di P.Giovanni Cavalcoli,OP
La recente discussione sviluppatasi nei media circa la questione dei castighi divini pone in gioco un’enorme ricchezza di temi che ci toccano tutti da vicino e soprattutto costituiscono una sfida ed un invito per noi cattolici a manifestare le nostre convinzioni di uomini e di credenti con spirito di servizio, modestia ma anche coraggio, in assoluta fedeltà, su temi di tale importanza, al sacro deposito della fede cattolica, così come risulta dagli insegnamenti della Scrittura e della Tradizione, nell’interpretazione del Magistero della Chiesa, che trova oggi un’espressione autorevole ed ufficiale nel Catechismo della Chiesa cattolica ed in particolare nei recenti documenti del Magistero pontificio.
A tal riguardo, mi si consenta di tornare ancora sull’omelia del Padre Cantalamessa da lui tenuta lo scorso Venerdì Santo, per suggerire ulteriori considerazioni che penso siano utili al lettore, il tutto da intendersi non per accanimento polemico, ma semplicemente per chiarire concetti, la cui attendibilità dal punto di vista della dottrina della fede chiunque può verificare facendo capo ai testi ufficiali, con il che non escludo naturalmente la mia fallibilità nella interpretazione dei medesimi testi, per il che chiedo venia in anticipo al lettore, e sono disposto a rivedere le mie concezioni.
Vorrei concentrare l’attenzione soltanto su questo periodo centrale del discorso del Padre Cantalamessa: “Non si può dire che «la domanda di Giobbe è rimasta inevasa», che neppure la fede cristiana ha una risposta da dare al dolore umano, se in partenza si rifiuta la risposta che essa dice di avere. Cosa si fa per assicurare qualcuno che una certa bevanda non contiene veleno? La si beve prima di lui, davanti a lui! Così ha fatto Dio con gli uomini. Egli ha bevuto il calice amaro della passione. Non può essere dunque avvelenato il dolore umano, non può essere solo negatività, perdita, assurdo, se Dio stesso ha scelto di assaporarlo. In fondo al calice ci deve essere una perla”.
Osservo col dire che limitarsi a dire che il cristianesimo ci insegna che la sofferenza è una cosa buona perché Dio l’ha fatta sua, negando – come il Padre fa in altra parte del suo discorso – che le sventure possano essere castighi di Dio, non ci porta forse a concepire la sofferenza come qualcosa di separato dal peccato e come qualcosa di divino?
Certo come cristiani, quando Dio ci manda una sofferenza, diciamo che ci ama. Ma se non precisiamo che la sofferenza ha un legame con la giustizia prima che averlo con l’amore, non rischiamo di giungere alla conclusione spaventosa che amare vuol dire far soffrire? Ma allora dove va a finire la bontà di Dio? Non giungiamo a dire che il peccato non ha conseguenze e che la sofferenza viene da Dio?
Notiamo allora che una maniera sbagliata di presentare la bontà di Dio ottiene l’effetto esattamente contrario di concepire un Dio che prova gusto nel farci soffrire col darci ad intendere che la sofferenza è cosa “buona”. A tale punto di stoltezza giunge oggi il fideismo buonista, per il quale il Dio “buono” è il Dio che non castiga, perché il castigare è cattiveria, ingiustizia e mancanza di misericordia, dimenticando che se Dio non fa misericordia, ciò non dipende da Lui – infinita Misericordia -, ma dall’impenitenza del peccatore, il quale pertanto resta sotto il peso del giusto castigo divino.
Questa visione sbagliata della bontà di Dio, che purtroppo può emergere dalle parole dell’illustre Predicatore francescano, combaciano bene con l’altra stoltezza pronunciata di recente da Massimo Cacciari in un pubblico dibattito, allorchè, alla presenza di un vescovo compiacente del quale non faccio il nome, ha riesumato con quel tono oracolare che lo caratterizza la vecchia eresia di Marcione, che vedeva nell’Antico Testamento un Dio di “giustizia” da respingere (con ciò tra l’altro offendendo il Popolo dell’Antica Alleanza), mentre nel Nuovo Testamento ci sarebbe solo il Dio cristiano della “misericordia”, tutto dolcezza, perdono e tenerezza, tranne poi il permettere i vari tsunami e le stragi staliniste o lo sterminio degli Ebrei.
Siamo completamente fuori strada ed io mi domando per quale motivo un qualunque Massimo Cacciari dovrebbe stabilire in ultima istanza la dottrina cattolica al di sopra e contro quanto da duemila anni insegna la Chiesa.
Dobbiamo ricordare invece, come hanno fatto sempre tutti i grandi apostoli ed evangelizzatori, vescovi, teologi o predicatori, che la dottrina cattolica, nei suoi aspetti più paradossali, va proposta con saggezza e con quelle mediazioni razionali che essa stessa ci offre, per non ottenere risultati opposti a quelli che essa si aspetta, ossia l’accettazione da parte dell’uomo ragionevole.
Ora la concezione cattolica del dolore è appunto uno di quei temi che più di altri – data la sua delicatezza -, per poter essere accolto dagli uomini di buona volontà, ha bisogno di essere introdotto e spiegato con la tematica della giustizia, valore, questo, proporzionato anche alla mente sana del non credente. Il che conduce inevitabilmente al concetto del “castigo divino”. Infatti giustizia vuole che il peccato sia punito.
Se io non do mostra all’evangelizzando del mio amore per la giustizia – premi e castighi dovuti alla libera scelta della creatura – e gli sbatto subito in faccia il sacro Mistero della Croce, mostro di essere uno spregiatore della Croce e un irresponsabile che finisce per turbare la buona volontà di chi mi sta di fronte e portarlo a bestemmiare Dio.
E’ la giustizia umana che è fallibile, non certo quella divina. E se Dio permette gli errori della giustizia umana, anche questi patimenti per chi ne è vittima devono comunque essere ricondotti se non a colpe personali, comunque alle conseguenze del peccato originale.
E’ vero che anche la dottrina del peccato originale è di fede, ma anche i saggi pagani in oriente ed occidente avevano comunque compreso che le disgrazie di questa vita non possono essere addebitate alla divinità, ma devono essere la conseguenza di una caduta originaria dell’umanità da uno stato iniziale di perfezione e felicità, mentre compito della divinità, giusta e clemente, è quello di purificarci ed aiutarci a tornare alla felicità originaria.
Se questo lo avevano capito i pagani, noi, dopo duemila anni di cristianesimo – noi teologi del postconcilio – vogliamo tornare ad uno stato barbarico precedente quello di questi stessi saggi? La stessa dottrina della reincarnazione e in particolare del karma, per quanto errata in relazione all’origine dell’individuo, ha qualcosa di vero riconducendo le disgrazie alla precedente esistenza della specie umana.
In realtà l’insegnamento della Scrittura e della Chiesa sulla sofferenza è ben più ampio e illuminante della sola per quanto fondamentale dottrina secondo la quale Dio fa soffrire coloro che ama. Se ci fermiamo a questo e non vediamo che il male è conseguenza del peccato, viene fuori un Dio ingiusto dal volto mostruoso, mentre il peccatore appare non responsabile della sofferenza che patisce.
Il buon teologo o predicatore, specie se è confessore o guida di anime, deve conoscere alla perfezione tutta la sottile e delicata intelaiatura concettuale della dottrina cattolica circa la sofferenza, e proporla con gradualità, somma carità e prudenza – questo vuol dire essere il buon samaritano -, così come un abile chirurgo conosce alla perfezione tutte le operazioni che deve compiere per guarire il malato, e non deve passeggiare come un elefante in un negozio di cristalli o dar sfoggio della sua dialettica per far vedere quanto è bravo o rifugiarsi nel “mistero” per nascondere la sua ignoranza della teologia.
Occorre pertanto ricordare che il concepire la pena come castigo del peccato risponde ad un normale, istintivo ed universale senso di giustizia che è patrimonio anche dei non-credenti onesti, e per questo non deve assolutamente scandalizzare l’idea di un Dio che punisce o della sventura come punizione del peccato. Infatti la punizione non è malvagità, ma giustizia e Dio è sommamente giusto.
Indubbiamente il cristianesimo non si ferma qui, ma parte da qui e non può ignorare questo elementare attuarsi della divina giustizia. Che essa poi venga superata dalla misericordia, dall’amore e dal perdono, è vero: ma questo fatto stupendo e misterioso sarebbe impossibile e non avrebbe senso, anzi avrebbe il volto della tragica presa in giro, se non avvenisse nel presupposto della realizzazione della giustizia divina con l’annessa opera della Redenzione di Cristo, alla quale pure noi in Cristo siamo chiamati.
Dio, al seguito del peccato originale, poteva, se l’avesse voluto, perdonare istantaneamente tutta l’umanità. Se non l’ha fatto, è perché ha voluto dar corso alla sua giustizia, per dar poi modo all’uomo, in Cristo, di riparare il male fatto e diventare addirittura figlio di Dio.
C’è inoltre da notare che l’amore come tale non è di per sé affatto unito alla sofferenza. L’amore non fa soffrire, ma semmai soffre per la persona amata. Ed anche questo soffrire per la persona amata non è essenziale all’amore, ma suppone situazioni di emergenza che richiedono la rinuncia o il sacrificio per la persona amata. In paradiso, dove c’è la perfezione dell’amore, non c’è nessuna sofferenza.
Per questo Dio, che è Amore infinito, beatissimo, benevolissimo e sussistente, non soffre affatto. Ha sofferto certo Gesù, ma come uomo, per espiare le nostre colpe. Per questo egli dice che non c’è più grande amore che dare la propria vita per gli amici. Ma è l’uomo Gesù che si è sacrificato per noi, non la sua divinità, cosa assolutamente priva di senso ed anzi blasfema. La divinità, proprio per la sua impassibilità e potenza benefica, dà invece significato e forza espiatrice e salvifica alle sofferenze di Cristo e in Lui alle nostre.
L’amore sofferente sull’esempio di Cristo, l’Innocente che non merita il castigo eppure si prende sulle sue spalle i castighi da noi meritati, per ottenerci perdono e salvezza, questa concezione sublime dell’amore è tuttavia una nozione rivelata e soprannaturale, che suppone e non distrugge la normale e naturale nozione dell’amore, che di per sé è legata solo al bene ed alla gioia e niente affatto al dolore o alla sventura.
Inoltre, già a livello naturale e razionale, l’amore non può ignorare la giustizia, che comporta la punizione del peccatore e il premio al virtuoso. Ma anche la giustizia si fonda sull’amore e sulla bontà. Perdere queste nozioni fondamentali della saggezza naturale di tutti i popoli in nome di una concezione morbosa e malsana dell’amore fatta passare per cristiana è il modo migliore per squalificare il cristianesimo agli occhi delle persone oneste e psichicamente normali.
L’impressionante, irrazionale e scomposto ribollimento di polemiche, di bestemmie e di insulti che ha fatto seguito all’ormai famoso intervento del coraggioso e saggio De Mattei, con l’aggiunta scandalosa di attacchi contro di lui addirittura dal mondo cattolico, senza l’intervento di significative confutazioni da parte degli ambienti dell’episcopato, dimostra lo stato di gravissima crisi di fede nella quale si dibatte oggi il mondo cattolico, senza che di tale crisi pare ci si renda conto, riempiendosi la bocca di parole come “evangelizzazione”, “dialogo”, “missione”, “testimonianza”, “solidarietà”, “giustizia e pace”, “rinnovamento conciliare”, quando poi alla prova dei fatti emergono spaventose lacune o grossolana e spocchiosa ignoranza dei valori fondamentali del cristianesimo.
Cominciamo col metter a posto le cose in casa nostra e poi potremo avere la faccia di presentarci al mondo con un minimo di dignità e credibilità, senza adulazioni, senza opportunistici accomodamenti e senza paure, se non vogliamo fare del cristianesimo lo zimbello delle persone intelligenti e la cassa di risonanza del fallimento dell’uomo.
Bologna, 3 maggio 2011