Tempo di saldi, di vendite a buon mercato. Anche sul fronte delle rievocazioni storiche, ad uso e consumo dell’attualità e di chi più che comprendere certe vicende ha l’interesse, tutto personale, di travisarle, nasconderle, mimetizzarle. Ad un secolo dalla nascita, il 21 gennaio 1921, del Partito Comunista d’Italia (poi Pci) ricordare le vicende di quello che fu il più grande partito comunista occidentale (cioè al di qua della Cortina di ferro e del sistema concentrazionario sovietico e parasovietico) per molti si è trasformato in una sorta di fiction, melensa e dai tratti nostalgici.
C’è il vecchio dirigente di partito impegnato a dare un’immagine edulcorata di Palmiro Togliatti (“non è vero che era gelido”). C’è il comico che scrive la Storia sentimentale del P.C.I., con l’intento di dimostrare che anche i comunisti avevano un cuore. C’è l’amarezza del militante di una volta, intento a sfogliare l’album di famiglia, tra vecchie tessere e foto in bianco e nero. C’è l’intellettuale, impegnato a dimostrare la metamorfosi progressiva del partito. C’è a chi “manca l’esempio e la certezza di essere dalla parte giusta”. C’è la testimonianza del giornalista “indipendente” che dichiara, sull’onda della narrazione a cent’anni da Livorno 1921, di avere sempre votato a sinistra, per mettersi “dalla parte di chi ne ha bisogno”.
Ognuno – sia chiaro – è libero di “rievocare” come gli pare, ma la Storia è ben altro, particolarmente quando ci sono di mezzo le vicende di un partito dai tratti “epocali”, che nasce con forti caratterizzazioni ideologiche, sull’onda della Rivoluzione bolscevica, e sceglie il massimalismo, si sente coerentemente internazionalista ed organico – come pochi – ai richiami della casa madre moscovita, che dello strappo di Livorno, con la conseguente fuoriuscita dal Partito Socialista, fu la regista.
Le ragioni della nascita stanno tutte nel richiamo mitico alla Rivoluzione d’Ottobre, all’ideologia marxista-leninista che si fa Stato e al suo richiamo “espansivo”. Per capire l’atto fondativo del gennaio 1921 da lì bisogna passare. Cogliendo i legami strettissimi tra il Pci ed il Partito-Stato incarnato dall’Unione Sovietica, che da allora e fino agli Anni Ottanta del ‘900 condizionarono, senza soluzione di continuità, le vicende del Partito “Italiano”. Basti pensare ai rapporti tra Palmiro Togliatti e Stalin, rapporti che videro il primo (in esilio a Mosca tra il 1926 ed il 1944, dove peraltro prese la cittadinanza sovietica) saldamente legato alle scelte del secondo, anche nel periodo delle grandi purghe interne al PCUS, che fecero vittime, tra gli altri, in decine di militanti comunisti italiani, fuggiti, durante il fascismo, in Unione Sovietica. Togliatti assecondò la politica del terrore, uscendone, proprio per questo, indenne.
É – del resto – nota l’assoluta condivisione delle scelte sovietiche da parte dei vertici del Pci: dallo sterminio degli anarchici durante la guerra di Spagna all’alleanza (anti polacca) con Hitler, dalla politica d’ingerenza sovietica nell’Est europeo all’invasione dell’Ungheria, dai Gulag alla repressione del dissenso. E tutto questo sostenuto, con buona pace per chi lottava per “il cambiamento”, dalle somme di denaro fatte affluire, attraverso vari canali, da Mosca al partito fratello (come rivelato dal famoso dossier Mitrokhin, dal nome dell’ufficiale sovietico Vasilij Mitrokhin, un ex archivista del Kgb, passato all’Occidente).
Di queste vicende qualcuno vuole rispondere? Soprattutto in sede di ricostruzione storica, a cent’anni dalla fondazione di Livorno, magari per elaborare non un generico lutto quanto piuttosto una critica sostanziale che chiami in causa coloro che nel Pci ricoprirono incarichi di vertice (da Togliatti a Longo, da Berlinguer a Natta, a tutte le rispettive classi dirigenti) oggi ricordati per il loro perbenismo borghese e per la formale signorilità. Sarebbe anche un atto di rispetto verso la memoria, popolare e vera, di quanti a quelle illusioni credettero, magari ingannati dai tour fasulli verso il Paradiso Sovietico, una sorta di Truman Show falce e martello, in cui la monumentalità dei palazzi moscoviti, le strade linde, la metropolitana marmorea, gli impeccabili soldati a fare la guardia al Mausoleo di Lenin, i supermercati ben forniti, il sorriso dei giovani pionieri, nascondevano i fallimenti sociali, economici e culturali del comunismo.
Tramontati i miti ed i riti del Partito per antonomasia, sgomberate le sedi, templi della laica autocelebrazione in rosso, scomparsa la vecchia classe dirigente (ma con gli storici dirigenti della Federazione Giovanile Comunista degli Anni Settanta ancora impegnati a moraleggiare sulla politica italiana) del Pci non rimangono che le ombre di una Storia, sulla quale, per molti, dopo tanto tempo, è ancora necessario accendere i riflettori della verità.
1 commento su “Cento anni di Pci: “Truman Show” con Falce&Martello”
“Anche i comunisti ce l’avevano un cuore” si, ce l’avevano in Unione Sovietica. Ma come si fa a festeggiare il centenario di un partito che fino alla caduta del muro di Berlino era strutturato in maniera tale e orientato a favorire l’invasione delle truppe di Mosca con tanto di “protocollo” operativo, soldi del KGB, radio e documenti falsi per i capi e non saprei dire se avessero anche delle armi. Un partito i cui responsabili, almeno fino al 1989 andrebbero processati per alto tradimento.