di Carla D’Agostino Ungaretti
Qualche tempo fa la vostra amica Carla, cattolica “bambina” ma anche appassionata di cinema, ebbe occasione di “incrociare le lame” in una garbata discussione con un autorevole giornalista in merito a un film appena uscito nelle sale con grande successo di pubblico, intitolato “A Christmas Carol“(1) e tratto dall’omonimo famoso racconto di Charles Dickens, uno dei capisaldi della letteratura inglese del XIX secolo. L’approssimarsi del Natale e l’aver rivisto il film in DVD le offrono ora lo spunto per ritornare su quella riflessione nella quale le opinioni dei due interlocutori divergevanonettamente.
Orbene – come sanno quelli di voi che conoscono quest’opera di Dickens, che ha la forma sia di racconto gotico che di critica sociale, o hanno visto il film, che gli è sostanzialmente fedele – il vecchio Ebenezer Scrooge, “un arido, penoso, tenace, economo, caparbio, avido, vecchio peccatore, duro e tagliente come la selce dalla quale nessun acciaio aveva mai fatto sprizzare generose scintille, discreto, riservato e solitario come un‘ostrica” (così lo descrive Dickens)(2), maltratta il suo dipendente Bob anche la vigilia di Natale, festa di cui egli si fa beffe, e rifiuta sprezzantemente perfino l’invito a cena di suo nipote che gli rammenta inutilmente come il Natale sia la festa della famiglia. Nella stessa notte però lo scorbutico vecchio, che fa di tutto per rendersi antipatico ai suoi simili, riceve la visita inaspettata di tre “fantasmi“ o “spiriti del Natale” che lo fanno riflettere sulla sua vita, sia passata che presente. In una interminabile notte da incubo, il vecchio Uncle Scrooge viaggia nel tempo con le sue misteriose “guide” che gli mostrano quanto sia stata egoista la sua vita, mettendolo di fronte al cupo e misero futuro di solitudine che lo aspetta e facendogli riacquistare in extremis la consapevolezza che, almeno la notte di Natale, bisogna “essere più buoni“, tanto che alla fine egli si ravvede e accetta l’invito a cena del nipote.
Intendiamoci: la vostra amica ha apprezzato il film, un cartoon digitale in 3D, sicuramente piacevole e divertente – da ammirare anche
per la straordinaria tecnica con cui è stato realizzato, la performance capture, che trasforma in animazione computerizzata la recitazione degli attori in carne e ossa e, stando a quanto dicono gli esperti, rappresenta il cinema del futuro – ma (e qui sta il punctum dolens di tutto il discorso)
a lei è sembrato un film completamente pagano, come pagano, del resto, a lei è sempre sembrato il racconto. Infatti, che significa “essere più buoni” nel contesto narrativo di un Natale di questo tipo in epoca vittoriana? Di Gesù Bambino non c’è nemmeno l’ombra, in compenso abbondano gli “spiriti del Natale“, i quali di natalizio non hanno davvero nulla, perché l’ultimo di essi, nella trasposizione cinematografica, sembra addirittura una via di mezzo tra un Bacco più o meno ubriaco e un Giove seduto in trono. Che senso ha, allora, “essere più buoni” in questo tipo di Natale? Nessuno, nel contesto generale del film e (secondo la vostra amica) neppure del racconto, perché entrambi sembrano festeggiare più la festa pagana del “Dies natalis Solis invicti” che la nascita del Redentore. Lo stesso Dickens, nella sua prefazione, dichiara che – parlando di “fantasmi” – egli vuole evocare lo Spettro di un’idea che non metta i suoi lettori “di cattivo umore verso sé stessi, gli altri, il periodo natalizio o verso di me“. Cosa c’ è di natalizio in questa dichiarazione programmatica? Secondo la vostra amica, assolutamente nulla.
Allora, data l’ambientazione britannica e vittoriana della vicenda, non sarebbe stato più sensato e coerente proporre una maggiore generosità e solidarietà per il prossimo in occasione di altre feste più significative per la civiltà anglosassone, come la data della promulgazione della “Magna Charta”, evento fondamentale nella storia d’Inghilterra, o il compleanno della Regina Vittoria, che rappresentava (allora, come adesso la rappresenta Elisabetta II) l’unità nazionale inglese? In altri termini, alla vostra amica Carla sembra di capire che la Confessione Anglicana, professata da Dickens e recepita nel film, abbia collegato il Natale più con le feste celtiche pre-cristiane che con la nascita di Gesù Cristo; un po’ come la festa di Hallowe’en, nata come vigilia di Ognissanti che però ora di cristiano non ha più nulla. Infatti Uncle Scrooge sembra più simpatico all’inizio del film (quando è cattivo) che alla fine (quando diventa buono) perché almeno allora è più coerente con se stesso.
Perciò la vostra amica ha tratto l’impressione che “A Christmas Carol“, ancorché pregevole, sia un film altamente diseducativo per i bambini (che pure hanno affollato le sale) ma non perché insinua momenti “horror” – come hanno scritto i giornali a proposito del picchiotto del portone che si trasforma in una faccia terrificante – ma perché non fa capire loro che se dobbiamo essere “più buoni” almeno una volta l’anno è perché in quel giorno è venuto il Salvatore del mondo a riscattarci dal peccato, e non gli “spiriti del Natale“.
Il racconto, scritto nel 1843, sembra anticipare (e il film è in perfetta sintonia) quelle correnti di opinione relativiste che, 150 anni dopo, vorrebbero spodestare la festa della nascita di Cristo ed abolire il Presepe nelle scuole, sostituendo la prima con la “festa della neve”, per non “offendere” gli scolari non cristiani, e il secondo con il solo abete addobbato, che – insieme al personaggio di Babbo Natale – di cristiano ha ancora meno perché sembra dimostrato che entrambi risalgano ai riti sciamanici delle antiche popolazioni siberiane(3). Evidentemente di questi tempi spiritualmente travagliati, tutto è funzionale allo tzunami anticristiano che vuole travolgerci.
L’autorevole giornalista ha dissentito dalla vostra amica Carla sostenendo che, se nel film mancano la culla e la capanna (o la grotta) è tuttavia presente e travolgente lo spirito del Natale inteso come rinascita, riscoperta, amore, gioia (ma questi valori non erano apprezzati anche dai pagani?); se non c’è il Bambino Gesù, c’è però l’Uomo che, grazie al miracolo (degli spiriti?) rinasce nell’amore. Ma che significato ha lo “spirito del Natale” se non facciamo riferimento a quel Dio che per amore si è incarnato in un Bambino povero, debole e ignoto al mondo dei potenti, riconosciuto e adorato per primo da uomini altrettanto poveri, deboli e sconosciuti come Lui, ma ai quali Dio ha preferito “rivelare quelle cose“ piuttosto che ai sapienti e alle persone importanti? (Mt 13, 28)
Dopo l’amichevole “incrocio di lame” la vostra amica cattolica “bambina” è rimasta della sua idea. La speranza di una palingenesi dell’umanità è presente anche nella cultura pagana o, comunque, non cristiana: che bisogno c’è di scomodare il Natale per sostenere che l’umanità deve diventare “più buona“, se vuole salvarsi? Ci vuole poco a capirlo! Lasciamo allora il S. Natale ai cristiani che si sentono “bambini” e ancora adorano e pregano quel Bambinello nell’ umile mangiatoia riscaldata, non da ricche e morbide coperte, ma dal respiro di un bue e di un asinello.
NOTE
1) Cfr. AVVENIRE, 2.2.2010
2) Cfr. C, Dickens, Canto di Natale, trad. di Angelita La Spada, con testo originale a fronte, ALIA Editrice, 2009.
3) Cfr. JESUS, Dicembre 2011, pag. 27