di Cristina Siccardi
Il Concilio Ecumenico Vaticano II è o non è un Concilio di continuità, è o non è un Concilio di rottura? La deduzione è shakesperiana: «Questo è il problema».
Si tratta di una questione che entra nei meandri non solo intellettivi della Chiesa, ma della sua stessa coscienza. Dopo cinquant’anni di amari frutti conciliari, in una società secolarizzata, “grazie” non solo ai nemici della Chiesa, ma anche delle corrotte e corrompenti ideologie filosofiche e teologiche che si sono in essa introdotte con mefistofelica astuzia, la scottante problematica è finalmente affrontata, come dimostra da alcuni anni il teologo Monsignor Brunero Gherardini. La rivista internazionale e quadrimestrale di ricerca e di critica teologica «Divinitas», con sede nella «Città del Vaticano», sul numero 3 del 2012, ha pubblicato un suo articolo dal titolo Continuità o rottura?
Partendo dalla celebre allocuzione del Santo Padre alla Curia del 22 dicembre del 2005, Gherardini sviluppa un pensiero teologico di perfetta logicità e coerenza. Benedetto XVI quel giorno si soffermò su un dramma, «mise a fuoco il problema dell’interpretazione dei testi conciliari, contrapponendo l’ermeneutica della continuità a quella della rottura, commentatori di varia estrazione e variamente autorevoli son tornati più volte in argomento. E non senza ragione, trattandosi di risponder al quesito se la Chiesa, oggi e domani, sarà quella di sempre o se, per sopravvivere, dovrà darsi un assetto diverso»[1]. Benedetto XVI, parlando di ermeneutiche, dunque di interpretazioni, sottolinea Gherardini, ha messo in luce un principio basilare: «un Concilio non sarà mai di rottura, perché dipende dalla sua continuità con la dottrina di sempre»[2].
La quaestio non è una semplice e mera speculazione intellettuale, essa scava in profondità questo dramma per aprire, con il bisturi appropriato, il bubbone nel quale si sono annidati microbi infettivi.
Il Papa individuò due “litiganti”: i sostenitori dell’ermeneutica della rottura e quelli dell’ermeneutica della continuità, ovvero quelli della discontinuità e quelli della riforma, coloro che propugnano il rinnovamento nella continuità del soggetto Chiesa. Due fronti ben distinti, dove ognuno dichiara di avere ragione e che sono in continua antitesi: ma i litigi sono destinati, prima o poi, a terminare, e uno dei due dovrà sottomettersi umilmente alla ragione dell’altro, perché, come la dottrina è portatrice della Verità, così la Chiesa è chiamata a trasmettere, nel modo corretto (onde non contaminare o corrompere quella Verità), l’unica e sola Rivelazione fatta da Cristo, quando s’incarnò nel tempo e nel mondo. «Se si riesce ad impostare correttamente l’argomento, i lamentati “litigi” fra le due ermeneutiche non avranno più motivo né occasione d’insorgere; anzi, non potranno più esserci due ermeneutiche. Dal canto loro i pastori, teologi, studiosi e lettori del Vaticano II troveranno, in questo stesso valore, la chiave di volta per un’obiettiva e corretta interpretazione conciliare»[3]. La chiave è una (proprio come una è la Verità), si chiama Tradizione e l’Autore della Tradizione è Cristo.
Monsignor Gherardini sviluppa un discorso che segue una dialettica teologica ineccepibile. Primo scalino da affrontare risulta essere quello del significato etimologico di Tradizione. Tradizione deriva dal sostantivo traditio e dal verbo tradere, ossia «trasmettere, tramandare». L’autore spiega come tali termini siano passati dalla religione ebraica, dove veniva trasmessa, in ebraico/aramaico, la Tôrā, a quella cristiana, attraverso la lingua greca e poi quella latina. Il concetto era lo stesso ed è rimasto tale anche se immesso nelle lingue moderne: ricevere e ritrasmettere gli insegnamenti di un preciso e medesimo contenuto.
La Tradizione racchiude il passato, si innesta nel presente e si getta nel futuro, perennemente giovane, dai tratti che riconducono al “per sempre”, seppur inserita nella storia. «In tal senso, la Tradizione non è affatto una specie di predominio del passato sul presente e sul futuro, i quali, se un tale predominio si verificasse – come vorrebbe il tradizionalismo – ne verrebbero fagocitati e cesserebbe la storia; è tuttavia un valore […] determinante-vincolante-obbligante per il senso che conferisce al presente, preparando così il domani ed in esso proiettandosi»[4].
Benché molti cattolici e molti “falsi profeti” e falsi maestri, non si facciano il benché minimo scrupolo (pensiamo a nomi come quello di Enzo Bianchi, di Alex Zanotelli, di don Andrea Gallo, di don Luigi Ciotti), nella Chiesa la Tradizione è: determinante (dunque fondante), vincolante (quindi inderogabile), obbligatoria (assume un carattere di legge) e per tali ragioni ad essa si deve massimo rispetto e massima obbedienza. Se la Tradizione non viene soffocata e silenziata, non si annacqua, né si disperde nella storia, «ma è generatrice di essa. Da qui l’idea della sua vera ed autentica vitalità»[5] che fa da controcanto alla falsa «Tradizione vivente», espressione utilizzata da coloro che vogliono giustificare un’innovazione sostanziale nella Chiesa, incompatibile con la Tradizione «come una rosa o un giglio non fioriscono, di per sé, organicamente, da una quercia o da un ciliegio»[6].
Dal significato etimologico, l’autore passa poi al concetto teologico di Tradizione. Il pensiero si sofferma sull’azione di tale lemma: la Divina Rivelazione va custodita gelosamente e deve essere trasmessa con fedeltà ed ecco tre verbi che si richiamano l’uno dopo l’altro nel processo di trasmissione: tradere-recipere-docere e ciò riguarda sia il passaggio orale, sia la sua fissazione nella Scrittura.
L’organo che trasmette la Tradizione cristiana è stato individuato e creato dallo stesso Rivelatore, il Figlio di Dio: la Chiesa, fondata su san Pietro, una Chiesa formata da persone che hanno ricevuto una precisa ed autorevole investitura e che va sotto il nome di consacrazione nella successione apostolica. A questo punto la Tradizione porta con sé altri esercizi: predicare, insegnare, evangelizzare (la Chiesa è di natura missionaria e mai potrà rinunciare al mandato del Redentore di portare l’annuncio della Salvezza a tutte le genti, di qualsiasi religione esse siano) e per compiere tali mansioni si affida proprio ai successori degli Apostoli, responsabili della sana dottrina e garanti della Verità trasmessa. In tal modo Tradizione e Successione sono due aspetti di una stessa realtà che racchiude alcuni elementi costitutivi:
«a. quanto all’origine, il risalire agli apostoli di successione in successione;
b. quanto al contenuto, la continuità dell’insegnamento apostolico;
c. quanto all’autorità, quella stessa degli apostoli, che perciò è normativa della Fede»[7].
Con onestà intellettuale si può affermare che nel Concilio Vaticano II si sono dette cose nuove, che mai erano state contemplate nella Tradizione della Chiesa; si sono pianificate proposte innovative, che mai si sono delineate nella Tradizione; si sono intraprese strade temerarie, come l’ecumenismo e la libertà religiosa, iniziative che hanno portato spesso ad una sventurata ed infelice sottomissione all’opinione pubblica e alle ideologie dettate dal momento storico in corso; si pensi, per esempio, al silenzio sul Comunismo da parte dell’Assise apertasi 50 anni fa, all’Ostpolitik che ne seguì e al corrispettivo martirio della Chiesa del silenzio nei Paesi dell’Est.
Lo stesso Sommo Pontefice, ultimamente, ha pubblicato un testo dove riserva due critiche e una sospensione di giudizio a tre documenti conciliari: Gaudium et spes, Dignitatis humanae e Nostra aetate[8].
È chiaro che nei testi conciliari il linguaggio di stampo liberale si è imposto in maniera evidente, misconoscendo quello caratteristico della Tradizione; anche per questa ragione, là dove esiste un richiamo tradizionale, si riscontrano, senza neppure troppa fatica, contrasti, scordature e talvolta vere e proprie contraddizioni che confondono il fedele che ogni domenica pronuncia il Credo con seria e profonda convinzione, e non solo per abitudine.
La Tradizione è la vita della Chiesa, non può essere contraddetta ed è lei ad essere legittimata per giudicare le novità proposte e non viceversa. Nella «storia ecclesiastica dagl’inizi alla fine, mai nessun Papa e mai nessun vescovo avranno diritto all’ascolto qualora insegnino a titolo personale o come privati dottori. Solo in quanto successori degli apostoli, infatti, son Magistero autentico infallibile irriformabile, avendo esso:
a. il suo oggetto nella dottrina apostolica;
b. il suo compito, nel trasmetterla inalterata;
c. la sua autorità magisteriale, in quella delle dottrine apostoliche autorevolmente insegnate in nome e come “voce” della Chiesa»[9].
Da questo studio emerge plasticamente l’impossibilità da parte della Chiesa di prescindere dalla Tradizione, altrimenti non sarebbe più la Chiesa fondata dal Salvatore: in questo san Paolo è chiarissimo, l’antica Tôrā è stata sostituita da Cristo, l’Apostolo delle genti l’accoglie e la ritrasmette, invitando gli altri a fare altrettanto; se ciò non avvenisse significherebbe commettere un tradimento, perciò la «Chiesa vive di questo recepire Cristo e ritrasmetterlo nel tempo, fin al suo epilogo»[10]. Così parla Gherardini, così parla sant’Agostino: «“non nisi apostolica auctoritate creditum”[11]: non credo per altro motivo che per l’autorità apostolica con cui la Chiesa mi dice di credere»[12]. Tutti coloro a cui è stato consegnato il deposito della Fede sono responsabili dell’integrità di ciò che hanno ricevuto integralmente: da duemila anni, questi chiamati-eletti hanno insegnato ciò che hanno appreso e hanno trasmesso ciò che hanno ricevuto, «questa e soltanto questa è Chiesa viva!»[13].
Qui non c’è fumo, ma concretezza, infatti l’autore offre delle prove con la sua analisi alla Costituzione apostolica Dei Verbum: alcuni punti sono in corrispondenza perfetta con il Concilio di Trento e con il Concilio Vaticano I a riguardo della tematica Tradizione; ma altri sono incongruenti fino ad avere due prospettive diverse nello stesso documento: in DV 9 si parla esplicitamente di unità, come una cosa sola, come somma dell’intera Rivelazione, fra la Scrittura Sacra e la Tradizione, le quali perseguono lo stesso scopo; ma in DV 10 il concetto muta e viene introdotta, invece, la distinzione fra Scrittura e Tradizione. A chi credere, dunque, al principio enunciato prima o a quello successivo?
Inoltre, sempre nella Costituzione dogmatica non è chiaro se Tradizione, Scrittura e Magistero (DV 10/e) sono connessi e congiunti, tanto da non poter essere divisi, oppure se i tre soggetti, pur lavorando nella comune finalità salvifica, hanno identità autonome (DV 10/c): «la Scrittura diventerebbe solo il ricettacolo scritto, e come tale solennemente riconosciuto dal Magistero, della predicazione ecclesiastica e quindi della Tradizione. Il Magistero impersonerebbe l’una e l’altra, assumendone l’autorità e rendendo problematica la sua condizione di loro “servo”.
Va detto con tutta franchezza che il giudizio del Magistero è inappellabile e decisivo. Ma lo è solo se rimane nell’ambito del suo “servizio”, quello stabilito dalla Rivelazione stessa: custodire cioè ed esporre fedelmente le verità salvifiche, contenute nel deposito o come “dette” o come “scritte”. Al di fuori di questi limiti, verrebbe meno a se stesso. Pertanto, neanche al Magistero, così come a nessun cristiano, è lecito esporre come contenute nel sacro deposito idee proprie o dottrine desunte dalla dialettica filosofico-scientifica d’un determinato momento storico; ancor meno è lecito vincolar ad esse la libertà della coscienza individuale ed ecclesiale. Non saremmo, in tal caso, di fronte al Magistero, ma al suo tradimento»[14].
Chiesa e Tradizione sono inscindibili e hanno lo stesso fine: la salvezza delle anime; non così accade fra Chiesa e mondo, con esso ci possono essere delle frequentazioni diplomatiche e di opportunità, ma mai di comunione di intenti, perché il mondo può portare alla perdizione delle anime. Ha scritto Benedetto XVI a proposito della Gaudium et Spes: «Tra i francesi si mise sempre più in primo piano il tema del rapporto tra la Chiesa e il mondo moderno, ovvero il lavoro sul cosiddetto “Schema XIII”, dal quale poi è nata la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Qui veniva toccato il punto della vera aspettativa del concilio. La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata. Le cose dovevano rimanere così? La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi? Dietro l’espressione vaga “mondo di oggi” vi è la questione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna. Questo non è riuscito nello “Schema XIII”. Sebbene la Costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del “mondo” e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale»[15].
Occorre fare un distinguo: il Cristianesimo è Tradizione e non conservazione: «Conservazione è chiusura al nuovo; tradizione è passaggio da un’era ad un’altra»[16]; un grande inganno ed un’abissale infedeltà, poi, si verifica quando si muta la prospettiva teologica di Tradizione, non considerandola più scrigno dell’unica e sola divina Rivelazione, ma valutandola e misurandola alla luce della storia, quest’ultima intesa come immanente forza evolutiva, dando, in tal modo, ampio spazio alle soggettive “verità”, spesso in contrasto con quelle rivelate. Quanti, appellandosi al Concilio Vaticano II, si sono permessi di proteggere innovazioni, rivoluzioni, posizioni erronee? Se ne potrebbe scrivere un’enciclopedia intera, ma, piuttosto che confezionare una simile opera, sarebbe molto più benefico e salutare, come auspica Monsignor Gherardini e tutti coloro che comprendono che la Tradizione è l’antidoto alle sostanze venefiche che sono state inoculate nella Chiesa, sottoporre a verifica i documenti conciliari, facendo emergere le novità moderne che sono in contrapposizione con gli insegnamenti di sempre e che hanno prodotto quelle stesse ermeneutiche in lite fra di loro.
[1] B. Gherardini, Critica teologica-Continuità o rottura?, in «Divinitas», Rivista internazionale di ricerca e di critica teologica, Città del Vaticano, Anno LV, n. 3-2012, p. 321. (Il neretto è nel testo originale).
[2] Ivi, p. 351.
[3] Ivi, pp. 324-325.
[4] Ivi, p. 329.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, p. 324.
[7] Ivi, p. 331.
[8] Per approfondire vedi di P. Pasqualucci, Sulle recenti critiche di Benedetto XVI al Concilio Vaticano II: http://www.conciliovaticanosecondo.it/2012/11/18/sulle-recenti-critiche-di-benedetto-xvi-al-concilio-vaticano-ii/
[9] Ivi, p. 332.
[10] Ivi, p. 333.
[11] Agostino, De bapt. Cont. Donatum, 4,24 PL 43.174.
[12] B. Gherardini, Critica teoligica-Continuità o rottura?, in «Divinitas», art. cit., p. 334.
[13] Ibidem
[14] Ivi, pp. 344-345.
[15] Benedetto XVI racconta, in «L’Osservatore Romano», 11 ottobre 2012 (numero dedicato al cinquantenario del Concilio Vaticano II), p. 6.
[16] B. Gherardini, Critica teologica-Continuità o rottura?, in «Divinitas», art. cit., p. 346.