Vi è la radicata convinzione, presso alcuni, che il cristianesimo disponga l’uomo alla debolezza, all’arrendevolezza, alla sopportazione e accettazione assoluta e fine a se stessa del torto e della vessazione subita, in questo modo facendone un essere totalmente passivo ed in balia di chiunque.
Tale convinzione sembra sia fondata sull’identificazione della religione cristiana con alcuni punti della predicazione di Gesù Cristo – in particolare l’invito ad essere miti ed umili di cuore nonché sempre pronti a perdonare (il “Discorso della montagna”, riportato nel Vangelo di S. Matteo, è a tale proposito un riferimento costante) – enfatizzati dal progressismo insinuatosi nella Chiesa e nell’ambiente del laicato cattolico organizzato.
Le cose stanno veramente così? Il cristianesimo insegna e pretende davvero questo, ossia che il cristiano sia un uomo totalmente passivo e sempre disposto a subire?
Se le cose stessero veramente così, se il cristianesimo fosse davvero questo, i cristiani non sarebbero in grado non solo di edificare civiltà, ma nemmeno di sopravvivere. Invece sappiamo che il cristianesimo, soprattutto in Europa, ha informato una civiltà – la civiltà romano-germanica, altrimenti detta medievale – anzi si può dire che il cristianesimo ha formato l’Europa anche se questa, con la modernità, gli ha voltato le spalle.
Allora perché alcuni credono che il cristianesimo sia quella specie di veleno spirituale capace di inibire la virilità e la combattività? La risposta crediamo sia da individuare in una certa ignoranza della dottrina cristiana, e nel rifiuto di riconoscere la realtà della condizione umana, quella cioè di creatura subordinata al suo creatore e non di ente capace di auto-divinizzarsi.
L’invito di Gesù a perdonare e a essere miti ed umili di cuore, si fonda sulla necessità di assomigliare a Lui per piacere al Padre Celeste. Gesù è mite ed umile di cuore ed i cristiani devono tendere ad assomigliargli, con l’aiuto soprannaturale della Grazia (l’aiuto di Dio), attraverso la preghiera ed i sacramenti: senza la Grazia non sarebbe possibile all’uomo, con le sole forze naturali, realizzare pienamente i consigli evangelici contenuti nel “Discorso della montagna”. Consigli che, occorre dirlo, riguardano soprattutto la dimensione personale ed invitano ad una disposizione del cuore, dunque consigli da non interpretare nel senso letterale del testo ma da applicare secondo l’insegnamento della Chiesa.
Ma essere miti ed umili di cuore, cosa vuol dire? Verso il prossimo, per esempio, significa essere ben disposti nei suoi confronti, trattandolo secondo giustizia e carità. La carità altro non è che amore: amore di Dio, da amare sopra ogni cosa, e amore del prossimo per amore di Dio (dunque amore del prossimo subordinato all’amore di Dio). L’amore verso Dio significa desiderio di piacergli e di stare con lui, cosa che si realizza col fare la sua volontà (rispettare la legge naturale compendiata nei dieci comandamenti, adorarlo con atti di devozione, sforzarsi di realizzare i consigli evangelici secondo la propria condizione di stato); mentre l’amore verso il prossimo e se stessi è amore di benevolenza, ossia desiderare il proprio e l’altrui bene. Bene che consiste innanzitutto nell’onorare la dignità della natura umana in cui è radicato il nostro essere: chi, attraverso il proprio comportamento, contraddice la nobiltà della natura umana, abbassa e denigra da sé la propria dignità.
L’umiltà, inoltre, consiste nel riconoscersi creatura che, come ogni altro ente, ha ricevuto l’essere e l’esistenza da un Altro che gli è infinitamente superiore, ossia Dio che ha disposto ogni cosa. L’umiltà è il contrario della superbia, la quale spinge l’uomo a considerarsi più di ciò che è sino al punto di auto-divinizzarsi. “La vera umiltà non è timida, servile, paurosa, triste e malinconica, non spinge l’uomo ad appartarsi, a tacere, a ripiegarsi su di sé, all’inerzia, a negare le proprie qualità, che sono doni di Dio; no essa ci sprona all’azione per amore dell’Essere di cui noi siamo partecipazione creata e finita. (…) umiltà è verità, conformarsi alla realtà (ossia alla natura delle cose ed all’Ordine che le caratterizza), non esaltarsi né deprimersi, ma avere un esatto concetto di sé come ente finito e creato, ma capace di conoscere il vero e volere il bene.” (Don Curzio Nitoglia Nel mare del nullaSocietà editrice Barbarossa).
L’invito alla sopportazione, poi, non consiste nell’accettare passivamente ogni situazione avversa, senza far nulla per opporvisi. Significa affrontare ogni avversità come una sofferenza da offrire a Dio, unendo le proprie sofferenze a quelle patite da Gesù per amor nostro al fine di redimerci. Si sopporta come una croce la sofferenza anche combattendo le cause che l’hanno provocata. Il cristiano non è un masochista in cerca di sofferenze, ma una persona che affronta in una prospettiva anche soprannaturale le avversità che la vita gli riserva. Sopportare significa, dunque, affrontare con coraggio e dignità le avversità, riconoscendosi bisognosi dell’aiuto di Dio per non cadere nella disperazione a cui le più gravi avversità possono condurre.
L’amore, la mitezza, l’umiltà e lo spirito di sopportazione predicati dal cristianesimo, non significano rifiutare la possibilità del combattimento, in ossequio ad una concezione pacifista della vita. Tutt’altro. La dimensione del combattimento appartiene al cristianesimo: ne è parte essenziale.
Il cristianesimo, autenticamente vissuto, dispone a vivere con sobrietà e distacco dai beni materiali – da considerare come mezzi ordinati al fine, prossimo (il bene naturale) e ultimo (il bene soprannaturale), e non come scopo dell’esistenza umana – spronando a compiere con costanza lo sforzo di edificazione personale a cui ciascuno è chiamato.
Edificazione che esige una continua azione su di sé, volta a vincere le bassezze nelle quali la natura umana, ferita dal peccato originale, può cadere e ad elevarsi verso un modello di vita che riconosce in Dio il dominus– la Causa della nostra esistenza – da conoscere, servire e onorare vivendo conformemente alla Sua legge, vera e propria via al Fine.
Sforzo di edificazione che non è solo interiore e personale, ma anche esteriore e sociale data la natura dell’uomo. Azione su di sé ed azione in campo sociale, con tutto ciò che ne consegue in termini di confronto col mondo e con gli altri uomini. Combattimento interiore contro tutto ciò che, in noi, offende Dio e la dignità della natura umana in cui la nostra esistenza è radicata; combattimento esteriore per difendere sul piano sociale i diritti della Verità, e costruire un ordinamento politico ad essa conforme.
(Dal Quaderno di Ordine Futuro “In hoc signo pugnas – Apologia della virtù combattente cristiana”, per gentile concessione dell’autore).
2 commenti su “Apologia della virtù combattente cristiana – di Marco Sudati”
ma poi, … Nostro Signore non è lo Stesso che ha cacciato i mercanti dal tempio con la frusta? Esiste anche la santa ira (zelo), passione che – se dosata bene – è buona, positiva, gradita e meritevole agli occhi di Dio, o no?
Oramai sono rimasti un gruppuscolo, praticamente solo laici (“stavolta la Chiesa la salveranno i laici” ha detto la Madonna in alcune apparizioni degli ultimi anni), ma non demordono, almeno finora. Speriamo bene per il futuro, che appare sempre più a tinte fosche. Ecco una riflessione sui coraggiosi combattenti degli ultimi tempi (con riferimento a San Luigi Maria Grignon de Monfort ed al suo “Trattato della vera devozione a Maria SS.ma”)