L’immagine è più che suggestiva: appartiene a due storie che si erano incontrate, intrecciate e che indissolubilmente si sono proposte all’attenzione degli uomini di buona volontà, di ieri, di oggi, e che continueranno a proporsi agli uomini di buona volontà di domani. Per non dire che appartiene alla nostra storia: religiosa, civile, militare. Ci riferiamo a quella scena nel funerale di don Carlo Gnocchi (1 marzo 1956), in cui si vedono alcuni “mutilatini” dell’Opera da lui fondata, portati sulle spalle di robusti uomini… I “suoi mutilatini”, i “suoi alpini”.
Questa immagine, commovente, oggi, come commossi erano i protagonisti di quel lontano giorno, ci è apparsa in tutta la sua grandezza, leggendo un libro che sarebbe da diffondere nelle scuole, se già a livello di “pubblica istruzione” non dilagassero opere tendenziose, quando non immorali. Un’opera che fin dal titolo dice tutto: Alpini di Dio, a cura di monsignor Angelo Bazzari (AA. VV. – Mursia editore, in collaborazione con l’Ana; pagine 132; Euro 14,00). Si tratta infatti, come recita il sottotitolo, dei Beati con la Penna Nera. Fratel Luigi Bordino, don Carlo Gnocchi, Teresio Olivelli, don Secondo Pollo (in stretto ordine alfabetico), e non poteva esserci ricorrenza migliore per la pubblicazione di fine 2019, n el centenario della costituzione dell’Ana.
Ma c’è una premessa da fare, seguendo una sorta di (opportuna) precisazione del presidente nazionale del sodalizio delle Penne Nere Sebastiano Favero nella presentazione dell’opera: “… i nostri beati appartengono a tutti”.
Favero ha ben presente quanto gli disse una volta un amico prete “di una certa età” e ne trae, per così dire, le conseguenze: “… quanto orizzonte cristiano si nasconda nell’esperienza e nel sentire di un alpino”.
Di quelle “Quattro vite straordinarie, un’unica luce”, scrive poi l’ordinario militare Santo Marcianò, quindi monsignor Bazzari, presidente onorario della Fondazione don Gnocchi, non manca di osservare, nella Introduzione, che “Al lettore attento si consegnano pagine di storia di vita vissuta, non da leggere frettolosamente, ma viene proposta una specie di piccola ‘bibbia dell’alpino’ da meditare, un archivio di vite straordinarie e singolari da onorare incessantemente e da imitare coerentemente”. Per cui, non è certamente esagerato che vengano definiti, questi quattro beati, “soldati della bontà”.
Di Luigi (al secolo, Andrea 1922-1977) Bordino, piemontese, scrive il confratello laico Roberto Colico, sottolineandone l’estrema disponibilità nei confronti del prossimo bisognoso, sofferente, e la profonda fede. Campagna di Russia, nella Cuneense insieme al fratello maggiore Risbaldo, una dolorosissima prigionia, in cui, pur sfinito nel corpo, seppe dare soccorso, consolazione, a tanti sventurati: “… si adoperava affinché malati e moribondi non si sentissero abbandonati. Li confortava con parole di fede”. E l’impegno eroico dimostrato nei gulag sovietici non sarebbe finito una volta tornato in patria, proseguendo invece per ben trent’anni (“epopea di carità, silenziosa e totale, quotidianamente vissuta”) al Cottolengo di Torino.
Il capitolo dedicato a don Gnocchi (“Il principe dei cappellani alpini” – 1902-1956) è scritto da Emanuele Brambilla, e l’incipit attinge alla memoria di un altro cappellano sul fronte russo: don Aldo del Monte (nel dopoguerra vescovo di Novara) che trovò nel confratello la forza della fede, per lui ridotta in quei frangenti al lumicino, per resistere e proseguire.
La vicenda di don Gnocchi, della Tridentina, è nota non soltanto nell’ambiente delle Penne Nere, ma più in generale in quello del volontariato, dell’assistenza e della cura degli ultimi, che dopo gli alpini al fronte e nella ritirata, furono i bambini colpiti dalla guerra, mutilati, orfani, soli, da lui raccolti e assistiti in quella Milano dilaniata di guerra e di dopoguerra.
Scrive il biografo che “non si capisce don Gnocchi padre dei mutilatini se non lo si comprende nel suo ruolo di cappellano di migliaia di giovani alpini mandati al massacro. ‘ Sento che io non devo farmi assente in quest’ora tragica, là dove più acuta maturerà la crisi spirituale della guerra, per la fecondità a venire del mio ministero e per l’uso sempre più generoso della mia vita al servizio del Signore…’”. Ministero, servizio del Signore… espressioni ancora d’attualità in una società in parte scristianizzata? Meditate, gente, meditate.
Fra le ultime volontà comunicate da don Gnocchi agli intimi, un anno prima di morire, e confermate negli ultimi giorni, quella della donazione delle cornee a due suoi ragazzi ciechi. Ne beneficiarono Amabile Battistella e Silvio Colagrande. Non esisteva allora alcuna norma di legge in materia di trapianti di organi. Un commento pubblico altamente positivo quel gesto venne da Pio XII. Ne nacque un dibattito, coi pro e i contro… Ma undici anni dopo, nel 1967, ecco una norma di legge in materia. Don Carlo ne era stato antesignano con quell’ultimo eroico gesto.
È pure molto conosciuta la vicenda di Teresio Olivelli, di Vigevano (1916–1945), “ribelle per amore”, che partì per il fronte russo, rinunciando al rinvio del servizio militare cui pure avrebbe avuto diritto in quanto studente universitario. Luisa Bove ne descrive nel dettaglio, per così dire, la testimonianza di fede, l’eroismo della carità nella ritirata, poi la sottolineatura dell’azione compiuta nei confronti dei familiari di suoi alpini una volta tornato a baita, ai quali scrisse, da esemplare comandante di reparto. All’indomani dell’8 settembre 1943, la cattura da parte dei tedeschi, i tentativi di fuga, uno riuscito, quindi la partecipazione alla resistenza, la redazione di un giornale, “il Ribelle”, poi, di nuovo la cattura, la detenzione nel carcere di San Vittore: interrogatori, torture, infine la deportazione nel campo di concentramento di Fossoli, e il trasferimento a Flossenbuerg -sempre aiutando gli altri, donando: parte della razione di cibo, buone parole, incoraggiamenti. “La sua è una vita spesa solo per gli altri” – nota la biografa, perché “per sé non riserva nulla. I gesti di carità sono mal sopportati dalle SS del lager e alla fine puniscono Olivelli togliendogli l’incarico di interprete e mandandolo a spingere carrelli in salita nelle cave a 8 chilometri di distanza […]. Il 25 dicembre il rancio è ricco: ognuno riceve ben cinque patate. Teresio ne dona quattro ai compagni come ‘regalo di Natale’ e poi si reca di nascosto in infermeria per portare un po’ di conforto ai ricoverati. Quando esce viene picchiato per l’ennesima volta”.
E si arriva all’epilogo, pochi giorni dopo. Seguiamo sempre la biografa: “Un capo blocco polacco accusa un prigioniero ucraino di aver rubato a un compagno un pezzo di pane e così si scaraventa sul ‘ladro’ e inizia a colpirlo. Interviene in sua difesa Teresio che si frappone e fa da scudo guadagnandosi un potente calcio al basso ventre; per la prima volta da quando viene picchiato e torturato, caccia un urlo sovrumano, cade a terra e sviene”… Il colpo terribile si rivelerà fatale. Pochi giorni di agonia, e la notte fra il 16 e il 17 gennaio 1945, la morte. Il corpo venne cremato. Se non ebbe cristiana sepoltura, rappresentò, comunque, da allora, una “vera icona di un amore incondizionato verso tutti e del dono di sé senza riserve”.
Da ultimo, in ordine alfabetico, ma fu il primo dei beati alpini a morire, don Secondo Pollo, vercellese, “amico e padre degli alpini” (1908-1941), di cui riferisce monsignor Giuseppe Cavallone.
Cappellano del battaglione Val Chisone, don Secondo è in Montenegro. La cura che in tempo di pace aveva dedicato ai giovani, prosegue nell’assistenza agli alpini al fronte. Durante un’avanzata, un urlo: “Mama, j’han ciarpam!” (Mamma, mi hanno colpito!). Don Pollo, senza esitare, corre in soccorso del ferito, ma dopo pochi metri, una raffica di mitragliatrice lo raggiunge alle gambe. Il caporale Giovanni Sorba racconterà in seguito, che in una pausa del combattimento, scorse il cappellano appoggiato a una roccia. “Era pallidissimo, gli corsi vicino e gli domandai: ‘Don Pollo, ma non sta bene?’. Lui rispose: ‘Guarda gli altri, stanno peggio di me!’…“. Così avvenne. Sorba gli tornò poi accanto, accorgendosi che aveva le gambe insanguinate, quasi staccate. Il sacerdote chiese che venisse avvertito il confratello del Val d’Orco e quando questi sopraggiunse, gli consegnò la teca con le ostie consacrate e l’ampolla con l’Olio santo. Altri alpini nel frattempo accorsero, chiamandolo per nome. “Lui rivolse gli occhi al cielo, tracciò con la mano il segno di croce e disse ancora: ‘Benedico il mio battaglione Val Chisone’. Qualcuno lo sentì ancora sussurrare: ‘Vado a Dio che è tanto buono!’. Reclinò il capo e morì”.
Quattro alpini, due sacerdoti, un religioso, fratello del Cottolengo, e un laico, morti pe cause e circostanze diverse, ma tutti animati da una profonda fede, praticata, vissuta, tutti dediti (pronti) al sacrificio per gli altri: per amor di Dio. Erano alpini, allora, adesso sono santi!
1 commento su “Alpini di Dio”
Bellissimo articolo. Mi permetto di consigliare il libro “Dalla Siberia al Cottolengo” di Domenico Carena: è la biografia del beato fratel Luigi della Consolata, al secolo Andrea Bordino.