Filosofia del senso comune
di Piero Vassallo
Esentato dall’obbligo di giustificare le sue opinioni, il rumoroso e funambolico circo dei predicatori atei, diffonde la notizia che, dopo Cartesio e Kant, la ragione si è separata per sempre dal senso comune, che postula l’esistenza di Dio.
Contenitore babilonese dei pensieri rottamati dalla storia, la scolastica circense, è rappresentata nell’Italia televedente da alcuni incensati santoni (Cacciari, Vattimo, Severino, Calasso, Eco, Augias, Odifreddi, Flores d’Arcais, Scalfari, Hack) che affermano l’irreversibilità dell’opzione ateista, mentre omettono di esporre le contraddizioni del cogito e le macchinose cineserie della critica kantiana.
Margherita Hack, ad esempio, si spinge al punto di esibire, quale giustificazione dell’ateismo, la curiosa tesi secondo cui l’esistenza di Dio è un’opinione impressa nel cervello di tutti gli uomini. La celebre scienziata non dice chi è l’autore dell’ingannevole impressione, ma lascia immaginare che si tratti della natura, la crudele matrigna di leopardiana memoria.
I circensi, inoltre, evitano, con somma cura, di rammentare gli argomenti degli autori cristiani, che hanno piantato la scure del senso comune sulle radici dell’apostasia filosofante.
Pilastri delle filosofie dopo Cartesio e Kant sono la sistematica svalutazione dell’essere, la censura delle verità inscritte nelle cose visibili ossia la sconfessione dell’esperienza sensibile.
Un umorista potrebbe perfino tentare l’istituzione di un parallelo tra la filosofia circense e la tesi surreale esposta da Pedro Calderon de la Barca nel dramma La vita è sogno.
Il pregiudizio antimetafisico, infatti, esige che alcuni concetti (il tempo, lo spazio ecc.) non facciano parte della realtà e perciò non siano deducibili dall’osservazione. Un piccolo passo avanti e anche l’io umano è elevato alla sfera onirica, ai vagabondaggi pirandelliani tra l’esser niente e l’essere dissolto tra la folla anonima.
Gli atei d’oggi, per poter sbandierare ancora le screditate conoscenze a priori, sono costretti a calpestare alcune verità a tutti evidenti, ossia: il pensiero è sempre pensiero di qualcosa (“nihil est in intellectu quin prius fuerit in sensu”) e la dipendenza del pensiero dall’essere (”Non est verum quod intelligere sit nobilius quam esse; sed determinatur ab esse, immo sic esse est eo nobilius”) [1].
Se non che la precipitosa fuga dal reale dei filosofi dopo Cartesio e Kant ha trascinato il pensiero dei non credenti in faccia al dilemma che contempla la presunta onnipotenza del pensiero ma anche il suo fatale rovesciamento nella disperazione.
A sinistra si stendono le desertificate pianure dell’idealismo, dove la macchina hegeliana, prima di smarrirsi nel Gulag, elevava il pensiero al di sopra dell’essere, attribuendo alla mente umana il potere di generare ciò che il criticismo vietava di contemplare.
L’innalzamento del pensiero sopra l’essere è un’operazione che presume un’assurda collocazione dell’uomo nel punto di vista dell’Assoluto: lo fa osservare sagacemente Francesco Arzillo, attento studioso della filosofia del senso comune [2].
Al proposito conviene rammentare che, già negli anni Trenta del secolo sterminato, il sovietico Alexandr Kojève aveva dimostrato che la filosofia di Hegel è orientata al sovvertimento della teologia e al nichilismo, se non a un vera e propria thanatofilia.
A destra si profila invece l’ingorda corsia del relativismo, che il delirio superumano di Nietzsche ha indirizzato al traguardo nichilista-decreazionista, ossia al leopardiano abisso orrido immenso celebrato da Roberto Calasso e da Eugenio Scalfari.
L’involuzione neopagana della modernità era in atto nel laboratorio della sinistra francofortese, dove Walter Benjamin provvedeva alla traduzione della dialettica marxista in una gnosi dualistica, disposta ad accogliere perfino l’odio nazista contro il Dio dell’Antico Testamento.
Negli anni Quaranta del XX secolo la degenerazione dell’idealismo di destra e di sinistra offriva alla filosofia cattolica l’occasione di un’inattesa e strabiliante rivincita.
Purtroppo alcuni precursori e suggeritori del Concilio ecumenico Vaticano II credettero fosse in atto l’autocritica e l’avvicinamento del pensiero moderno al Cristianesimo.
Di qui una stagione intitolata ai complessi di inferiorità del clero e all’imitazione o al compromesso con l’agonizzante mondo comunista, reputato vincitore immancabile.
L’urgenza di uscire dalla subordinazione anacronistica alla screditata ideologia, oggi pone la necessità impellente di ricondurre il pensiero cattolico al reale e consiglia di affidare la guida dell’esodo dalla rovina moderna a un pensatore di alto profilo scientifico e di carattere temprato dall’esperienza anticonformista.
Tale è senza dubbio Antonio Livi, il legittimo erede della grande e sottovalutata tradizione degli oppositori al razionalismo, Blaise Pascal, Claude Buffier, Giambattista Vico, Thomas Reid, ed Etienne Gilson.
Livi, infatti, ha interpretato in modo geniale la profonda aspirazione dei cattolici postmoderni, refrattari alla subordinazione al c. d. “moderno”, costruendo una filosofia capace di attualizzare e approfondire la metafisica tradizionale, prima di lanciarla al sorpasso delle aporie cartesiane, kantiane, hegeliane e nicciane.
Nell’intento di separare il pensiero cattolico dagli influssi devastanti dell’irrealismo e del solipsismo incubanti nelle opere dei teologi progressisti (Teilhard de Chardin e Karl Rahner, in special modo) Antonio Livi ha dimostrato che “nessuna conoscenza precede quella delle cose, che è la prima evidenza del senso comune” [3].
Ove per evidenza, chiarisce Livi, s’intende “motivo sufficiente per l’assenso”, definizione corrispondente a ciò che la riflessione riconosce come “adeguata giustificazione epistemica”.
In una successiva esposizione del pensiero controcorrente, Livi si preoccupa innanzi tutto di stabilire, mediante una magistrale analisi storico-filologica, la distanza del senso comune dalle teorie minimaliste e riduzionistiche [4], che arbitrariamente assimilano il senso comune alla doxa e ai pregiudizi del volgo [5].
Coerentemente Livi rammenta che “in ogni soggetto pensante esistono delle certezze esistenziali la cui giustificazione epistemica è fondata sulla percezione di ciò che nell’esperienza di tutti si presenta necessariamente e sempre come qualcosa di evidente” [6].
Di conseguenza le contrarie affermazioni, ricorrenti nelle opere dei filosofi dopo Cartesio e Kant devono essere ritenute “manifestazioni puramente verbali… e non espressioni di un pensiero compiuto, ossia di una vera e propria certezza, dotata di una adeguata giustificazione epistemica” [7].
E’ dunque necessario ammettere che le certezze essenziali “sono presenti alla coscienza in ogni momento della ricerca della verità come presupposto logico di tutte le conoscenze derivate dalla riflessione e dall’inferenza” [8].
Pena lo sconfinamento nell’errore, nel puro sogno o nella chiacchiera da bar, la ricerca filosofica deve essere finalizzata alla costruzione di un sistema compatibile con la verità originaria del senso comune.
In definitiva è accertata “l’esistenza del senso comune come l’insieme di quelle verità empiriche che costituiscono il sapere universale e necessario e pertanto la condizione logica assoluta di possibilità della scienza (sapere per inferenza) e della fede (sapere per testimonianza”.
Si arriva in tal modo all’enunciazione delle cinque evidenze primarie, che costituiscono il senso comune.
Sunt res. La prima, fondamentale non confutabile evidenza è l’esserci e il continuo divenire di tante cose.
L’evidenza dell’io come soggetto, un tempo principio assoluto della filosofia cartesiana, è invece successiva alla certezza che sunt res.
Evidente è altresì l’esistenza di enti analoghi all’io, una certezza che giustifica l’asserzione che “nel mondo di sono degli altri, simili a me, con i quali comunico“.
Indubitabile è anche l’esistenza di leggi di tipo morale, che suggerisce l’asserzione che “il mio rapporto con gli altri e il rapporto degli altri con me sono rapporti diversi da quelli fisici, perché implicano diritti e doveri“.
Livi, infine, postula l’esistenza non esperibile ma indubitabile di un Fondamento, che giustifica l’asserzione che “all’origine dell’esistenza delle cose e come fondamento dell’ordine che lega con leggi fisiche e morali il mondo, me e gli altri, ci deve essere un’Intelligenza creatrice e ordinatrice, che è anche l’ultimo Fine mio e di tutto“.
Livi sostiene che nessuno può dimostrare il contrario delle cinque evidenze: “Se qualcuno, a partire da Descartes, ha ritenuto di poter negare la loro verità, tale negazione è possibile solo a parole, come mero dire“.
E’ impensabile e inammissibile che non esista il mondo, è impensabile che non esista il soggetto pensante, è impensabile l’inesistenza di altri soggetti, è impensabile che non esistano leggi, è impensabile che non esista una Prima Causa del mondo.
Livi riconosce che includere l’esistenza di Dio tra le certezze del senso comune è impegnativo e problematico. Chiarisce tuttavia che “l’etica naturale (o percezione della legge naturale) appartiene alle certezze del senso comune; ma l’etica naturale si prolunga necessariamente nella religione naturale, come sua fondazione ultima, e proprio per questo la religione naturale costituisce la più sintetica espressione del senso comune” [9].
[1] De veritate, q. 22, a. 6, ad 1.
[2] Cfr.: Il fondamento del giudizio Una proposta teoretica a partire dalla filosofia del senso comune di Antonio Livi, Edizioni Leonardo da Vinci, Roma 2011.
[3] Cfr. “Metafisica e senso comune”, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2008, pag. 128.
[4] Cfr.: Filosofia del senso comune La logica della scienza e della fede Nuova edizione” , Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2010, pag. 77: “sensus deriva dal verbo sentire e vuole dire appunto avere un’opinione, formulare un giudizio”.
[5] Op cit., pag. 25 e seguenti.
[6] Op. cit., pag. 71.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Op. cit. pag. 113.