Pubblichiamo questo articolo di P. Giovanni Cavalcoli, OP, che propone alcune riflessioni sul saggio “La cristologia antropocentrica del Concilio ecumenico Vaticano II”, di Paolo Pasqualucci.
di P. Giovanni Cavalcoli, OP
Il Prof.Paolo Pasqualucci, che conosco da alcuni anni per aver letto un suo libro sul discorso inaugurale del Concilio tenuto dal Beato Giovanni XXIII, è un attento e dotto studioso del significato del Concilio e della Chiesa del postconcilio, una persona che suscita in me ammirazione e rispetto per la sua informazione storica, il suo metodo critico e la sua sincera fede cattolica.
Devo tuttavia esprimere con franchezza la mia perplessità per non dire disapprovazione nell’apprendere che il titolo di un suo recentissimo studio parla di “antropocentrismo” riguardo al Concilio Vaticano II, collegandosi col pensiero dell’illustre teologo Mons.Brunero Gherardini. Dico subito che non ho letto lo studio, che pur mi interessa, per cui qui, nello spazio di questo breve articolo, voglio limitarmi solo a fare alcune brevi considerazioni circa questa nota di “antropocentrismo” data al Concilio, giudizio che è stato espresso anche da altre parti in ambienti tradizionalisti, per i quali peraltro ho una viva simpatia, senza per questo seguirli in certe posizioni che mi sembrano resistere ingiustificatamente in nome della “tradizione” a posizioni innovative e moderne della Chiesa e dei Pontefici postconciliari, ingiustamente accusati di filomodernismo e di porsi in contrasto con la Tradizione e l’immutabile verità della dottrina cattolica.
Non avendo letto lo studio del Pasqualucci, confesso che non so esattamente che cosa egli intende con questo nome. Mi fermo solo sul nome in sè stesso così come esso è usato dagli storici della filosofia e della teologia. Dopodichè, desidero esprimere in base al significato del nome così definito, il mio pensiero circa l’opportunità o meno di parlare di “antropocentrismo” a proposito del Concilio.
Per la verità questo nome può avere un significato innocuo, come riferimento a una visione che dà una certa centralità all’uomo o che pone l’uomo al centro del proprio interesse, insomma una visione che riconosce all’uomo la sua grandezza e che sa porlo al centro di molti interessi vitali e culturali.
In tal senso è stato usato anche dal Beato Giovanni Paolo II, il quale ha voluto sostenere la necessità di accompagnare una visione della realtà che unisca “antropocentrismo” a “teocentrismo”, facendo arricciare il naso a certi cattolici amanti della precisione del linguaggio, dote che spesso si accompagna con le dovute distinzioni concettuali ed i pregi incomparabili della sana dottrina. Ma non credo che possiamo dubitare, a riguardo di ciò, di un Maestro della fede come Giovanni Paolo II. Penso però che ci sia concesso avere qualche riserva sul linguaggio.
Infatti, volendo essere rigorosi da un punto di vista filosofico e metafisico, bisogna dire con chiarezza che il centro del reale è uno solo: Dio. Porre due centri, propriamente parlando, sarebbe come porre due assoluti, cosa metafisicamente e teologicamente impossibile. Dal punto di vista morale verrebbero fuori i famosi “due padroni” dai quali ci distoglie Cristo nel Vangelo, e questa, ahimè, è purtroppo una cosa possibile, passibile di punizione divina, ciò che in morale si chiama “doppiezza” e nel linguaggio più corrente, “doppio gioco”, la dote dei furbi e di coloro che si studiano di restare sempre a galla.
Ora indubbiamente sarà ben lontano dalla nostra mente anche solo sospettare che un santo come Papa Wojtyla possa aver ceduto anche in minima parte a un vizio così grave ed odioso. Resta però a mio avviso l’infelicità per non dire la sconvenienza del suo modo di esprimersi, che può dar luogo a pericolosi equivoci, giacchè per la verità, il palleggiarsi la realtà tra l’uomo e Dio, quasi fossero due assoluti o due chances che ci consentano ad arbitrio di passar dall’uno all’altro, secondo le convenienze e i nostri gusti, è purtroppo un vizio anche troppo frequente nell’incoerenza e mancanza di linearità nella nostra condotta morale.
L’antropocentrismo, nel suo significato proprio, ormai consacrato dagli studiosi, è per la verità quella tendenza culturale e morale i cui primordi sono segnalati dal sorgere dell’Umanesimo italiano del sec.XV, il cui emblema principale e più noto è il trattatello di Giovanni Pico della Mirandola “de dignitate hominis”, conosciuto anche dai ragazzi del liceo. Certamente Pico era cattolico e per la precisione terziario domenicano, probabilmente mosso dalle migliori intenzioni, anche se forse, conscio delle sue prodigiose qualità intellettuali, non privo di una punta di vanità.
Anche gli studenti del liceo sanno come il Quattrocento italiano registri un rinato interesse per il mondo e per la letteratura classica pagana, inizialmente affiancata a quella cristiana, antica ormai di quindici secoli, una letteratura che del resto, nei suoi documenti migliori, era già stata cristianizzata dalle precedenti generazioni medioevali. E tuttavia rispuntano tendenze religiose e filosofiche, poco compatibili col cristianesimo, soprattutto di tendenza neoplatonica – pensiamo a Marsilio Ficino – o addirittura materialista – pensiamo a Bernardino Telesio, oppure pensiamo al cinismo politico di un Niccolò Machiavelli, fenomeni che non possono non destare qualche preoccupazione. Non manca anche il diffondersi della kabbala ebraica e l’interesse per la magia, tutte tendenze che in modi seppure diversi testimoniano di un’esaltazione esagerata del potere e dell’intelligenza dell’uomo sia nella vita personale che in quella sociale.
Questo ritorno di paganesimo avviene per lo più per mezzo della seduzione dell’arte che come è noto raggiunge in questo periodo livelli di elevatissima qualità. Il grande Savonarola invano tentò di opporsi a questo movimento salvando la bellezza dell’arte, mentre si opponeva all’avanzata della superbia, dell’avarizia e della lussuria.
E’ altrettanto noto agli storici come al fenomeno dell’Umanesimo succede quello del Rinascimento, nel quale l’antropocentrismo, ossia il porre l’uomo troppo al centro, a scapito del primato di Dio, si accentua progressivamente col sorgere di altri pensatori e letterati che non sto qui ad elencare. E’ vero che nel sec.XVI abbiamo la reazione luterana, che sembra un forte richiamo alla fede, alla grazia e alla Scrittura contro le tendenze dell’uomo carnale ed orgoglioso che si vanta delle proprie opere e che glorifica se stesso davanti a Dio.
Ma è stato notato anche come pure Lutero sotto la scorza di una focosa ed intemperante religiosità, nasconda un io orgoglioso e ribelle, tanto che è a questo io “assoluto”, come avrebbe detto Fichte tre secoli dopo, che Lutero deve la sua sciagurata separazione da Roma. All’io di Lutero seguirà poi l’io di Cartesio. Se il primo io pretendeva dettar legge nel campo della fede, l’io cartesiano pretenderà esser l’origine prima della razionalità. E quanti seguaci si metteranno alla scuola di questi che sono considerati da molti i fondatori del pensiero moderno, benchè, se Cartesio intendeva rinnovare, Lutero volesse riattingere alle origini del cristianesimo.
Gia S.Agostino aveva visto che l’uomo ha due strade davanti a sé: quella dell’amor sui che conduce al contemptus Dei e quella dell’amor Dei che conduce al contemptus sui. Con Lutero e Cartesio sorge una “modernità” che imbocca la prima strada ed abbandona la seconda. Il secolo XX vede il tragico sbocco di questa strada: la seconda guerra mondiale.
Indubbiamente non è la modernità come tale che è in causa, ma è la modernità così come è stata concepita dai seguaci di quei due riformatori. La vera modernità non contiene solo errori ed orrori, ma anche valori. La Chiesa cattolica non ha abbandonato la seconda via, alla scuola della Scrittura, della Tradizione, dei Concili, dei Padri, dei Dottori, dei santi e dei buoni teologi, ed anche oggi essa resta, secondo la promessa di Cristo, “luce del mondo” e “sale della terra”.
Veniamo ora al Concilio Vaticano II. Possiamo, alla luce di questa definizione dell’antropocentrismo, accusarlo di essersi pure lui lasciato sedurre dall’antropocentrismo? Rispondo con estrema decisione: assolutamente no. E’ un fatto ed è un’impossibilità. E’ un fatto, perché basta un’attenta, benevola e spassionata lettura dei testi e dell’interpretazione che la Chiesa ne ha dato, per rendersene conto. E’ un’impossibilità, almeno per il cattolico, perché, se effettivamente ci fosse dell’antropocentrismo, che è gravissimo errore, sarebbe come se il Magistero della Chiesa col Concilio avesse perso quell’assistenza dello Spirito di verità che invece Cristo le ha assicurato per tutti i secoli sino alla fine del mondo.
Indubbiamente, come ebbe a dire Paolo VI, “una corrente di affetto e di ammirazione si è riversata dal Concilio sul mondo umano moderno. … Messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo contemporaneo: i suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati, i suoi sforzi sostenuti, e le sue aspirazioni purificate e benedette” (Discorso di chiusura del Concilio del 7 dicembre 1965).
Ma se anche il Concilio fosse affetto da antropocentrismo, sarebbe come se la medicina che deve curare il male, fosse essa stessa avvelenata da quel male. Cristo col Concilio ci propinerebbe, invece della medicina, un’ulteriore dose di veleno. Invece la medicina conciliare purifica la modernità dai suoi veleni e ci dona una modernità pura e sana, perfettamente conforme al Vangelo, animata dal Vangelo ed aperta al Vangelo.
Dunque a proposito del Concilio io non parlerei di antropocentrismo, per quanto prendiamo quest’espressione in un senso attenuato, ma parlerei semmai di “umanesimo dell’Incarnazione” o di “umanesimo integrale”, secondo l’espressione del Maritain: un umanesimo per il quale l’uomo resta creatura, resta immagine di Dio, certo con la sua grandezza, ma anche con i suoi limiti e le miserie derivanti dal peccato originale e dai peccati personali, uomo al quale tuttavia viene offerta la luce di Cristo, “uomo perfetto”, che “svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” e la grazia di Cristo, che innalza l’uomo “ad una dignità sublime”, per cui “con l’Incarnazione il Figlio di Dio si è in certo modo unito a ogni uomo” (Gaudium et Spes, n.22). Così la grandezza dell’uomo, immagine di Dio, comporta che l’uomo “in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” (n.24).
Il Beato Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor Hominis del 1979 riprende con calore e sviluppa questi concetti, lasciando sospettare che il dettato conciliare in merito conservi un’impronta del suo contributo, che sappiamo esser stato ingente (nn.8,10). Si insiste sul fatto che l’opera redentiva fa conoscere a fondo le ricchezze della dignità umana e conduce l’uomo al massimo della sua perfezione.
Una verità certo sacrosanta. E tuttavia alcuni hanno osservato che se non troviamo l’antropocentrismo nato dal Rinascimento ed oggi rappresentato dal rahnerismo (la cosiddetta “svolta antropologica”), è possibile notare in queste entusiasmanti considerazioni sulla dignità umana del cristiano, sull’armonia fra umanesimo e cristianesimo e sul cristiano maestro di umanità, l’assenza della tematica della figliolanza divina del cristiano, come piano di vita divina e soprannaturale, del tutto al di sopra delle aspirazioni anche più belle dell’uomo, frutto di una purissima liberalità divina, di un Dio non solo misericordioso che salva dal peccato, ma anche di un Dio generoso che vuol renderci partecipi della sua stessa vita intima trinitaria, al di là di una felicità semplicemente naturale, che pure avrebbe soddisfatto in pienezza i desideri e i bisogni dell’uomo senza che egli come uomo avesse altro da desiderare naturalmente.
Indubbiamente l’assenza di tutto ciò desta un po’ di meraviglia e ci potremmo anche chiedere perché il Papa non ha voluto ricordare queste verità cristiane fondamentali, che danno al cristianesimo la sua inconfondibile originalità, giacchè dopo tutto il desiderio e la volontà di essere perfetti in umanità è radicato naturalmente nel cuore di ogni uomo in quanto uomo o essere ragionevole.
La risposta alla suddetta domanda può esser data da una preoccupazione pedagogica del Papa. In questo documento iniziale del suo ministero pontificio egli probabilmente ha voluto iniziare con la proposta di un ideale, quello umanistico, che poteva costituire una base di dialogo con tutti gli uomini, riservandosi di toccare i temi più alti e più specifici del cristianesimo nelle tappe successive del suo ministero, cosa che egli effettivamente ha fatto, per esempio con le sue encicliche Salvifici doloris o Dominum et vivificantem o Veritatis splendor o Fides et Ratio.
Resta comunque che il desiderio e la possibilità di essere figli di Dio, ad immagine di Cristo, mossi dallo Spirito Santo, è caratteristica esclusiva di chi è toccato dalla grazia di Cristo, grazia la quale, quindi, secondo il linguaggio tradizionale della teologia, non è solo grazia sanante, salvifica, perdonante, perfezionante o liberante, ma anche grazia elevante in ordine alla dignità di figli. Non solo grazia umanizzante, ma anche divinizzante. E tra l’umano e il divino c’è un bel salto. Il discorso del Papa sembra pertanto sminuire la portata e l’ideale della vita cristiana.
Infatti il cristianesimo, visto nella pienezza della sua divina prospettiva, appare non solo come un umanesimo, ma anche e soprattutto una vita da figli di Dio, una vita infinitamente superiore alla semplice vita umana, per quanto virtuosa e perfetta e sanata dalla grazia del perdono. Questa visione fa sì che nel cristianesimo il fine dell’uomo sia duplice: un fine ultimo naturale in quanto uomo e un fine ultimo soprannaturale (la visione beatifica della SS.Trinità), in quanto cristiano e figlio di Dio.
Inoltre ciò comporta la distinzione tra le virtù umane o morali, che il cristiano condivide con i non credenti e le virtù cristiane o teologali (fede, speranza e carità), che gli appartengono in proprio. Ciò inoltre comporta un’ulteriore responsabilità nel cristiano per quanto riguarda la diffusione del Vangelo: il dovere di educare umanamente i suoi simili – quella che Paolo VI chiamava “promozione umana” – in vista poi di introdurli sul sentiero della santità, alla superiore vita dei figli di Dio come membri della Chiesa.
Questa insistenza un po’ unilaterale sulla finalità umana del cristianesimo, per quanto si tratti di verità indiscutibili e di fede, può dar l’impressione, negli insegnamenti conciliari, di una certa eccessiva insistenza sull’umano a scapito dell’aspetto soprannaturale. Ma questa impressione viene fugata se noi contestualizziamo questi passi nell’insieme degli insegnamenti conciliari, collegando questi passi con quelli – e sono molti – che invece sviluppano il discorso attinente alla vita di grazia, alle virtù cristiane, agli stati di vita, ai sacramenti, ai carismi dello Spirito Santo, alla vita ecclesiale, alla santità ed alla prospettiva della vita futura.