Per gentile concessione delle Edizioni Ares, pubblichiamo la prefazione del professor Giuseppe Pezzini (University of Oxford) al nuovo libro di Paolo Gulisano,
Clive Staples Lewis. Nella terra delle ombre
Al grande pubblico C.S. Lewis ẻ per lo più conosciuto come l’autore di un mondo fantastico che ha affascinato l’immaginazione di milioni di lettori (e spettatori). Ma il mondo di Lewis si estende ben oltre i confini di Narnia, sia in ampiezza e profondità: aprire questo libro è dunque come per i fratelli Pevensie entrare nell’armadio, e inoltrarsi in un viaggio inaspettato, che rivelerà nuove viste e nuovi orizzonti, alla scoperta dell’umanità di un grande scrittore.
Quella che avete tra le mani non è però l’agiografia di un santo più o meno laico, e neppure la disamina di un’opera letteraria impeccabile. C.S. Lewis è infatti per tanti versi un personaggio problematico, se giudicato secondo astratti criteri di perfezione. Nato in una famiglia dell’élite imperialista e anticattolica dell’Irlanda del Nord, Lewis crebbe in un contesto culturale dominato dai dogmi del liberalismo, da cui egli stesso fu sedotto per un certo periodo. Anche in seguito alla sua “riluttante” ri-conversione al cristianesimo (‘il regresso del pellegrino’), si rifiutò sempre di concludere il suo cammino verso la Chiesa Cattolica, nonostante l’insistente incoraggiamento di Tolkien (amico stretto per un periodo cruciale della sua vita). Lewis fu pensatore e apologeta del cristianesimo, ma mai veramente dotato (o preoccupato) del rigore e la precisione del filosofo e teologo. Autore di molti e diversi libri (quasi 100, tra romanzi, saggi e raccolte di poesie), alcuni dei quali ebbero grande successo di pubblico (le cronache di Narnia soprattutto), ma che furono spesso scritti di getto, e dunque non privi di imperfezioni e superficialità, sia di forma che contenuto – come lo stesso Tolkien gli rimproverò più volte. Anche la vita privata di Lewis non fu esattamente senza ombre e ferite. Orfano di madre in giovane età, venne poi mandato da un padre anaffettivo in prestigiose scuole private inglesi, dove fu sottoposto a veri e propri abusi. Single per quasi tutta la vita, ma al contempo al centro di una famiglia allargata, di cui fecero parte una vedova di quasi 30 anni più anziana, che visse con lui dai tempi dell’università, e poi una donna divorziata, dal passato turbolento e malata di cancro, che lo avrebbe sposato, inizialmente per puro interesse, in un matrimonio segreto e controverso. Anche i suoi amici più intimi e affezionati ebbero parole severe sulla sua personalità, che era caratterizzata, a dire di Owen Barfield, da “una certa immaturità psichica o spirituale”, oppure, secondo Tolkien, da una grande impressionabilità e da un profondo dualismo tra pensiero e immaginazione. Con tutte le sue nostalgie per un medioevo perduto, e le sue tirate anti-moderniste C.S. Lewis può essere dunque considerato a pieno titolo come un uomo moderno, e dunque molto più simile a noi di come si potrebbe pensare – figli e figlie di una società ancora intellettualmente tracotante ma in realtà confusa e ferita, se non disperata. Forse le grandi battaglie di Lewis contro i grandi errori della modernità, e anche le sue personali sconfitte sul piano morale, spirituale ed estetico, si comprendono bene nell’ottica di una guerra civile all’interno del proprio animo.
Questo appassionato libro non nasconde queste problematicità ma le integra all’interno di ritratto più completo della sua personalità umana e letteraria – un ritratto giustamente carico di ammirazione e gratitudine. Perché C.S. Lewis era certo un groviglio di contraddizioni, ma non fu solo questo: nonostante (anzi attraverso, se non addirittura grazie a) le sue contraddizioni Lewis fu senza dubbio un “grande uomo”, come scrisse Tolkien dopo la sua morte – per lui dolorosissima. Un uomo di una “grande generosità e capacità di amicizia”, “energetico e gioviale”, “in guardia contro tutti i pregiudizi” (Tolkien), con una “suprema maturità intellettuale e fantastica, accompagnata da energia morale” (Barfield). Nella prima parte del libro di Gulisano incontriamo dunque la storia dell’uomo Lewis, con tutte le sue grandezze: la sua serietà con il problema della felicità, la sua “dialettica vissuta del desiderio”, il suo generoso impegno apologetico, che nelle parole del suo ultimo segretario diede uno “straordinario contributo a rendere il Paradiso credibile e desiderabile” – non solo ai suoi colleghi intellettuali, ma ai tanti “uomini qualunque” che furono raggiunti dalle sue famose trasmissione radiofoniche. E poi il suo amore veramente ‘cattolico’ per la letteratura, e soprattutto per quel genere fantastico di cui sarebbe diventato indiscusso protagonista – un amore radicato nella scoperta che la verità trascendente è spesso espressa con più precisione nell’umile e velato linguaggio della fiaba.
Tra tutte le grandi doti di Lewis forse quella più importante fu però proprio la capacità di costruire e sviluppare rapporti con una fitta rete di persone, spesso diversissime da lui e tra loro – persone lontane, nello spazio o nel tempo ma anche persone vicine, per geografia e sensibilità, tra cui soprattutto i membri del circolo degli Inklings, che aveva in Lewis il suo baricentro e che furono profondamente influenzati dal suo entusiasmo (tra cui soprattutto Tolkien, che non sarebbe mai riuscito a completare il Signore degli Anelli senza l’incoraggiamento appassionato di Lewis). Più che una cronologia, Gulisano propone dunque una galleria di storie di amicizia, che includono persone semplici ma anche protagonisti della storia del tempo, autori letterari a lui contemporanei, tra cui Longfellow, Chesterton, e MacDonald, ma anche grandi maestri del passato, da Omero a Lönrot. Tra queste amicizie forse quella che colpisce di più un lettore italiano è quella con Don Giovanni Calabria, con cui Lewis intessé un fitto epistolario, sincero e profondo, intessuto dalla comune passione ecumenica. Nonostante la sua militanza apologetica, e una propensione alla narrazione dei pochi contro i molti, Lewis fu in realtà un uomo capace di travalicare qualunque recinto ideologico: come scrive giustamente Gulisano “Lewis aveva compreso che fra i cristiani, e in fondo ciò vale per tutti gli esseri umani, sono molte di più le cose in comune che quelle che ci dividono. Occorreva aumentare le relazioni, le occasioni di incontro, sentire l’incontro con chi è diverso come un arricchimento. Occorreva costruire ponti.”
Da questa umanità appassionata e aperta, da questa fede generosa, e soprattutto da queste storie di amicizie, nasce una ricca opera letteraria, che Gulisano considera nella seconda parte del libro, concentrandosi su una selezione di opere a lui più care, saggistiche, come L’Abolizione dell’uomo (1943) o Il diario di un dolore (1961) ma soprattutto narrative, tra cui soprattutto The Pilgrim’s Regress (1933), La trilogia dello spazio (1938–1945), Le Lettere di Berlicche (1942), Il grande divorzio (1945) e soprattutto le Cronache di Narnia (1950-1955), e il vero grande capolavoro A viso scoperto (1956).
Molti di questi libri hanno un contenuto polemico o apologetico, esplicito o allegorico, ma la loro forza non consiste soprattutto in questo. Il contributo di Lewis, e soprattutto della sua letteratura, non è stato infatti quello di “sfrondare le giungle” ma semmai“irrigare i deserti”, come disse lui stesso.
E per questo il grande merito del libro di Gulisano è proprio quello di accendere il desiderio di accostarsi all’acqua luminosa della parola di Lewis – una parola che sgorga da un’umanità ferita, (come la nostra) ma che ha avuto la disponibilità, con tutte le sue contraddizioni, di abbeverarsi e dunque farsi portavoce appassionata di una Parola più grande, per il bene del mondo.