Direttore delle edizioni Ares e della rivista “Studi cattolici”, Cesare Cavalleri è uno dei pochi, pochissimi, intellettuali di razza che il cattolicesimo italiano abbia conosciuto nel dopoguerra. Il fatto che sia morto nei giorni scorsi, nella sua Milano adottiva, non riesce a inibirmi nel preferire il presente “è” invece che il passato “è stato”: perché, se non bastasse la sua adamantina levatura, ma da sola comunque basta, il confronto con il panorama attuale ci fa comprendere il valore della sua intelligenza, che lui ha sempre preferito esercitare un’ottava sotto il clamore generale. Dopo il ricordo di Paolo Gulisano, desidero rendergli omaggio anch’io. (a.g.)

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Non vedevo Cesare Cavalleri da molto tempo, l’ho solo sentito qualche volta al telefono, eppure, o forse anche per questo, è una tra le persone a cui ultimamente pensavo di più. Non solo perché sapevo della sua malattia, dato che il pensiero in questi frangenti cede il passo alla preghiera. Ho pensato sempre più spesso a Cesare perché a lungo andare manca la frequentazione, anche solo un saluto, di persone come lui.

Non l’abbiamo mai pensata allo stesso modo su varie questioni, anche cruciali, tanto in ambito culturale quanto in quello ecclesiale, eppure ho sempre avuto per lui ammirazione, rispetto e amicizia: moti dello spirito che vanno tributati all’oggettivo valore dell’intelligenza e del cuore, più che alla comunanza di idee e di visioni. Posto, comunque, il comune sostrato cristiano, così bello quando è bello, come il cielo della nostra Lombardia: lo dico, naturalmente, soprattutto per Cesare, così elegante persino nel congedarsi da questa parentesi terrena.

Carissimo direttore, aveva scritto in una lettera per “Avvenire”, i medici mi hanno graziosamente comunicato che mi restano 9 settimane di vita. Non immaginavo simile conclusione, ma prendo volentieri atto e mi tuffo nella preparazione immediata al grande salto (quella remota è iniziata, con alti e bassi, nell’adolescenza). Anche se le mie principali risorse sono state applicate alle Edizioni Ares e a “Studi cattolici” (ne sono direttore da 57 anni), la collaborazione ad “Avvenire” è stata per me importante professionalmente e umanamente. È cominciata col primo numero del giornale e per 15 anni ne sono stato il critico televisivo; poi vennero le rubriche “Persone & Parole”, e poi ancora “Leggere, rileggere” fino a mercoledì l’altro. Ringrazio te e i tuoi predecessori per la libertà che mi avete concesso di esprimermi a mio gusto e i redattori che “passavano” i miei pezzi, per anni Roberto Righetto, ultimamente Edoardo Castagna, che hanno sopportato qualche mio ghiribizzo. Dal Cielo (se, come spero, Cielo sarà) la grande famiglia di “Avvenire” non sarà da me dimenticata. Cesare Cavalleri.

Prima di dire di questa sua eleganza, cifra di una intera vita, voglio però raccontare un paio di cose che mostrano come il suo essere elegante fosse così naturale da trasmigrare in sprezzatura. Metamorfosi che mi consente di dire poi anche di una questione su cui siamo stati amabilmente e privatamente guerreggianti.

La prima è presto enunciata e si tratta di uno dei suoi giudizi che mai indulgevano al 6 politico, soprattutto quando si trattava di poesia. “A padre Turoldo”, mi aveva detto una sera di molti anni anni fa mentre lo accompagnavo a una conferenza nella bergamasca “potrei persino perdonare di essere stato un cattivo sacerdote, ma non di essere un pessimo poeta”. Sentenza che emise nuovamente durante la serata, dato che, trovandoci a due passi dal piccolo reame turoldiano, una domanda del pubblico sulla materia non poteva mancare.

La seconda riguarda il matrimonio di Mario Palmaro, al quale ero testimone dello sposo. Cerimonia a Monza nel pomeriggio di un giorno feriale. Partendo dal giornale in centro a Milano, passai in via Stradivari a prendere Cavalleri e, subito dopo, ci infilammo nel traffico milanese, così roccioso quando è roccioso, tanto da arrivare a matrimonio iniziato. Al mio crescente imbarazzo, Cesare pose rimedio invertendo l’ordine dei fattori di un ordinario matrimonio: “La sposa aspetterà”. E riprendemmo a parlare di Eugenio Corti, l’altro testimone dello sposo.

Siccome sono i dettagli a rivelare la vera indole di un uomo, non mi ha mai stupito che fosse stato proprio Cavalleri a pubblicare per primo su “Studi cattolici” un mio saggio sul denso contenuto cristiano dell’opera di Guareschi. Non conosceva la materia, ma si convinse subito che c’era fondamento e volle capire se, intellettualmente, si sarebbe arrivati là dove spiritualmente già ci si trovava. Sintomo di un’intelligenza che non ha paura di guardare dove altri non osano neppure puntare gli occhi.

Da questo punto di vista, penso che uno dei suoi capolavori editoriali sia stato Gli Adelphi della dissoluzione di Maurizio Blondet. Un libro che più passa il tempo e meno mi convince nella sua tesi e in molti dettagli, eppure continua a esercitare nei miei pensieri un’attrazione crescente. Perché si tratta di un vero diamante in cui, oltre all’intelligenza dell’autore, brilla quella dell’editore, congiunzione intellettuale che raramente si produce nel panorama editoriale. E anche perché è frutto del lavoro di coraggiosi intellettuali di razza a cui va sempre tributata ammirazione, soprattutto quando non vi si vedono espressi il proprio pensiero o i propri giudizi.

Ritengo che Cavalleri mirasse proprio a questo difficile esercizio dell’intelletto in tanti suoi interessi così eccentrici secondo il bigottismo di troppi cattolici convinti di fare salotto quando invece fanno solo sacrestia. Un aspetto del suo essere intellettuale a cui non è estraneo l’insegnamento di monsignor Escrivà, che lo invitò a tenere viva una casa editrice confessionale che facesse un lavoro non confessionale. Non è un progetto che potrei fare mio, ma è quanto, in ambito cattolico romano, sollecita di più la mia idea di intelligenza cristiana.

Il tema di fondo degli Adelphi della dissoluzione porta direttamente alla questione sui cui Cesare e io abbiamo amabilmente guerreggiato. Mi riferisco alla mia amatissima Cristina Campo, che lui espungeva dall’orizzonte degli autori da far conoscere. L’ultima volta che ci siamo visti nel suo studio in via Stradivari, saltò letteralmente sulla sedia quando gliela nominai. Secondo me, gli dissi per l’ennesima volta, perché, pur conoscendola benissimo, non l’aveva capita. Secondo lui, mi disse per l’ennesima volta, perché, pur conoscendola benissimo, ero io a non averla capita. Rimanemmo ciascuno del proprio parere. E, come fece anche in seguito quando ci sentimmo per telefono, non mancò di rammentarmi un mio piccolo furto dal forziere del suo stile: il vezzo di mettere la “&” nei titoli di articoli e libri.

Touché, caro Cesare. Ma se vogliamo tornare a Cristina Campo, ora che, forse, non mi puoi contraddire, posso dire che non c’è pagina dove ti si descriva con più adamantina precisione di quelle in cui lei parla della sprezzatura.

“Sprezzatura è un ritmo morale, è la musica di una grazia interiore; è il tempo, vorrei dire, nel quale si manifesta la compiuta libertà di un destino, inflessibilmente misurata, tuttavia, su un’ascesi coperta. (…) Prima d’ogni altra cosa sprezzatura è infatti una briosa, gentile impenetrabilità all’altrui violenza e bassezza, un’accettazione impassibile – che a occhi non avvertiti può apparire callosità – di situazioni immodificabili che essa tranquillamente statuisce come non esistenti (e in tal modo ineffabilmente modifica), ma attenzione. Non la si conserva né trasmette a lungo se non sia fondata, come un’entrata in religione, su un distacco quasi totale dai beni di questa terra, una costante disposizione a rinunciarvi se si posseggono, un’ovvia indifferenza alla morte, profonda riverenza per più altro che sé e per le forme impalpabili, ardimentose, ì indicibilmente preziose che quaggiù ne siano figura. La bellezza, innanzi tutto, interiore prima che visibile, l’animo grande che ne è radice e l’umor lieto. Ciò significa, tra l’altro, capacità di volare incontro alla critica con impeto sorridente, con la graziosa enfasi dell’incuranza di sé: un tratto che troviamo tanto nei precetti dell’educazione mistica quanto in quelli della scienza mondana”.

Ciao Cesare, la terra ti sarà senza dubbio lieve, come tu sei stato lieve per la terra. E che il Cielo abbia per te eterna memoria.

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