Di Dionisio di Francescantonio
Ho ancora vivo nella memoria un ricordo della mia prima gioventù, allorché, da ragazzo, negli anni successivi alla famigerata stagione del Sessantotto, capitai una sera nella camera comune d’un ostello della gioventù dove alloggiavo durante un soggiorno in una località del sud della Francia. Trovai riuniti nella camera diversi ragazzi ospitati come me all’ostello: erano seduti in circolo sul pavimento e si passavano l’un l’altro una sigaretta da cui ognuno aspirava voluttuosamente una lunga boccata di fumo. Fui immediatamente invitato a partecipare a quel passatempo collettivo, che appariva manifestamente come una sorta di rito. Ricusai l’invito, avendo capito al volo di che si trattava; del resto, a togliermi ogni dubbio sarebbe bastato l’odore singolare aleggiante nell’aria: quello, inequivocabile, della marijuana, già sentito altrove. Qualcuno, scambiando il mio irrigidimento per timore o timidezza, insisté. “Su, vieni” fui esortato in tono di motteggio, tra la lusinga e il rimprovero “vedrai che la vita ti sembrerà molto più bella, dopo”. “No, grazie” risposi seccamente, irritato dal tono di superiorità con cui mi si interpellava. “A me la vita piace guardarla con la mente lucida, buona o cattiva che sia”.
Era quella una delle prime mode nate dal clima culturale avviato dal Sessantotto, quella della sregolatezza collettiva e per così dire orgiastica che si traduceva nel fumo di gruppo dello “spinello” o della “canna”, ovvero nell’assunzione in comune della sostanza stupefacente o allucinogena. L’equivoco di fondo di quel clima culturale utopico, velleitario e anarcoide, del suo permissivismo assoluto e della sua pretesa infantile e narcisistica di tutto pretendere e nulla negarsi, cominciava a diffondere i suoi veleni nefasti nella psiche di coloro che si erano abbeverati alla scuola dei maestri del nichilismo e dell’autoannientamento, dove i principi che sostengono la ragione e orientano la volontà venivano sistematicamente derisi e nullificati. Secondo quei maestri insensati, il concetto di libertà, da sempre associato a quello della responsabilità e implicante la coscienza drammatica del vero e del bene, veniva respinto dalla presunzione che vero è ciò che mi pare e bene ciò che mi piace, mentre ogni senso di responsabilità si frantumava di fronte alla pretesa solipsistica di non avere da rendere conto ad altri che a se stessi e all’esigenza di soddisfare i propri desideri; per cui, al postutto, la libertà coincideva con l’istintività, la verità con l’immediatezza e il bene con l’irresponsabilità. Gettare disinvoltamente a mare tutti i legami, tutti gli impegni, tutti i doveri; pretendere di avere immediatamente tutto ciò che si desiderava, bivaccando eternamente in una trasgressiva ed esaltata adolescenza: questo era l’ideale di vita di chi si nutriva dei miasmi diffusi dal massimalismo giovanilistico ultralibertario di quegli anni. E già le suggestioni anarcoidi fermentavano in smania d’evasione. Le menti, disgregate dalle chimere del permissivismo ad oltranza, cominciavano a coltivare la fuga dalla realtà, ovvero l’ingresso nella sfera dell’oltre sé per mezzo del disordine dei sensi e del soqquadro della ragione. Molte voci – voci che avevano il crisma dell’autorevolezza, quelle di cattedratici, scrittori, giornalisti, poeti e cantanti – ignari o avversi all’esortazione aristotelica di non scantonare dai sentieri della logica e del buon senso, levavano il grido nichilista dell’irrealtà e della fuga da se stessi: “Io sono io e altro da questo io!” Del resto questo genere di folgorazione delirante veniva da lontano. Ricordate Rimbaud, il poeta adolescente, il veggente maledetto? “Io è un altro”; “Il poeta si fa veggente mediante una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi”; “La vera vita è assente. Noi non siamo al mondo”; “Tu non sai né dove vai né perché vai”. Queste sono solo alcune delle illuminazioni che scandiscono la dissoluzione di sé e del senso del mondo di questo visionario furibondo, il quale attraversò come una meteora satanica il mondo delle lettere francesi negli anni a cavallo dell’esperienza terribile della Comune di Parigi. Ma il suo esempio ha fatto scuola e i promotori del Sessantotto ne hanno ereditato a piene mani la lezione di rifiuto totale della propria cultura fino all’annientamento di sé e all’esilio dalla vita. Tentò (osò) tutte le trasgressioni: fu blasfemo, pornografo, sodomita, pidocchioso, vagabondo, mendicante, eretico, rivoluzionario, nevrotico, drogato e sifilitico, prima di ripudiare l’Europa e la poesia per dedicarsi al commercio delle armi e degli schiavi in una remota località dell’Africa.
Durante il Sessantotto, ma ancor più negli anni successivi, non si contano gli istigatori al rifiuto dei limiti del sé e dell’approdo alla cosiddetta conoscenza superiore, quella che trasporta la coscienza oltre i confini della sostanza unica dell’io. Per ottenere questa condizione occorre che l’immaginazione si ponga al di là della comune percezione del reale. Si entra nella sfera della sapienza “autentica” solo superando la ragione e “aprendo il terzo occhio”, come dichiarava tale René Daumal, morto, guarda caso, per overdose di eroina. Altre affermazioni demenziali circolavano nelle librerie: “Il reale è entrato nell’illusorio affinché l’illusorio entrasse nel reale” (L’uomo e la certezza di Frithijoff Schuon); “Vedere nel nulla è il vero vedere, il vedere eterno” (La dottrina Zen del vuoto mentale di Daisetz Teitaro Suzuki). Tra gli altri, un autore come Elèmire Zolla, ritenuto incautamente dai frequentatori superficiali dei suoi testi un avveduto tradizionalista, parlava senza ritegno, in termini positivi, di “sdoppiamento furibondo” e di “sapienza drogata”. Non c’è da meravigliarsi se un tale humus culturale, diffuso a piene mani attraverso i veicoli più disparati, abbia finito per rappresentare il più formidabile trampolino di lancio per la diffusione della droga su scala popolare e mondiale.
Al tempo della mia prima giovinezza, mentre quelli come me viaggiavano per desiderio di conoscenza e d’istruzione, magari anche per praticare e approfondire la conoscenza d’una lingua straniera, per molti altri andare in viaggio era un modo come un altro per fuggire dalla realtà e perdersi nell’illusione, così come la droga poteva assolvere al desiderio di procurarsi con mezzi artificiali la chimera impossibile del paradiso a portata di mano o, in altre parole, l’annullamento di un sé disorientato e sommerso dalla cultura dell’autonegazione e dell’autoannichilimento per perdersi in un’ovattata e mielata incoscienza, prima avvisaglia di quella suggestione suicidaria più profonda che avrebbe investito di lì a poco i forzati dell’eroina e dell’ecstasy, successivamente sostituite dalla cocaina e da altri tipi di droghe sintetiche. All’epoca, comunque, non era un caso se assumere la droga veniva definito, gergalmente, “andare in viaggio”.
Devo fare un viaggio dove brillano rocce scoscese simili a diamanti,
correre nella valle sotto la montagna sacra,
mi tufferò nelle spumeggianti acqua della cascata…
declamava enfaticamente una canzoncina americana di allora, e il viaggio alludeva con ogni evidenza alla fuga nei presunti paradisi della droga. Il viaggio veniva inteso precisamente come un mezzo per perdere il contatto con la realtà e da se stessi fino a confondersi e smarrirsi, per straniarsi dalla vita e annullarsi completamente. Come invitava a fare, del resto, un’altra significativa canzoncina di quei tempi, questa di John Lennon, il più celebrato dei famosissimi Beatles:
Lascia che ti porti con me,
sto andando nei Campi delle Fragole.
Lì niente è reale, non c’è niente da pensare,
campi di fragole per sempre.
Ad occhi chiusi è bello vivere…