di Roberto Dal Bosco
Con la Gazzetta Ufficiale del 17 gennaio 2013 si chiude una storia e se ne apre un’altra.
La Repubblica italiana si accorda con l’Unione Buddista Italiana (UBI) e con l’Unione Induista Italiana (UII): sono riconosciuti i loro luoghi di culto, le loro festività, il loro diritto a reclamare un posto appartato per le sepolture nei cimiteri. Sopra ogni altra cosa, arriva l’odiato 8 per mille, di cui i «laici» italiani hanno spesso invocato l’abolizione, ma che ora, finendo in tasche non-cattoliche, diventa un elemento di stupenda civiltà del nostro paese.
Il Corriere della Sera, ovviamente, fa festa grande, con un articolo celebrativo («Baggio e Guzzanti e gli altri che hanno scelto il buddismo») che sul titolo e in foto mette in bella evidenza nomi di VIP buddisti nostrani, anche se con l’articolo non c’entrano assolutamente niente, anzi proprio il contrario: Baggio e la Guzzanti sono infatti adepti della Soka Gakkai, una setta buddista giapponese che non ha aderito all’UBI, e quindi è totalmente fuori da questo grande festeggiamento.
«Il nostro obbiettivo però, non sarà affatto quello di riempirci le tasche con l’8 per mille – ha dichiarato al Corrierone Maria Angela Falà, vicepresidente dell’UBI – quello che ci interessa realmente è che i nostri monaci, in quanto riconosciuti ministri di culto possano finalmente assistere spiritualmente i fedeli negli ospedali, nelle case di riposo e nelle carceri». Mentre si moltiplicano i casi di sacerdoti e fedeli cattolici buttati fuori dagli ospedali da atei furibondi perché si vuole pregare per i malati o dare l’estrema unzione ai morenti, ecco che si saluta il felice arrivo dei bonzi fra le corsie nosocomiali. Nelle carceri, invece, l’UBI a dire il vero è già entrata con programmi di proselitismo – basta accedere al sito dell’UBI e leggere la notizia «Geshe Tenzin Tempel incontra i detenuti del carcere di Bollate»: «un gruppo di detenuti del settimo reparto del carcere di Bollate, che nello scorso autunno ha iniziato un percorso di meditazione e insegnamento di base del buddhismo, hanno ricevuto la vista del lama tibetano Ghesce Tenzin Tenphel, maestro residente dell’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia [centro toscano che propala il buddismo tibetano del Dalai Lama, ndr], domenica 18 aprile». Poco più sotto, nel sito, non manca una «dichiarazione buddista sui cambiamenti climatici», tanto per capire quanto sia profonda la trincea dalla quale esce fuori l’UBI: il politicamente corretto globale.
In Italia ci sono solo due precedenti: gli accordi statali con le Comunità ebraiche del 1989, e, la scorsa estate con la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni: nella possibilità che venisse eletto il mormone Romney, la tollerante Repubblica italiana si faceva trovare pronta.
Ma in entrambi i casi precedenti, l’Italia prendeva accordi con quella che poteva considerarsi una precisa rappresentanza di una comunità religiosa: i rappresentanti delle Comunità ebraiche possono dire di esprimere davvero l’ebraismo italiano, così come i “vescovi” del mormonismo italiano sono leciti rappresentati della loro chiesa. Non possiamo dire lo stesso per l’UBI, che è un’insieme di gruppi afferenti a tradizioni diversissime (tibetane, cingalesi, giapponesi, cinesi, coreane) provenienti da buddismi molto differenti (theravada, mahayana, zen, etc.), un insieme che esclude parte degli immigrati buddisti nonché la ben corposa setta della Soka Gakkai, tirata in ballo erroneamente e furbamente dal Corriere nella festicciola dell’8 per mille ai bonzi e ai sadhu.
Sul fronte induista pare oltremodo scarsa la rappresentatività dell’UII rispetto alla realtà induista italica, immigrata o autoctona-convertita che sia: scrive il CESNUR che «la maggior parte dei movimenti internazionali d’ispirazione induista che operano in Italia non hanno aderito all’Unione, anche se alcuni mantengono rapporti di cordiale collaborazione». Ma in questo momento di baldoria la cosa non conta, visto che il festoso presidente dell’UII Franco di Maria pensa già da teo-tycoon: «Capito il significato? Potrà nascere una tv induista in Italia, potremo costruire templi, aprire scuole e università teologiche». Di quale tradizione induista delle tante, non è detto, ma la cosa in queste ora di giubilo non conta nulla.
Anche qui, si pone l’antica questione che vede una religione – quella cattolica – dotata di una linea di legittimità e rappresentanza perfettamente definita (la cui discendenza è certificata sino a poter risalire nella catena millenaria al Dio incarnato) contro la massa acefala delle religioni non cristiane, che sono un pulviscolo di sigle, denominazioni, sette spesso in lotta anche fisica fra loro, in un quadro generale contraddittorio e pericoloso.
È capitato a chi scrive di assistere, durante la presentazione di un libro sul buddismo tibetano, ad una scenetta rivelatrice: una signora si alza in piedi e chiede al bonzo tibetano presente perché, in un ciclostile dove si indicavano i centri buddisti italiani raccomandati distribuito ad uno dei precedenti incontri al Palasport di Milano col Dalai Lama, comparisse un centro milanese in odore di Dorje Shugden: ossia una setta lamaista rinnegata, seguace di un demone recentemente bandito dal culto dal Dalai Lama, che al Dalai ha pure assassinato un monaco collaboratore nel 1997, scatenando una controversia senza fine in cui dentro ci sono cospirazioni d’ogni tipo, accuse di intolleranza religiosa al governo di Dharamsala, e pure l’Interpol. Come si può capire da questo microscopico episodio, anche in seno alla meno acefala delle tradizioni buddiste – quella tibetana dei Gelugpa, che fa capo al Dalai Lama e che grazia alla iperesposizione mediatica del suo “pontefice” fa culturalmente la parte del leone all’interno dell’UBI – regna una certa confusione. Per inciso, in quella presentazione, il bonzo evase alla domanda della signora preoccupata, dicendo a tutti che bisognava studiare la cultura e la lingua tibetana per capire meglio.
La gioia della vicepresidente dell’UBI si rivolge subito agli ulteriori momento di festa: «Cosa cambierà? La nostra festa di Vesak, per esempio, riconosciuta festa religiosa dalle Nazioni Unite fin dal 2000, ora avrà lo stesso valore anche qui». Il Vesak (più formalmente detto Vesākha , in India conosciuto anche come Buddha Jayanti), ossia festa che celebra la nascita di Budda, che cade all’incirca alla luna piena del quinto o sesto mese dei nostri calendari, è in pratica una sorta di natale buddista.
Ebbene, non possiamo non pensare qui ad un paio di Vesak del recente passato che hanno accomunato buddisti ed induisti.
Il 18 maggio 1974, intorno alle 8:05 del mattino, una comunicazione attraversò i comandi supremi dell’esercito indiano sino ad arrivare ad Indira Gandhi. In questa comincazione veniva detto esattamente: «The Buddha has smiled» (“Budda ha sorriso”). Era il codice che comunicava la riuscita del l’operazione Buddha Smile (“Sorriso di Budda”). Il “Sorriso di Budda” altro non era che il primo test atomico che l’India di Indira Gandhi produsse per dotarsi della bomba. L’esplosione è avvenuta a Pokhran, nel Deserto di Thar, stato del Rajasthan; a colpire è anche l’ubicazione dell’ordigno sperimentale, posto sottoterra a 107 metri – 108, risaputamente, è un numero sacro in oriente soprattutto per il buddismo. Il “Sorriso di Budda” scatenò una potenza di 9 kilotoni e fece entrare l’India nel ristretto club dei possessori di mezzi di distruzione nucleare. 24 anni dopo, mentre cresce l’impazienza di mostrare nuovamente i muscoli atomici al problematico vicino pakistano, il governo di Nuova Delhi (al governo ci sono i nazionalisti indù del BJP) pensa ad un altra tornata di esperimenti, sempre nel poligono atomico di Pokhran. Il nome in codice, questa volta, forse anche per compiacere i conservatori hindu al governo, viene attinto dal pantheon induista: Shakti, parola che possiamo tradurre in “energia”, ma anche come il nome della dea della forza. Cionondimeno, la data dell’esperimento è, calendario religioso alla mano, la stessa: 11 maggio, il Vesak dell’anno 1998. Come se, in questi esperimenti prodromici della più massiva violenza disponibile dall’umanità, si fosse cercata la “benedizione” di dèi che tutto annichiliscono. Una bella metafora di religione comparata: la disgregazione dell’atomo come la disgregazione dell’io; poi il nulla, il deserto, il non-divenire. Il nirvana.
Ecco, un bella storia di fuochi d’artificio in monito ai prossimi “natali” indo-buddisti appena sdoganati dalla Repubblica Italiana.
Che la festa cominci.