di Erminio Cassano
Il 19 novembre scorso ricorreva l’anniversario della morte dell’agente di polizia Antonio Annarumma, una delle prime vittime della follia terroristica degli Anni di Piombo, ucciso a Milano all’età di 22 anni con il cranio sfondato da una sbarra di ferro lanciatagli da un corteo dell’ultrasinistra il 19 novembre 1969, pochi giorni prima della strage di piazza Fontana. Non una riga sui giornali cittadini, non un corteo in sua memoria, non una Messa solenne in suo suffragio celebrata da un alto prelato alla presenza del sindaco. Eppure Annarumma fu soltanto il primo di una serie senza fine di difensori della legge e dello Stato (poliziotti, carabinieri, magistrati) che bagnarono col loro sangue le strade delle nostre città. Che meriterebbero una sorta di Vittoriano, mentre invece sono obliati da tutti: dai politici, dalla stampa, dalla cultura, dalla scuola.
Ben venga, dunque, un libro come quello dello scrittore, storico e collaboratore di «Riscossa Cristiana» Luciano Garibaldi: «Brigate Rosse. Per non dimenticare», pubblicato dalla casa editrice Pagine (Roma, 06-45468600) nella collana “I libri del Borghese”, aggiornato dopo la sua prima edizione, che vide la luce dieci anni or sono, e arricchito da una prefazione di Marco Ferrazzoli.
Il volume ripercorre le tappe di quegli anni riproponendo i principali réportage sul terrorismo pubblicati negli anni tra la fine dei Sessanta e l’inizio degli Ottanta, su un importante e diffuso settimanale italiano (Gente, dell’editore Edilio Rusconi, diretto da Antonio Terzi e poi da Gilberto Forti), di cui Luciano Garibaldi fu inviato e poi, fino al 1984, caporedattore. Gli avvenimenti descritti in queste pagine sono fra i più tragici di dodici anni di storia italiana: dal sequestro Sossi all’assassinio Coco; dal ’77 a Bologna a Guido Rossa; da via Fracchia a Giuseppe Taliercio. Proprio perché scritte “a caldo” (tranne il capitolo dedicato all’olocausto del Msi), e quindi non manipolate con il “senno di poi”, queste cronache dimostrano che il fenomeno del terrorismo in Italia non ebbe mai nulla di misterioso e di equivoco. Tutto era chiaro fin dal primo apparire della stella a cinque punte, solo che si fosse stati capaci di guardare a quei drammatici avvenimenti con occhi sgombri da fanatismo e da tesi politiche precostituite, con un po’ di buona fede.
Gli “anni di piombo” nacquero da una diaspora interna al Pci, dall’improvvisa escrescenza di un vecchio bubbone: la leggenda della Resistenza tradita. Ma pochi furono disposti ad ammetterlo finché Rossana Rossanda non invitò la sinistra a sfogliare l’album di famiglia. Così, per anni, il giudizio dell’opinione pubblica fu deviato con interpretazioni e cronache tendenziose e grossolanamente errate. La morte di Feltrinelli sul traliccio di Segrate fu attribuita alla Cia. Sossi fu presentato come complice dei suoi rapitori e, ancora nel ’78, quando uscì il suo libro di memorie (scritto assieme a Luciano Garibaldi), si parlò di “punti oscuri mai chiariti”. Frattanto, i mezzibusti televisivi blateravano di “cosiddette” Brigate Rosse, e l’allora presidente del Senato, Sandro Pertini, assicurava che «le Brigate Rosse in realtà sono nere». Il ministro degli Interni, Paolo Emilio Taviani, affermò che «il pericolo viene da destra» e i garantisti insorsero in difesa del “povero” Oreste Scalzone, “malato”, che così poté fuggire all’estero. Gli operai comunisti, che avevano incominciato a sospettare qualcosa dopo l’aggressione degli “autonomi” al leader della Cgil Luciano Lama all’Università di Roma, si svegliarono del tutto quando fu ucciso Guido Rossa, il sindacalista di Genova che aveva denunciato ai carabinieri un lavoratore da lui sorpreso a distribuire volantini BR in fabbrica. Ma quando i brigatisti capirono, dopo l’assassinio di Rossa, di avere oltrepassato il segno, era ormai troppo tardi per loro.
Purtroppo, per anni, la vera controinformazione non fu quella elaborata dalla omonima rivista delle Brigate Rosse, ma quella propinata alla gente dalla grande stampa e dalla TV di Stato. Non a caso gli articoli riproposti nel libro, che, quando furono scritti, rappresentavano una stecca nel coro, documentano oggi in maniera lampante le distorsioni e le complicità della stampa, i paurosi cedimenti della magistratura, la viltà dei governi che lasciarono allo sbaraglio la polizia giudiziaria. Essi costituiscono un’indimenticabile galleria di volti e di nomi: pallidi e pavidi esponenti del potere; spavaldi sovversivi che dall’inerzia dello Stato ricavavano forza per il loro progetto; silenziosi eroi come Luigi Calabresi, Francesco Coco e Giuseppe Taliercio.
Il nostro Paese avrebbe potuto finire come la Cambogia di Pol Pot o come l’Argentina di Videla. Se questo non accadde fu non per merito di una coscienza civile, inesistente a qualsiasi livello, ma per la concomitanza di due fattori, uno strumentale, l’altro provvidenziale: la decisione del segretario Enrico Berlinguer di salvare il salvabile del comunismo disconoscendo i figli ribelli, e uno sparuto gruppetto di poliziotti che, con intelligenza e umanità, seppero convincere alla resa dei conti il “partito armato”. E che furono ricompensati (incredibile ma vero) con una serie di mandati di cattura, spiccati da giudici aderenti a «Magistratura Democratica».
Questo libro non è l’unico contributo fornito dallo storico Luciano Garibaldi alla conoscenza degli “anni di piombo”. Da due suoi libri sono state tratte due delle tre fiction televisive realizzate dal regista e sceneggiatore Graziano Diana per la casa cinematografica Albatross, che la TV manderà in onda nella prossima stagione con il titolo «Gli anni spezzati». La serie, premiata nell’ultima edizione dell’Acqui Storia con il riconoscimento speciale «La storia in TV», racconterà tre vicende-simbolo di quegli anni, che hanno per teatro le tre città più coinvolte, Milano, Genova e Torino: l’assassinio del commissario Calabresi, il rapimento del giudice Sossi, la «marcia dei quarantamila» che vide tutti gli operai della Fiat scendere in piazza per manifestare contro il terrorismo.