Gilbert Chesterton fu un profeta quando affermò che presto si sarebbe dovuta sguainare la spada per dire che l’erba è verde in primavera. Mille nuove verità avanzano e non osiamo accoglierle con una risata e giudicarle per ciò che sono, lucide follie di un potere distopico. Pare che essere onnivori, in quanto appartenenti alla specie umana, non sia più cosa buona e normale, poiché cagionerebbe danno al pianeta. Dicono gli “esperti” (di che? Nuova vil razza dannata come i cortigiani, che è poi il loro vero mestiere) che la dieta carnivora contribuisce al riscaldamento globale. Non c’è quindi da stupirsi se nel prossimo futuro la carne sarà gravata da elevate imposte e si promuoverà la salutare abitudine di cibarsi di grilli, che già si vendono in alcuni supermercati occidentali, e per di più si possono trovare gratuitamente nei giardini delle città e in ogni boschetto.
Può darsi che, oggi come oggi, faccia un po’ schifo ingoiare quest’insetto pieno di zampette, ma ci abitueremo. Lo ha detto l’Onu, l’allevamento intensivo contribuisce al cambiamento climatico, occorre cambiare le abitudini alimentari affinché non aumenti la temperatura della madre terra. Sotto con le blatte e col prelibato scarafone, con buona pace di mamma sua. Il lettore abbonato a Netflix, la rete televisiva più globale che c’è, conoscerà già tali argomenti, se è appassionato degli imprescindibili documentari di Kip Anderson, un fondamentalista vegano che, per il bene del globo terracqueo, manipola il pubblico a tal punto da indicare senza dubbi la produzione e il consumo di carni come la causa di siccità e malattie.
Che sarebbe di noi senza il conforto morale di imprese ipercapitaliste come le reti di intrattenimento, sovversive o indifferenti dinanzi ai veri problemi, ma con una speciale sensibilità per le corbellerie, in particolare quelle care a chi si ritiene offeso da qualsiasi cosa turbi il suo universo di petali di rosa e fiocchi di neve. Anni fa, furono ridicolizzati da uno scrittore umoristico inglese, Tom Sharpe, creatore del personaggio di Wilt, la cui moglie, strano tipo assai politicamente corretto e riflessivo, si impegnava indifferentemente nella meditazione trascendentale e nell’organizzazione nel giardino di casa di gruppi come Bimbi contro lo Stupro.
Le cose non sono migliorate, oggigiorno, nel Regno Unito. L’agenzia incaricata di stabilire gli standard da osservare nella pubblicità tra i sudditi di Sua Maestà ha deciso di proibire tre campagne pubblicitarie, due di una marca di formaggi e l’altro di una casa automobilistica. Il motivo? Diffondevano, secondo i neocensori (riprendiamo a chiamare le cose con il loro nome) “stereotipi di genere”. In uno, appariva una donna che si prendeva cura del figlio, gesto davvero terribile e inaudito (una madre, presumibilmente, pessimo esempio sociale, altro che il nobile genitore 1!); nell’altro, si rappresentava un padre arrabbiato con il figlio, il che configura il crimine di lesa umanità.
La venerabile, reale istituzione si è appoggiata su una nuova normativa delle isole britanniche, antica culla della democrazia dalla Magna Charta del 1215, tesa a impedire che i messaggi commerciali trasmettano alla popolazione un’idea “eteropatriracale” della società. Se siete pubblicitari, evitate di mostrare donne nell’atto di parcheggiare (chissà perché), di mettere il rossetto o che indossano la minigonna e, orrore, non pensate neppure per un attimo all’immagine di un padre che porta il bambino alla partita. Questo potrebbe far pensare ai telespettatori, il gregge stupido da ricondizionare, che uomini e donne si comportino come fanno abitualmente da mille generazioni nonostante gli sforzi degli studiosi (altri esperti!) del “genere“ per modellare una società migliore. Forse qualcuno può temere che tutto è parte di un racconto distopico in cui si impazzisce all’improvviso, ma non è così: è per il nostro bene.
Netflix include nella programmazione una robusta razione di produzioni destinate a deliziare il buonismo credulone di chi vive attento a che nessuno offenda alcun oppresso, vero o presunto. Ha diffuso uno sceneggiato sulla guerra di Troia, evento fondante della civiltà occidentale, che è una pietra miliare nella religione del politicamente corretto. Chiunque si aspetta di vedere il prode Achille, figlio della ninfa Teti e del mortale Peleo, re dei Mirmidoni, rappresentato come era, un giovane di fattezze europee mediterranee dai lunghi capelli ricci. No, l’attore prescelto è nero, anzi, afroamericano, come è più à la page dire. I criteri di proporzionalità e uguaglianza, la cosiddetta “azione affermativa” per far avanzare le minoranze non potevano venir meno in ossequio alla verità storica. Cantami, o diva, del nero Achille l’ora funesta, scriverebbe oggi Vincenzo Monti nel primo verso della celeberrima traduzione dell’Iliade. Non resta che ironizzare, nella speranza che qualcuno apra gli occhi.
Del pari, non bisogna lasciarsi fuorviare da errate convinzioni del passato oscuro che potrebbero trascinarci verso il suprematismo, l’etnocentrismo o l’umanesimo. Anche gli animali possiedono elevate capacità cognitive oltre a uno spiccato senso di giustizia. In un’altra produzione dello stesso network si narra di un’elefantessa (femmina, è meglio!) che lavorava in un circo ma un giorno impazzì e ammazzò i suoi custodi umani (uomini è un termine da usare con cautela, meglio lo zoofilo “umani”).
La vicenda capitò perché il pachiderma (parola indeclinabile al maschile o femminile) si sentiva molestato, oppresso e voleva liberarsi del giogo. Conclusione animalista: la domesticazione all’uomo, segno della superiorità intellettuale ed ontologica della nostra specie, è una pessima cosa. Non difendiamo affatto il maltrattamento inflitto agli animali, anzi, ma la drammatizzazione di cui è impregnata la storia propinata come un pastone alla mensa televisiva è tanto patetico da sembrare una parodia. Ma fa lo stesso, il pubblico con paraocchi e privo di pensiero autonomo applaude anche davanti a denunce sensazionaliste e vuote. Siamo diventati animali d’allevamento: ci viene imposto un foraggio artificiale, ma non lo rifiutiamo. Ruminiamo un po’ di più, come il bolo dei bovini, poi digeriamo tutto e crediamo qualsiasi stupidaggine.
Altre case di produzione puntano sulla violenza e sul truculento criminale, un rinnovato “pulp” che crea, incredibilmente, nuovi eroi di personalità ripugnanti. È il caso del successo di serie sui più violenti criminali o su assassinii particolarmente efferati. Tutto per il bene dello spettatore con soddisfazione del critico televisivo, che sembra temere la reazione della muta conformista dei colleghi e non si azzarda a mettere in questione le scelte delle grandi piattaforme, dalle quali, per inciso, dipende la sua carriera e connessi privilegi. Perciò, si mostra compiacente con documentari come Grass is greener (L’erba è più verde) che è pura apologia della marijuana, o con le imprese e le presunte opere di carità di criminali narcotrafficanti come Pablo Escobar o El Chapo Guzmàn, elevati a eroi pop. Contemporaneamente ci parlano compunti di popoli oppressi, occultando la parte di verità che non interessa portare a conoscenza del pubblico.
Il gregge giornalistico applaude, perché sarebbe davvero da intolleranti, poco open mind (menti aperte) chiedere che i documentari storici rispondano a un certo rigore, persino se ciò implicasse derogare le quote di genere o quelle etno razziali (ma non avevano assicurato che le razze non esistono?).
È un segno dei tempi, uno dei tanti, che si applauda il palinsesto dei padroni dell’intrattenimento e dell’informazione, tollerando manipolazioni e menzogne che, in altri contesti, sarebbero bollati come spazzatura. Il livello non fu mai alto, ma mai era precipitato tanto in basso, né tanto sfacciata era la mistificazione ideologica. In ogni caso, non dimentichiamo, lo fanno per il bene del cittadino libero, emancipato, consumatore, fan del progresso, la cui zucca è ogni giorno più colma di propaganda, confusione, bugie.
Invitiamo il telespettatore a guardare la televisione con attenzione critica giusto per qualche ora, poi spenga disgustato. Scoprirà un bel po’ di cose. La pubblicità onnipervasiva e sempre più sovrapposta alla normale programmazione, ha un audio più alto per compensare il calo di attenzione, ma soprattutto è difficile che non contenga un’altra propaganda: quella della società multietnica e multiculturale. Raro che tra i figuranti non ci sia almeno un mulatto/a, sempre con funzione positiva. Le famiglie non vengono quasi più rappresentate, se non nella forma “arcobaleno” e allargata. L’aborrito modello Mulino Bianco è battuto, i comportamenti più trasgressivi (se il termine ha ancora un senso) sono presentati come normali. Chi segue tormentoni come Un posto al sole, ambientato a Napoli, e persino i gialli del borghesissimo ispettore Barnaby osserverà la normalizzazione di tutto, adulterio, droga, omosessualità, e l’aperta ridicolizzazione di condotte o sentimenti “tradizionali”. Il gioco è fatto, come ben sapeva il nipote di Freud Edward Bernays, padre della propaganda, che considerava una dittatura soffice dalle forme accattivanti.
Achille è nero o mulatto perché deve passare l’immagine del “mischione”, dell’identico come obiettivo finale e l’operazione riesce se il personaggio è o viene rappresentato come eroe positivo. Per la mentalità dominante, Achille è un eroe perché vincente, a nulla contando la sua invulnerabilità e il favore degli dei. Si impone una breve riflessione.
Il tratto più evidente della modernità ha un nome complicato, gnosi. Si tratta dell’attitudine delle sedicenti élite intellettuali ad essere gli unici depositari della verità, che solo attraverso il loro filtro diventa idea e volontà generale, fondata su un’idea negativa dell’essere umano e della creazione. Si deve combattere contro la natura e Dio con tutti i mezzi, come capì Eric Voegelin, che al disvelamento del carattere gnostico dell’intero percorso della modernità, dal razionalismo illuminista al progressismo e al freudismo, dedicò un’intera vita.
C’è di più, ed è l’equivoco più grande del nostro tempo tra gli oppositori, ossia che la colpa sia “dei comunisti”. Il marxismo è certo assai vivo nelle sue componenti metastoriche e metaculturali, ma il male dell’ultimo mezzo secolo nasce nei laboratori ideologici delle università americane. È egemone una strana sinistra, freudiana e francofortese, annunciata in America dalla New Left del sociologo Charles Wright Mills, che abbozzò i lineamenti di un radicalismo focalizzato non sui diritti dei lavoratori, ma su mali della società moderna come disagio, alienazione e autorità, benzina nel motore del Sessantotto abilmente sfruttata dal nuovo capitalismo anti tradizionale e iper individualista.
L’alleanza tra quegli interessi e le idee della dissoluzione ha prodotto frutti avvelenati, visibili a chi ha ancora occhi per vedere e cervello per capire. L’oligarchia neocapitalista ha volto a proprio favore il 68 attraverso la società dello spettacolo. Né intuì gli esiti già Karl Marx, “tutta la vita delle società in cui predominano le condizioni moderne di produzione (oggi ancor di più, tra tecnologia e primato dei beni immateriali N.d.R.) si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli”, di cui siamo spettatori paganti e obbligatori. Per Guy Debord lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini, mezzo e fine del dominio vigente.
Per tornaconto, il totalitarismo neocapitalista privato ha assunto la forma iper libertaria e finto democratica, un imperialismo teso a ricondurre la diversità delle società a una foggia uniforme e, in superficie, egualitaria. Il dispotismo che ci avvolge ci fa credere che Achille era nero, la maternità una costruzione sociale, la famiglia un luogo di oppressione e, al contrario, convince che il consumo e la scambio di merci sia il fine dell’esistenza, dimostra quanto fosse azzeccata la previsione di Tocqueville: “Immaginiamo sotto quale nuovo aspetto il dispotismo potrebbe prodursi nel mondo: vedo una folla innumerevole di uomini simile e uguali che non fanno che ruotare su stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo. Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare; è assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite e riduce infine ogni nazione a non essere più che un gregge timido e industrioso, di cui il governo è pastore”.
Sbagliò su un unico punto, il conte normanno. Il governo, ovvero lo Stato, la dimensione pubblica, è stata sostituita da un possente apparato tecnoindustriale, culturale e di intrattenimento in mani private, oligarchiche. Achille è nero, Ettore non conta in quanto perdente. Lo hanno deciso loro.
4 commenti su “Cantami, o diva, del nero Achille l’ira funesta…”
Il caso di Achille è emblematico. Che l’ideale greco di bellezza prevedesse la chioma bionda e gli occhi cerulei è noto a chiunque. La maggioranza degli eroi, dei personaggi storici e letterari, delle divinità greche sono descritte come “biondi”, come d’altronde doveva essere, considerata la provenienza indoeuropea delle varie ondate migratorie in Grecia. Ma la provocatoria mistificazione antirazzista, “multiculti” e meticciante non è solo quella di Achille: in un film della Marvel il “dio bianco” Heimdall delle saghe norrene viene interpretato da un attore della Sierra Leone, un improbabile Lancillotto della serie “C’era una volta” ha la pelle scura e la Ginevra della serie “Merlin” viene dalla Guyana. D’altronde il fenomeno non è nuovo: molti ricorderanno un film del 1991, Robin Hood – Principe dei ladri, dove Robin (Kevin Kostner) era affiancato da un incongruo e anacronistico Azeem, saggio, colto e civilizzatissimo africano interpretato da Morgan Freeman. E come non ricordare la falsificazione storica di uno “studioso”, Martin Bernal, che in un suo testo Atena Nera del 1987, inizialmente seriamente discusso dagli accademici e osannato dai militanti afro-americani, sostenne l’origine africana della civiltà greca, cadendo in una seria di contraddizioni e di falsità che lo costrinsero a una successiva, prudente retromarcia?
L’arroganza “liberal” e antirazzista è ormai tale che non hanno paura (o vergogna) a mistificare e falsificare in modo così palese e miserabile: lo fanno per “educarci” alla società multirazziale. E noi zitti, andiamo al macello culturale (per ora culturale, domani…) a testa bassa, rassegnati, senza protestare.
Silente
Sta avanzando il regno delle tenebre e milioni di boccaloni sono lì pronti a ritenersi liberi, fratelli e uguali. Tanto può il potere del maligno.
Ritorno da voi con la speranza di essere bene accolta….
Commento al suddetto articolo straordinario: descrive una “realtà” attuale, quindi mi viene in mente una sola parola “TERRIFICANTE”……
Gentile Paola. Quello che lei definisce “terrificante ” (a ragion veduta), è tale perchè è un insulto alla verità ed al buon senso. Chi è Achille? Figlio di Peleo, re dei Mirmidoni di Ftia (in Tessaglia, regione della Grecia centrorientale), e di Teti, ninfa nereide (divinità marina minore), era un Acheo, ossia un principe miceneo. Questo popolo indoeuropeo invase la Grecia nel 1600 a.Ch. circa, affiancandosi e poi sconfiggendo i Minoici. A loro volta, essi Micenei avevano pelle chiara e occhi chiari (azzurri/grigi/verdi), con tratti facciali armoniosi ma taglienti, pomo d’adamo in vista, statura alta, carnagione rosea, scarsa peluria e capelli lisci, sottili ed elastici, biondi o fulvi. Esperto domatore di cavalli, ottimo costruttore di carri da guerra, allevatore seminomade di bestiame, molto perito nella metallurgia del bronzo (il ferro pare gli fosse ignoto: nessuno degli eroi omerici è dotato di armi di ferro), che quando nel XX-XIX sec. a.Ch. si mosse dalle originarie pianure caucasiche non comprese che cosa fosse quella sterminata distesa d’acqua verdeazzurra e salata (non conosceva il mare). Come possa essere rappresentato da un attore nero-camitico un guerriero miceneo, è un mistero (ma forse Soros non ha studiato al liceo classico). Un saluto da Gotham city, il Pinguino.