le relazioni, si deve imparare da Fernando Pessoa: il poeta è un fingitore, e finge che sia dolore, il dolore che davvero sente. Chi è oltre la linea, tuttavia, non può né vuole rientrare nei confini. Esule, quello è il suo orgoglio.
Un pericolo è scambiare la propria dignità e diversità con il ruolo, in fondo ridicolo e socialmente innocuo, del bastian contrario. Per essere davvero oltre la linea, bisogna mantenere il passaporto, rientrare nei confini quando è giusto. È richiesta una dote difficile, l’equilibrio, che spesso gli sciocchi confondono con la moderazione. Esprimere giudizi non significa dire sempre di no. È l’arduo esercizio di pensare, riflettere, vedere ogni questione da diverse angolature, rigettare il conformismo, sapere che l’errore si annida anche nel partito preso, nell’ opposizione preconcetta elevata ad abito mentale. Al di là della linea si impara con alterne fortune a prendere le distanze, anche da stessi. Andare oltre, talvolta significa tornare sui propri passi, darsi torto e – la cosa più difficile- ammetterlo.
Il tipo umano che rappresentiamo non crede nell’uguaglianza ma nella libertà, inclina all’assoluto e tende a disprezzare la miopia della massa. Non guardano oltre il proprio naso, pensiamo degli altri. È verissimo, ma attenzione alla presbiopia che confonde i contorni di ciò che è vicino. La presbiopia è un difetto dovuto alla perdita di elasticità degli organi oculari. Il grande limite degli oltre-linea è la rigidità, diversa dal rigore e dalla coerenza. La loro vita è una lotta contro il velo di Maya, l’illusione, la frontiera che impedisce di attingere la verità.
L’inquietudine esistenziale che ne deriva è profonda quanto l’impossibilità di essere “normali”, ma esiste una fenditura, una via d’uscita sconosciuta a molti del nostro tempo. La verità esiste, oltre la linea, ma non è cosa per gli uomini: siamo una creatura, l’unica che pone domande e invoca risposte. L’inquietudine è costitutiva, senza di essa si è passeggeri dell’esistenza, non viaggiatori. Solo nell’attimo in cui riconosce una traccia dell’assoluto l’animo si rasserena e dissolve ogni confine. Da lì inizia il dialogo con l’Altro assoluto, la grande scommessa dell’uomo, riassunta nella più straordinaria autobiografia della letteratura mondiale, le Confessioni di sant’Agostino. Inquieto è il nostro cuore fino a quando non riposa in te.
1 commento su “Conservare l’equilibrio oltre la linea”
Ogni volta che rileggo Montale e il suo meriggiare accanto a una muraglia con in cima cocci aguzzi di bottiglia, sento che qualcosa non va in questa poesia: è il senso di assoluta solitudine che la pervade e quella impossibilità di guardare oltre, oltre quel muro e quei cocci. No, non è questa la condizione di chi ha fede, semmai preferisco l’immaginazione leopardiana di fronte alla siepe che impedisce l’orizzonte, preferisco gli interminati spazi, i sovrumani silenzi, la profondissima quiete che sì, riescono ad avvicinarmi l’Oltre. Lo avvicinano, certo, ma non compiono la mia tensione, il mio desiderio di pace infinita. Perché è davvero come geme Agostino pensando al Dio che il suo cuore brama; e tutti noi siamo ansimanti, con l’animo in subbuglio finché non riposeremo in Lui. Una volta, però, Papa Benedetto, affacciato a quella finestra ora quasi sempre chiusa, parlò di una possibilità, diede la speranza che non ci è precluso sperimentare qui e ora la felicità assoluta e riferì di attimi, questione di secondi in cui, per grazia, a qualcuno è dato di assaporare il paradiso. Ne rimasi molto colpita, ché so di qualcuno che proprio questo ha sperimentato, in chiesa, la notte di un Sabato Santo.