Il Presidente (Mario Draghi, e chi sennò?) approda a Rimini abbronzato col viso disteso di chi è soddisfatto di sé e confida nella propria eternità. Politica e dunque anche umana, perché la grandezza non teme il tempo, specie se di quella sei il primo ad essere profondamente convinto. Sorride beato quando viene accolto dalla ovazione che ritiene gli sia dovuta, perché Rimini non è Napoli, ovvero perché è agli antipodi di quella realtà. Ovvero della realtà tout court.
Infatti, qui si può finalmente essere sospesi nella atmosfera rarefatta di un mondo surreale nel senso proprio del termine, di ciò che sta sopra la materialità del reale. Questo è il regno felice di sé, perché non oscurato dal peso ingombrante del pensiero, ma illuminato dalla leggerezza della parola bella che è solo quella modulata dalle belle intenzioni delle anime belle. Qui le parole sono anche forgiate all’origine dalla verità perché ancorate al carisma di chi le pronuncia.
Insomma, il Presidente ha trovato qui pane per i propri denti, ovvero, per dirla in modo meno greve, si è trovato felicemente abbracciato nell’incontro, in corrispondenza di amorosi sensi, con il popolo che intende appieno la bellezza della parola liberata da quella ponderazione che offusca la leggerezza dello spirito. Infatti “penso” deriva dall’idea del pesare, misurare, stimare.
Sullo sfondo di questo idillio metafisico, il presidente ha potuto esaltare senza falsi pudori i meriti acquisiti con il proprio intervento provvidenziale e risanatore di una situazione drammaticamente disastrata per colpa di quelli venuti prima di lui.
Ha sciorinato con disinvoltura previsioni fantasmagoriche fondate sulle basi preziose da lui gettate e che potrebbero essere smentite soltanto da un cambio di direzione politica postelettorale.
Nella esaltazione crescente alimentata dagli applausi indotti da pause sapienti della voce, non ha potuto sottrarsi, con foga oratoria, alla necessità di sciorinare a casaccio dati fasulli in mezzo a proposizioni palesemente illogiche, secondo un vezzo retorico che abbiamo avuto modo di apprezzare in più occasioni. Ma questo forse fa parte, appunto, proprio di un habitus retorico modellato sì sui canoni della antica concinnitas romana, ma che tiene conto democraticamente del diffuso decadimento della razionalità occidentale. Nonché del grado culturale fornito mediamente al suddito dal ministero della pubblica istruzione in collaborazione con la tv nazionale.
Forte di questo slancio oratorio ben retribuito dalla giovane massa plaudente, ha potuto anche azzardare, senza danno di immagine, la menzogna dettata dalla ragion di stato, ovvero dalle ragioni del grande feudatario cui tutti i vassalli istituzionali, senza distinzione di sorta, maggioranza e opposizione comprese, conferiscono un costosissimo tributo materiale e culturale quasi secolare, eccetto quello dello jus primae noctis, ancora eroicamente difeso anche dai non cattolici.
La menzogna grossolana e spericolata, ma alla portata delle giovani menti poco avvezze alla faticosa conoscenza dei fatti, è venuta quando con tranquillità è stata attribuita alla prava voluntas della Russia e del suo inquietante capo supremo la crisi energetica prossima ventura. Ma la fiducia nella ormai diffusa incapacità di capire cosa sia il nesso di causalità è stata premiata dal compunto applauso di una preoccupata e commossa platea.
Dunque grande successo incassato dal Presidente, che poteva contare sulla ormai diffusa incapacità dei giovani, e spesso meno giovani, di essere tentati dal dubbio e dalla esigenza di conoscere i fatti nella loro possibile oggettività e non nella loro creazione dal nulla che è in uso all’interno delle redazioni e degli studi televisivi, su commissione ovviamente dei poteri politici ed economici dominanti.
Sarebbe di certo impossibile trovare in mezzo al pubblico plaudente che “incontra” il Presidente, un Gavroche. E si capisce. Ma è più difficile rassegnarsi all’idea che anche menti fresche, pur trascinate dalla forza spesso disordinata delle “emozioni”, non sentano anche la tentazione altrettanto emozionante, a suo modo, della avventura del pensiero, ovvero della conoscenza. Quella che, a partire dalla realtà dei fatti, e attraverso lo spirito critico, fa salire verso una consapevolezza superiore. Un cammino che richiede tuttavia la fatica e la pazienza dello studio, la capacità di sopportare la disillusione, e non può fare a meno di mettere in conto la estrema complessità del reale.
Invece, ad incoraggiare il non pensiero dominante dentro e fuori gli spazi riminesi, è intervenuto anche un altro signore votato alla propria eternità di potere. Un uomo di grandi studi accademici e di grande consumata esperienza politica, il quale ha potuto arricchire il bagaglio culturale della gioventù ammaliata dalla verità delle parole liberate, con una frase lapidaria e risolutiva: “Negare la scienza è entrare nel falso e quindi nell’ingiustizia, perché seguire il falso porta a decisioni ingiuste e pericolose”.
I giovani plaudenti chiedano che venga inviato loro anche un manuale di istruzione e una guida lessicale. Tanto per cominciare.