di Giovanni Lugaresi
Il ricordo è nitido e incancellabile, legato com’è al centro della vita cristiana: la messa, o come si diceva un tempo, la “Santa Messa”.
Chiesa ravennate di Santa Giustina, primi anni Cinquanta del Novecento. Il rettore del tempio don Luigi Quinche sta officiando il rito e dietro l’altare, negli scranni del coro, il dottor Lucio Paolo Massaroli segue la liturgia scorrendo sottovoce le pagine del messalino dalla copertina nera. E’ tutto preso al momento della consacrazione e non può passare inosservato, a chi gli è accanto, il fervore col quale accompagna, per così dire, il sacerdote nel pronunciare la formula della transustanziazione, per il semplice motivo che lui ci crede.
“Accepit panem in sanctas, ac venerabiles manus suas…”. Il pane e il vino che diventano il corpo e il sangue di Nostro Signore. Il senso del mistero, la consapevolezza del fatto straordinario che si realizza – come dirlo? – lì, su quell’altare, come su tutti gli altari di tutte le chiese cattoliche del mondo, dove un sacerdote, in virtù di un potere conferitogli da Gesù Cristo (roba da far tremare i polsi), non rievoca, non ricorda, ma veramente, trasforma: la transustanziazione, appunto!… Quando la messa è veramente “la Messa”, e non una mera esibizione pretesca, non uno spettacolo, non una serie di parole, e/o note musicali che spesso fanno perdere quella realtà incommensurabile, quel senso del sacro, in favore di un effimero che nulla ha a che spartire col sacrificio (incruento) rinnovantesi… La messa, la Santa Messa, che non è più tale per non pochi sacerdoti, e qui sovviene un altro indelebile ricordo: don Luigi Sturzo, il prete e politico, immerso in quella realtà mondana quotidianamente, ma non prima di essere, di pensare, di fare quel che un sacerdote degno del nome deve.
Nel Carteggio intrattenuto con il fratello vescovo Mario (Edizioni di Storia e Letteratura Roma), c’è una lettera scritta dall’esilio londinese il 28 gennaio 1937, giorno nel quale don Luigi era ammalato.
Ebbene, sentite: “… L’unica consolazione è che posso andare a dire la Messa e arrivo a dire il breviario e le preghiere. Tutto il resto mi stanca…”.
Quale valore attribuiva il prete calatino alla liturgia e alla preghiera?! Fatevelo dire da qualche esponente dei “nuovi preti”, che magari la messa la celebra soltanto la domenica e nei giorni festivi e quanto a breviario e a preghiera… Lasciamo perdere.
Non diversamente, don Sturzo (1871-1959) si comportò negli ultimi giorni di vita, quando, pur ridotto allo stremo, volle celebrare e a chi lo esortava a soprassedere per le sue condizioni, più che critiche, gravissime, chiarì: “Lei non sa che cos’è una sola messa!”. Fu colto da malore; riuscì a dire gli Oremus finali e poi riportato nella sua stanza. Sarebbe morto qualche giorno dopo.
Tutto questo: il ricordo del laico ravennate che segue sul messalino e di don Sturzo che scrive e dice le parole citate, ci ha accompagnato nella vita, sorreggendo (insieme ad altre parole, ad altri esempi, s’intende) la nostra piccola fede. Per cui, se amarezza (amaritudo mea amarissima, per dirla col Salmista) e sconcerto ci afferrano nell’assistere a certe messe nelle nostre chiese, a certi show che di sacro hanno ben poco, il pensiero va a quei due personaggi: il laico e il prete, accomunati da una sconfinata fede; quel pensiero ci scalda il cuore e ci dà certezze: in primis, che “portae inferi non praevalebunt”.
Buon Natale, amici lettori, e per una Santa Messa di mezzanotte che sia veramente tale.