Che Guevara, da assassino a icona pacifista del capitalismo occidentale
Fonte: Il Cannocchiale
“Tengo una remera del Che y no sé por qué”. Ho una maglietta del Che e non so perché. E’ uno slogan argentino davvero molto efficace per sintetizzare il bell’articolo di Alvaro Vargas Llosa uscito su The New Republic e prontamente tradotto dal Corriere della Sera. L’articolo si intitola The Killing Machine (qui la trad. it.), ed è una severa critica al mito del Che, che non solo ha fatto poco contro il capitalismo (tanto da diventarne un’icona), ma ha anche ucciso molti innocenti in nome della “sua” rivoluzione. Quando Eutimio Guerra venne accusato di aver venduto delle informazioni, il Che gli sparò in testa: “Ho risolto il problema con una calibro 32, nella parte destra del cervello… Ciò che apparteneva a lui ora era mio”. E quando Fidel Castro gli affidò la direzione del carcere di La Cabaña, Ernesto Guevara non lo deluse: dopo processi sommari, in cui la sentenza era automaticamente confermata in appello, i detenuti venivano fucilati. Anche sette a notte. Javier Arzuaga, cappellano del carcere, ex prete cattolico, ricorda così la sua esperienza: “C’erano circa ottocento prigionieri in uno spazio capace di contenerne non più di trecento: ex militari e poliziotti dell’era di Batista, giornalisti, qualche uomo d’affari e alcuni commercianti. Il tribunale rivoluzionario era formato da uomini delle milizie. Che Guevara presiedeva la Corte d’appello. Non ha mai annullato una sentenza. Visitavo il braccio della morte nella Galera de la muerte. Si sparse la voce che ipnotizzavo i prigionieri perché molti restavano calmi, così il Che diede l’ordine che fossi presente alle esecuzioni. Dopo la mia partenza in maggio furono eseguite ancora molte sentenze, io vidi 55 esecuzioni. C’era un americano, Herman Marks, evidentemente un ex carcerato. Lo chiamavamo “il macellaio” perché provava piacere a dare l’ordine di sparare. Difesi davanti al Che la causa di numerosi prigionieri. Ricordo in particolare il caso di un ragazzo, Ariel Lima. Il Che non si smosse. Né cambiò idea Fidel, al quale feci visita. Rimasi così sconvolto che alla fine del mese di maggio 1959 mi fu ordinato di lasciare la parrocchia di Casa Blanca, dove si trovava La Cabaña e dove avevo celebrato la messa per tre anni. Andai a curarmi in Messico. Il giorno che partii, il Che mi disse che ciascuno di noi aveva tentato di portare l’altro dalla propria parte, invano. Le sue ultime parole furono: “Quando ci toglieremo le maschere, ci ritroveremo nemici”.
Questo era Ernesto “Che” Guevara. Oggi il suo volto campeggia su bandiere, magliette, accendini, bandane e persino su uno Swatch! E’ uno dei volti con cui le “multinazionali capitaliste” più si arricchiscono, è un’icona assolutamente globalizzata, è l’icona del guerriero che non esita a sparare in fronte a un traditore. Eppure, il Che, è l’idolo di migliaia di giovani e giovanissimi no-global e pacifisti. E’ il personaggio storico più raffigurato alle manifestazioni pacifiste, quelle all’insegna della “pace senza se e senza ma”. Non Gandhi, ma Che Guevara. Non Martin Luther King o Albert Schweitzer. No: Ernesto Che Guevara il guerriero.
La ragione è ovvia: Che Guevara, insieme a Castro, è il simbolo della Revolución Cubana, mito fondativo della sinistra radicale e grande sogno che non tutti ancora hanno riconosciuto essere quello che è: un incubo.
“Cuba me ha defraudado”, ha scritto un paio d’anni fa il grande ex amico della Revolución castrista José Saramago. “D’ora in avanti Cuba andrà per la sua strada. Io mi fermo qui”. Il Nobel non aveva mandato giù l’arresto di settanta persone per reato d’opinione e soprattutto l’esecuzione di tre giovani dissidenti, uccisi sulla pubblica piazza dopo un processo definito, persino dallo stesso regime castrista, “sommario”.
Saramago è stato coraggioso. Non è facile tagliare le proprie radici, e non c’è dubbio che Cuba, la Revolución, Fidel e il Che lo siano (state) per molti. Ad esempio per Gianni Minà che, insieme a Maradona, è rimasto uno dei pochi amici di Fidel a fare notizia. Minà ha sempre negato che a Cuba qualcosa andasse storto, e anzi ha più volte accusato gli Stati Uniti di ogni nefandezza. Minà vede la CIA ovunque, e se accade qualcosa di oscuro a Cuba, spiega che dietro ci sono i servizi segreti americani. Addirittura, secondo una recente “sparata” di Minà, persino Reporters sans frontières denuncerebbe la situazione cubana perché al soldo degli americani. Il fondatore Robert Ménard ha liquidato il “caso Minà” con una lapidaria analisi: “Il problema di Cuba è che è l’unica dittatura al mondo che trova sostenitori nei Paesi democratici, anche tra autorevoli esponenti dei media”. In Italia, Cuba ha sostenitori anche in Parlamento, come Cossutta, Diliberto e Rizzo.
La sinistra che non ha fatto i conti con se stessa, e quindi con Cuba (e la Cina, e la Russia…), ha divulgato il mito di Ernesto “Che” Guevara, ultimo eroe romantico che è morto in nome dei diritti degli oppressi e contro il capitalismo occidentale. Ammesso che abbia davvero fatto questo, e ovviamente non è così, il Che lo ha fatto con le armi, con le condanne a morte, con le prigioni. Non era uno scanzonato pacifista. I diari della motocicletta raccontano il Che eroico, romantico, avventuriero, quello che ha girato l’America Latina con l’amico Alberto Granado in sella a una Norton 500. Ma il Che incantato sul Machu Picchu o pensieroso nei lebbrosari del Rio delle Amazzoni non è che un frammento della vita rivoluzionaria di Ernesto Guevara. Il resto è quello che racconta Alvaro Vargas Llosa. E che qualcuno porta sulla maglietta.
1 commento su “Che Guevara: da assassino a icona pacifista”
https://www.macchianera.net/2006/03/06/su-ernesto-che-guevara