di Vittorio Messori
tratto da: Vittorio MESSORI, “Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana”, Paoline, Milano 1992, p. 661-671.
Fonte: Storia Libera
Confidava agli intimi Napoleone, a Sant’Elena. «Ho sempre saputo impiegare ogni tipo di uomo, quali che fossero le sue capacità, il suo mestiere. Ma che farsene dei filosofi? Per quanto abbia cercato, non ho mai trovato qualcosa o qualcuno cui potessero servire». Il pessimismo dell’ex-imperatore non era del tutto ingiustificato. Purché, naturalmente, a ogni generazione si ammetta qualche eccezione. Per i nostri tempi, e per quanto a noi sembra, tra quelle eccezioni andrebbe posto il nome di Augusto Del Noce, morto fra il Natale e il Capodanno del 1989, mentre l’ultima dittatura marxista d’Europa, quella del rumeno Nicolae Ceausescu, finiva nel terrore e nell’esultanza. Si avverava “Il suicidio della rivoluzione”, come profetizzava il titolo di uno dei suoi libri più importanti e vilipesi, scritto nel 1978, quando tutto faceva pensare il contrario. E’ “servito” il filosofo Del Noce (per usare l’espressione di Napoleone)? Stando all’esperienza nostra e di tanti altri, la risposta non può essere che decisa: sì, con il suo pensiero, questo vecchio studioso ha aiutato molti (e tanti altri, presumibilmente, aiuterà nel futuro con i suoi scritti) a vederci un po’ più chiaro nel mondo, nella storia, nella vita. E nella fede. Del Noce, in effetti, non era un cristiano tanto per dire; e neppure un cattolico per semplice tradizione familiare e culturale: era un credente consapevole ed esplicito, a viso aperto. E della sua fede ha fatto il criterio decisivo per comprendere il senso della vicenda umana. Anche per questo cattolicesimo non certo posticcio, casuale, ma essenziale per il suo pensiero come per la sua vita (di «limpida testimonianza», di «servizio costante» ha parlato Giovanni Paolo II nel suo messaggio di cordoglio), Del Noce ha pagato un tributo pesante in emarginazione, talvolta in derisioni e calunnie. Aveva provato sulla sua pelle che, oggi, la vera Inquisizione, e di un rigore inimmaginabile per quella antica, è di segno “laico”, si presenta per giunta sotto le vesti della tolleranza, del pluralismo, del dialogo. Ma questo era messo, da lui, nel conto; anzi qui trovava una conferma di una delle sue tesi principali, quella della “eterogenesi dei fini”, il rovesciamento cioè delle intenzioni umane nel loro contrario. La cultura moderna, nata per realizzare il regno della libertà per tutti, ha in realtà creato quello che egli chiamava «il regime della massima oppressione», soprattutto nei confronti di coloro – ed egli era tra questi – che non vogliono sacrificare agli “idola fori”, ai miti e ai tabù su cui queste culture si reggono. Di questa persecuzione di stampo laicista o ateista, dunque non si lagnava più di tanto. Ciò che invece lo amareggiava (e, sempre dolorosamente lo stupiva) era un’avversione forse ancor più acre che gli giungeva all’interno di quella Chiesa stessa che amava, che cercava di servire e nella quale vedeva la sola possibilità (e per tutti: credenti, ma anche non credenti di buona volontà) di ritrovare la strada per la dignità, la libertà, la giustizia vere tra gli uomini. Pur avendolo frequentato, e con assiduità, sulle pagine dei suoi libri e dei suoi molti articoli, non lo avevo però mai incontrato di persona. L’occasione venne grazie ad un collega che progettava con lui un libro-intervista (che purtroppo non fu poi realizzato) e che, sorprendendomi un poco, mi recò un invito del professore a raggiungerlo nella casa dove passava le vacanze, desiderando conoscermi. Anch’egli, in effetti, seguiva quanto andavo scrivendo. La casa era quella dell’antica famiglia dei Del Noce. Un angolo di vecchio Piemonte restato intatto, una villetta fascinosamente “rétro” – con tanto di gazebo, tavoli in pietra con la scacchiera per la dama, ortensie e magnolie – solitaria nella campagna di Savigliano, quasi a metà strada fra Torino e Cuneo. “16 settembre 1987”, dice la data che segnai sulla copertina del taccuino che riempii di note: poco più di due anni prima della sua morte quasi improvvisa. Se ripenso a quelle ore – di sole, di amicizia, di scambio fervido di idee, passeggiando nel giardino o pranzando in una saletta anch’essa gozziniana – il ricordo gradevole è offuscato a tratti dalle espressioni di amarezza di Augusto Del Noce. L’incomprensione, l’ostracismo, spesso il rifiuto anche solo di ascoltarlo o di ospitarlo in certi giornali, in certe Case editrici – e, questo, da parte “cattolica”, clericale – tutto ciò, ben più che per sé, lo rattristava per la causa della fede, del messaggio evangelico, della credibilità della Chiesa. Avendoci riflettuto una vita intera, era convinto di intuire per quali vie il messaggio di Cristo potesse di nuovo incontrare l’uomo d’oggi; e vedeva invece molta teologia, molta prassi pastorale, molto clero e laicato, procedere per strade che a lui sembravano vicoli ciechi, trappole, scorciatoie verso l’insignificanza e lo scacco. E soffriva che non si volesse dar retta ai suoi segnali appassionati di cambiare percorso. E’ vero che i giovani dei nuovi movimenti, in quel vecchio cattolico avevano scoperto un maestro, una guida intellettuale. E Del Noce era loro grato. Ma, al contempo, rifiutava di essere in sintonia con una parte soltanto del cattolicesimo di oggi: era la Chiesa nella sua totalità che, per lui, aveva bisogno di una correzione di rotta, di adeguamento al nuovo indirizzo di quel papa polacco in cui vedeva un dono della Provvidenza. I credenti, per lui, avevano bisogno di andare in profondo nel passato per poter vivere il presente e programmare il futuro. Mi ripeteva, quel giorno: «La crisi del marxismo è irreversibile, il liberalismo che sembra trionfare prendendone il posto è anch’esso in decomposizione: e, alla pari del marxismo, lo è non perché sia fallito ma proprio perché si è realizzato, capovolgendosi. E’ in crisi anche la Chiesa cattolica, ma non perché non sia più credibile o sia ormai impraticabile il suo messaggio, ma perché ci si è allontanati da esso. Basterebbe rifare chiarezza, rimettersi sui giusti binari per offrire a un mondo disperato la prospettiva di salvezza cui ha bisogno. Mio dovere è indurre i credenti alla riflessione, alla comprensione che la buona volontà non solo non basta, ma può essere dannosa se indirizzata verso percorsi sbagliati. Madre dell’eresia non è solo la superbia ma, secondo l’insegnamento dei padri, anche l’ignoranza: molti uomini di Chiesa ignorano letteralmente quale sia la prospettiva cattolica, assumendo schemi e punti di riferimento non cattolici, anzi talvolta non cristiani, senza neppure averne consapevolezza». Per lui essere filosofo (e filosofo della politica, disciplina che aveva insegnato prima all’Università di Trieste, poi in quella di Roma) significava andare alle radici, non fermarsi alla superficie dei problemi quotidiani ma sondarne le cause profonde, individuare la deriva delle idee le quali, nella lunga durata, partendo da certi presupposti, portano inevitabilmente a certe conseguenze. Proprio questo, secondo lui, mancava ai credenti d’oggi. Mi disse: «Sempre il pensiero cattolico ha elaborato una sua teologia della storia. Ma, forse, gli ultimi che vi di dedicarono furono i grandi pensatori controrivoluzionari dell’Ottocento, posti di fronte alla sfida della modernità. Oggi sono rarissimi i cattolici che si preoccupano di leggere davvero il proprio tempo partendo dalla fede e dalla Tradizione come da postulati essenziali. La crisi del mondo cattolico deriva dal distacco tra la prospettiva di fede (spesso ormai sconosciuta) e l’azione politica, sociale, culturale (che è necessariamente allo sbando). Messi davanti ai problemi della nostra epoca, i cattolici ne recepiscono i quadri interpretativi da altre culture, senza scendere ai fondamenti ultimi. La fede, così, diventa un’etichetta inutile, della quale alla fine sbarazzarsi, non la lampada per illuminare il reale e ciò che da sotto, spesso nascostamente, lo muove. E’ una sorta di inefficace e comunque falso ecclettismo (generalmente “progressista” o comunque dall’apparenza “illuminata”) che contrassegna tante prese di posizione che si credono “cattoliche”. Non stupisce di certo che nessuno, al di fuori della Chiesa, voglia prendere sul serio questi “pastiches”; né che, all’interno della Chiesa, nessuno si senta illuminato da simili “Weltanschauungen”, prodotti tanto devianti e insipidi quanto inevitabili della perdita delle radici e del senso di inferiorità davanti alla falsa sapienza del “mondo”». Per Del Noce tutto cominciò nel Seicento europeo, con Cartesio e con i primi “libertins”, per proseguire poi con i “philosophes”, gli intellettuali illuministi del Settecento. E cominciò perché, diceva, «si diede valore assoluto alla ragione umana, a quella soltanto e, in base a quel razionalismo, si estromise tutta la dimensione trascendente, la metafisica: tutto ciò che, appunto, va “al di là della fisica, della natura”, che supera ciò che si vede, si tocca, si può misurare e descrivere con la ragione. Si negò (e senza prove) non solo l’esistenza di Dio, ma anche la possibilità della sua esistenza». In ogni caso, sui temi irresolvibili del razionalismo (Dio e, dunque, l’aldilà, la vita eterna, il mistero della morte, il peccato, il miracoloso) calò quello che amava chiamare «il divieto di fare domande». Un divieto che, a suo avviso (ma anche a sua esperienza: la sua emarginazione derivò proprio dal fatto che non volle rispettarlo), contrassegna l’epoca moderna e contemoporanea. E citava spesso, come esemplari, frasi di Marx per il quale non importava discutere se Dio sia o non sia: Dio non esiste perché non deve esistere, altrimenti l’uomo ne è dipendente, non può più creare il mondo a sua immagine e somiglianza. Uomo di fede, proprio nell’oscuramento, programmatico, e se del caso violento, della prospettiva di fede, Del Noce vedeva la caratteristica della modernità. La quale è dunque l’era della crescente secolarizzazione, anzi della desacralizzazione, di una negazione di Dio che in un primo periodo si cerca di rimpiazzare con dei surrogati, con dei culti secolari, mettendo la politica al posto della religione. E’ il periodo “sacrale” della secolarizzazione, quello delle ideologie che assumono i tratti della vecchia religione: il liberalismo ottocentesco, il positivismo scientista, il socialismo, il fascismo, il nazismo. Ma, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, dal 1945, la secolarizzazione fa un ulteriore, inevitabile passo avanti ed entra nel periodo “profano”. Non più la ricerca di un surrogato della religione, ma la liberazione dalla religione, con al centro il culto di un edonismo, di una ricerca del piacere che per la prima volta nella storia non si nasconde, che anzi si gloria di se stessa. Un termine era caro fra tutti a Del Noce: quello di catastrofe. Ma nel preciso senso etimologico: di “voltare in giù”, dunque di “rovesciare”. Per lui, la modernità, prima agnostica e poi atea, era “l’era della catastrofe”, nel senso che tutte le ideologie elaborate dall’uomo che voleva farsi Dio (ideologie alle quali, peraltro, riconosceva spesso tanta buona volontà e generosi propositi) si erano rovesciate nel loro contrario stesso. Anzi: tanto più e tanto meglio si erano realizzate, maggiore era stato il loro risultato catastrofico. Esempio massimo, quel marxismo dal quale egli stesso, nella Torino degli anni trenta, era stato tentato e del quale era divenuto poi il critico più lucido e temuto e, dunque, più odiato. Contro le illusioni dei catto-comunisti (a partire da quel Franco Rodano che fu l’eminenza grigia dei capi del Pci, di Enrico Berlinguer in particolare, che fu l’inventore e il fautore del “compromesso storico” e al quale aveva dedicato un libro voluminoso e implacabile), contro quelle illusioni, dunque, Del Noce più e più volte aveva cercato di dimostrare che aveva ragione Pio XI nella “Divini Redemptoris” del 1937: il comunismo come “intrisecamente perverso”. Spiegava: «Il comunismo – che da più di un secolo si identifica con il marxismo, essendosi presentato sotto quella veste – ha l’ateismo come sua essenza, non può farne a meno senza negarsi, non gli è possibile pensare a valori religiosi se non nella forma ateistica. La quale, dunque, non è per esso (e per usare il suo linguaggio) una sovrastruttura, ma la struttura stessa». La sua attenzione privilegiata al comunismo veniva dal fatto che, se tutta l’era moderna era quella della secolarizzazione, il marxismo rappresentava non solo il termine pieno e compiuto della negazione di Dio, ma anche una filosofia che voleva farsi politica e che era riuscita a realizzare il progetto di incarnarsi davvero nella storia, di trasformare idee in strutture concrete. Ebbene, la prova della storia aveva mostrato in concreto quella “catastrofe” marxista che già da un mezzo secolo Del Noce prevedeva e le cui convulsioni finali fece in tempo a vedere negli ultimi tempi della sua vita. ”Catastrofe” del marxismo nel senso innanzitutto di rovesciamento totale delle previsioni: la giustizia, la libertà, il benessere universali promessi e che, nel socialismo detto, per esorcismo, “reale” (ma che, per lui, coincideva esattamente con quello “ideale”), si trasformavano invece nella massima ingiustizia, nella massima illiberalità, nella massima miseria. Così, mentre il popolo – umiliato, offeso, affamato – si rivolgeva contro i regimi “popolari” e li travolge, il marxismo occidentale, quello che (anche per fortuna sua) non vinse, a partire da quello italiano, conosce anch’esso la sua “catastrofe”, si rovescia anch’esso nel suo contrario. Incredibile, davvero, la lucidità con cui nel 1978 – quando il marxismo da noi sembrava la cultura egemone, pareva in ottima salute e magari destinato alla vittoria – Del Noce scriveva testualmente sin dalla copertina del suo “Il suicidio della rivoluzione”: «L’esito dell’eurocomunismo non può essere che quello di trasformare il comunismo in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata». In effetti, dieci anni dopo, proprio questo è avvenuto: il Partito comunista intende cambiare nome e intanto ha già assunto l’ideologia più borghese di tutte, quella del “liberalismo di sinistra”, che poi è il radicalismo alla Marco Pannella, avviandosi a diventare un partito radicale di massa (se le masse riuscirà a conservare). E, intanto, trova i suoi più potenti fautori in quella borghesia della grande finanza internazionale, della quale da noi un Carlo De Benedetti è il prototipo esemplare. «Era prevedibilissimo», rispondeva Del Noce a chi gli chiedeva conto di queste sue virtù “profetiche”. «Non occorreva davvero essere indovini: persa per strada l’utopia rivoluzionaria, l’essenza di surrogato religioso, è restato al marxismo soltanto il suo aspetto fondamentale, di prodotto dell’illuminismo scientista, del razionalismo che esclude Dio per una scelta previa e obbligata. Anche il comunismo “all’europea”, dunque, si è rovesciato nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti più salde ed essenziali. Anzi, si pone ora come obiettivo storico l’imborghesire nel modo peggiore quelle masse che voleva liberare dalla cultura e dall’oppressione borghesi. Non dice nulla che, in Italia, non solo finanzieri alla De Benedetti, ma anche giornalisti corifei del più brutale “esprit bourgeois” siano gli ispiratori della dirigenza del nuovo Pci?». Esito finale, comunque, di tutte le ideologie moderne, comuniste o liberali, era per lui (ed è difficile dargli torto, guardandosi oggettivamente attorno) il nichilismo, la caduta di tutti gli ideali e di tutti i valori. Un nichilismo cui si cerca di dare un volto accettabile, magari nobile, chiamandolo “pensiero debole”. Forma volgare del nichilismo, vera e finale ideologia per il popolo: il consumismo. E cioè, spiegava, «l’alienazione massima, la trasformazione di tutto in merce con un prezzo, e il raggiungimento della massima illibertà, crocifiggendo l’uomo indifeso al desiderio, all’invidia, all’affanno di procurarsi sempre più beni». E i cristiani, i cattolici? E’ qui che Del Noce scuoteva il capo avvilito: dopo essersi tanto opposti alla modernità, in modo magari eccessivo e ossessivo, dopo averla addirittura demonizzata, molti uomini di Chiesa avevano finito per accettarla in modo acritico, entusiastico e, soprattutto, anacronistico. L’avevano “sposata”, cioè, negli Anni Sessanta del ventesimo secolo, quando chi voleva vedere (in effetti, “Il problema dell’ateismo” di Del Noce è del 1964) si accorgeva che quella modernità era in decomposizione: e proprio perché si era realizzata, giungendo quindi agli esiti catastrofici consueti. Legandosi a quella “catastrofe”, anche il presente e la prassi dei cattolici ne avrebbero seguito inevitabilmente il destino. Per Del Noce, il pensiero cattolico dell’Ottocento (che egli invitava a riscoprire come “profetico”, come quello che meglio aveva visto nel suo futuro, che poi è il nostro oggi) aveva sempre ben chiaro che ogni rifiuto di Dio si trasforma prima o poi in un disastro per l’uomo. Quei cattolici del secolo scorso si erano dunque opposti alle ideologie moderne per amore dell’umanità, prevedendo che proprio quella essenza atea o agnostica delle nuove ideologie le rendeva pericolose. Partendo dalla fede, nelle loro analisi si fidavano ancora della Scrittura: “Nisi Dominus aedificaverit domum, invanum laborant qui aedificant eam. Vanum est vobis surgere ante lucem, sedere in multam noctem”. Per quei pensatori cattolici ottocenteschi, lo schema interpretativo della storia era, come sempre sino ad allora, quello fede-miscredenza, religione-irreligione, devozione-empietà, sacro-profano. Coll’accettazione della modernità, si accettò anche il suo schema interpretativo, che è: progressista-conservatore, destra-sinistra, reazione-rivoluzione. Così, a una interpretazione religiosa della storia, se ne è sostituita una politica. E alle categorie tradizionali di vero-falso, di male-bene, si sono sostituite quelle di progressivo-reazionario. Proprio per questo molti cattolici hanno finito per aderire – seppure con ridicolo ritardo e zelo – a un marxismo ormai realizzato e dunque decomposto (ma per loro, convertiti recenti, rappresentava il futuro, la novità…). E, dunque, anche per loro il “santo” è divenuto il “progressista”; il “peccatore” è il “reazionario”. Anche chi non ha fatto la “scelta socialista” ha però finito col recepire, senza neppure accorgersene, quelle categorie del “moderno”, che pur nulla più hanno di religioso. In questo modo, diceva Del Noce, il pensiero cattolico è diventato insignificante, ripetitore ingenuo e talora patetico, perché a rimorchio di categorie non sue e che tra l’altro hanno mostrato da tempo la loro miseria, la loro incapacità di dare conto dell’uomo e della storia. Proprio qui, a suo avviso, stava la radice della contestazione intraecclesiale. «Poiché», mi diceva, «si pensa che un certo concetto moderno di “democrazia” sia di sinistra, progressista, la riforma della Chiesa deve passare attraverso la sua democratizzazione radicale. Non avendo più una prospettiva religiosa ma, spesso inconsciamente, soltanto politica, a certi clericali sembra intollerabile l’aspetto gerarchico, monarchico della Chiesa cattolica: un aspetto “reazionario” contro il quale bisogna dunque combattere». Nella nuova tavola di valori del “cattolico medio”, il vero avversario da battere, così, non è più l’irreligioso, il blasfemo, il senza-Dio. Anzi, presentandosi spesso tutto questo come “di sinistra”, è visto come un cristianesimo anonimo, delle cui accuse fare tesoro. Avversario, in questa prospettiva neocattolica («che nulla però», diceva Del Noce, «ha più a che fare con il cattolicesimo sinora conosciuto»), avversario vero è “l’integrista”, cioè colui che vuole servirsi della sua fede fino in fondo, trasformandola da vago sentimento in guida e prospettiva per la sua concreta attività. E per questo, ripeteva, c’è «tanto odio per i nuovi movimenti, visto come integristi e dunque dannosi, nemici per eccellenza del neocristianesimo». Tragedia poi di tanti credenti sarebbe stata – sempre stando alla sua analisi – l’accettazione di un altro dei postulati fondamentali delle ideologie moderne: la necessità di eliminare il «barbaro, oscuro tabù cristiano del peccato, a cominciare da quello originale». In effetti, se c’è un peccato, una colpa, una caduta all’inizio della storia, questa ha bisogno di una salvezza, di una redenzione: di un Salvatore, di un Redentore. Ma poiché si crede che l’uomo possa salvarsi da solo, grazie alla sua ragione, e possa realizzare con le sue forze il paradiso in terra, ecco che tra i primi passi da compiere è relegare nel mito l’idea del peccato. Da qui, diceva, «il fatto indubitabile che ogni modernismo teologico ha alla sua base l’eterna eresia pelagiana: l’attenuazione, la negazione più o meno dissimulata, se non l’esplicito rifiuto, della caduta di Adamo. Senza il quale, però, anche il Cristo diventa incomprensibile, superfluo. E allora si cerca di salvarlo trasformandolo in un proto-sindacalista, in un profeta della liberazione socio-economica». Da un lato, Del Noce si opponeva a quello che per lui era un inganno che discendeva dallo schema fondante della modernità, “progresso-reazione”: credere, cioè, che il fascismo, in quanto visto come il massimo della “reazione”, fosse anche il massimo del negativo, il Satana, il “Male radicale”. Denunciava che questa demonizzazione era stata voluta dai comunisti (e accettata acriticamente dai cattolici, con quel loro “arco costituzionale”, dove c’erano dentro tutti, tranne i missini) per far dimenticare i tanti Stalin e Pol Pot, dicendo che i soli “cattivi” della storia erano Hitler, Mussolini e i generali sudamericani. Ma, dall’altro lato Del Noce avvertiva i cattolici che per caso ne fossero ancora tentati (così come tanti di loro avevano effettivamente fatto durante il Ventennio), di non cadere nell’illusione di pensare al fascismo come a un difensore della tradizione, dei valori perenni, dunque a un potenziale alleato dell’uomo religioso: «Checché ne dicano marxisti e “liberals” di ogni risma che non vogliono riconoscere i loro parenti imbarazzanti», non si stancava di ripetere, «fascismo e nazismo (pur assai diversi tra loro e non assimilabili tout court) non sono negazioni della modernità: ne sono figli legittimi. Si situano anch’essi tra le ideologie che hanno decretato l’inesistenza o almeno l’irrilevanza di Dio, sono un momento come gli altri della secolarizzazione. Non sono, come hanno cercato di farci credere i “progressisti”, degli errori contro la cultura moderna, sono degli errori dentro quella stessa cultura». Questo, dunque, l’appello che Del Noce voleva lanciare ai fratelli nella fede, sorretto da uno spirito di apostolato ormai rarissimo nei cosiddetti intellettuali, spesso anche in quelli “tonsurati”. Ammoniva di diffidare di «ogni presunta avanguardia cattolica che, in realtà, è sempre la retroguardia del progressismo di ogni maniera». Diceva, con Urs von Balthasar, che «la religione è finita se dell’uomo medio di oggi si fa la misura assoluta e unica di ciò che la Parola di Dio deve dire e non dire». Si difendeva dall’accusa di respingere il neomodernismo teologico per paura del nuovo: «No, lo avverso come un pericolo gravissimo per la fede: non perché nuovo, ma perché falso». Ripeteva, soprattutto (e qui scatenava la reazione spesso inconsulta e violenta di molti clericali) le parole con cui, nel 1971, aveva chiuso il suo intervento in “Tramonto o eclissi dei valori tradizionali?”: «La prima condizione perché l’eclissi abbia termine e il cattolicesimo esca dalla sua crisi è che la Chiesa riprenda la sua funzione: che non è di adeguarsi al mondo, ma, al contrario, di contestarlo». Contestato a sua volta per queste affermazioni, ci tornava sopra, ostinato: «Il Cristo non ci ha detto di sposare il mondo, bensì di battezzarlo. La Chiesa ha il dovere di rispondere ai bisogni dell’uomo moderno ma senza diventare modernista, senza accettarne gli schemi interpretativi». Ripeteva: «Il neo illuminismo borghese – del quale anche gli ex comunisti sono una parte – ragiona in termini di “modernizzazione” e di “arretratezza”. Per esso, ciò che più è “arretrato” è la morale cattolica tradizionale, le sue prospettive sulla vita, la sessualità, la famiglia. Il permissivismo, la rivoluzione sessuale, la tolleranza per la pornografia sono momenti essenziali per liberarsi della Chiesa e, dunque, per “modernizzare” la società. Ed è drammatico che anche tanti cattolici giudichino “arretratezza” la disperata difesa papale dei fondamenti etici del cristianesimo». La fede crede che egli, ora, sia in quella Luce che vaglia infallibilmente gli uomini, i loro pensieri, i loro progetti, le loro verità e i loro errori. Egli, dunque, adesso ci “vede”, vede se e in che misura fosse egli stesso o fossero altri credenti (per quanto ne sappiamo, in buona fede quanto lui) ad avere ragione. Noi, ancora pellegrini, abbiamo solo il dovere, per dirla con san Paolo, «di esaminare tutto e tenere ciò che è buono». Con coraggio e coerenza, come la coscienza vorrà mostrarci. E come (che si concordi o no con lui) ha dato indubbia testimonianza il cristiano, il cattolico Augusto Del Noce.
1 commento su “ Augusto Del Noce: la “catastrofe” della modernità – di Vittorio Messori”
Totale condivisione. Augusto Del Noce più grande intellettuale italiano del 900. La Chiesa deves-
sere solo la custode della Tradizione. Nella Tradizione c’è tutto, nulla può mancare in essa. Anche il più piccolo scostamento dalla Tradizione non può essere non tanto accettato, ma neppure concepito, Compresi i rituali nei loro minimi dettagli, compreso il latino: lingua sacra in quanto lingua della Tradizione (come l’arabo per l’Islam e l’ebraico per Israele). Tanti cristiani ( e anche tanti religiosi) siedono assopiti su questi tesori. Quando avverrà il risveglio solo il futuro.
potrà dirlo