Davanti a un pubblico numeroso e attento si è tenuta ieri, venerdì 29 aprile 2011, a Genova, a cura dell’Associazione Una Voce e del Sindacato Libero Scrittori Italiani, una presentazione del libro di Roberto De Mattei, “Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta” (ed. Lindau), con relazioni dell’Autore, del prof. Piero Vassallo e dell’avv. Emilio Artiglieri.
Riportiamo qui di seguito il testo integrale della relazione di Emilio Artiglieri
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“SOLO LA VERITA’ SALVA”: NOTE A MARGINE DI UNA “STORIA MAI SCRITTA”
di Emilio ARTIGLIERI
Nella Lettera di Benedetto XVI ai Vescovi della Chiesa Cattolica riguardo alla remissione della scomunica ai quattro Vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre, Lettera del 10 marzo 2009, il Papa lamenta “l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo”.
Il Santo Padre si riferiva al suo “avvicinarsi” ai quattro Vescovi ai quali aveva rimesso la scomunica, ma l’atteggiamento denunciato, di odiosa intolleranza, credo che si possa applicare anche alla vicenda del Prof. de Mattei, come esponente della cultura cd. tradizionalista, che in questi ultimi tempi, non solo per l’opera che qui presentiamo (Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau 2010), ma anche per altre sue dichiarazioni, peraltro pesantemente stravolte, è stato fatto oggetto, negli stessi ambienti ecclesiali, di ripetuti attacchi che, più che autentico zelo, esprimono quel paolino “mordersi e divorarsi” a vicenda che – ribadisce ancora il Papa – “esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata”.
Verrebbe da chiedersi: “Chi ha paura del Prof. de Mattei?”
“Che cosa ha detto di così intollerabile, da meritare, peraltro con la buona compagnia di Mons. Brunero Gherardini, le più severe, anche se – a ben vedere – molto semplicistiche, critiche ‘da destra’ e ‘da sinistra’?”
E’ vero che il Prof. de Mattei, chiuso, come si sussume, nell’ideologia dell’estremismo tradizionalista, si oppone all’ermeneutica della continuità, raccomandata dal regnante Pontefice e, prima ancora, dal Card. Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, circa l’interpretazione dei testi del Concilio Vaticano II? E’ vero che, in questo modo, offre paradossalmente una sponda alla cd. “scuola di Bologna”, di Giuseppe Alberigo, di Alberto Melloni, fondata sulla tesi della discontinuità e della rottura nella storia della Chiesa tra un “prima” e un “dopo” rispetto all’evento Concilio Vaticano II, inteso da essa scuola non semplicemente come il XXI Concilio Ecumenico della Chiesa Cattolica, ma come una “nuova Pentecoste”, o almeno una specie di Costituente?
E’ vero che il metodo critico del Professor de Mattei svaluta infine i testi dell’ultimo Concilio?
Il tema è senz’altro complesso, ma non per questo deve spaventarci ed indurci a rinunciare all’uso critico dell’intelligenza, nell’analisi dei dati storici a disposizione.
Certamente sarebbe molto semplice e tranquillizzante “blindare”, per così dire, il Concilio, rivestendo non solo i testi promulgati, ma anche il suo stesso umano svolgimento di un’aura sacrale, che lo sottragga ad una oggettiva valutazione storica, e scaricare tutte le colpe della crisi della Chiesa in questi anni sul post-concilio, che non si capirebbe però da dove sia venuto fuori.
E’ vero, come dice uno dei severi censori del Prof. de Mattei, riprendendo peraltro una annotazione di Mons. Luigi Maria Carli, Vescovo di Segni, in un testo sul Concilio su cui ritorneremo, che non si deve confondere il “post hoc”, cioè un rapporto temporale, con il “propter hoc”, cioè con un rapporto causale, che non tutto ciò che è accaduto dopo l’evento si può dire con certezza che sia stato causato da quell’evento, ma l’ampiezza dei problemi, per usare un eufemismo, presentati dal post-concilio è tale che solo un pregiudizio ideologico può negare che buona parte delle loro radici affondino proprio in alcuni aspetti umani del Concilio stesso (lo stesso Padre Congar in un testo pubblicato nel 1960 metteva in luce “il carattere umanissimo dei Concili e la reale azione di Dio in essi attraverso la loro piena umanità o storicità”, in Il Concilio e i Concili, Alba 1962, p. 446).
Sulla gravità dei problemi del post-concilio credo che non sussistano dubbi. Che qualcosa fosse “andato storto” (secondo l’espressione che è stata usata come titolo per un recente libro di Ralph McInerny, Vaticano II. Che cosa è andato storto?, Fede e Cultura, 2009), lo aveva addirittura detto, in termini drammatici, il Papa che aveva portato a conclusione il Concilio.
Ricordo alcune espressioni di Paolo VI: “La Chiesa si trova in un’ora inquieta di autocritica, si direbbe meglio di autodemolizione. E’ come un rivolgimento acuto e complesso, che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio. La Chiesa quasi viene a colpire se stessa” (Discorso al Seminario Lombardo di Roma del 7 dicembre 1968). Nel discorso del 29 giugno 1972 Papa Montini si diceva sbigottito, constatando come “da qualche parte sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio… anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”.
Ancora più severo, se possibile, appare il messaggio di Giovanni Paolo II al Convegno per le Missioni al Popolo (O.R. 7 febbraio 1981): “Bisogna ammettere realisticamente e con sofferta sensibilità che i cristiani oggi, in gran parte, si sentono smarriti, confusi, perplessi e perfino delusi; si sono sparse a piene mani idee contrastanti con la Verità Rivelata e da sempre insegnata; si sono propagate vere e proprie eresie in campo dogmatico e morale, creando dubbi, confusioni, ribellioni; si è manomessa la liturgia; immersi nel relativismo intellettuale e morale, e perciò nel permissivismo, i cristiani sono tentati dall’ateismo, dall’agnosticismo, dall’illuminismo vagamente moralistico, da un cristianesimo sociologico, senza dogmi definiti e senza morale oggettiva”.
Il Card. Ratzinger nel 1985, ossia a vent’anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, nella celebre intervista a Vittorio Messori (Rapporto sulla Fede) osservava: “E’ incontestabile che gli ultimi vent’anni sono stati decisamente sfavorevoli per la Chiesa Cattolica. I risultati che hanno seguito il Concilio sembrano crudelmente opposti alle attese di tutti, a cominciare da quelle di Papa Giovanni XXIII e poi di Paolo VI. I cristiani sono di nuovo minoranza, più di quanto lo siano mai stati dalla fine dell’antichità” (Edizioni Paoline 1985, p. 27).
Insomma, già subito dopo la conclusione del Concilio Vaticano II e, in particolare, dopo il 1968, si era fatta larga la consapevolezza che “qualcosa era andato storto”, ma è con l’attuale Pontificato che il problema viene riaffrontato e se ne colgono aspetti e conseguenze ancora più drammatiche.
Nel discorso del 22 dicembre 2005 alla Curia Romana, in occasione della presentazione degli auguri natalizi, Benedetto XVI confermava l’impressione di vent’anni prima: “Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande Dottore della Chiesa, San Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea (ma, citandola, è chiaro che Benedetto XVI proprio ad essa pensa): egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta dicendo tra l’atro: ‘il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede….’ (vorrei soffermarmi – prima di procedere con la citazione del discorso del Santo Padre – su quest’immagine drammatica della battaglia navale nel buio della tempesta: il già citato recensore sulle pagine dell’Osservatore Romano ha accusato il Professor de Mattei di aver usato nel suo libro “un linguaggio eccessivo, battagliero, se non addirittura bellicista – guerra di qua – battaglia di là – e sembra dimenticare che Sinodo significa camminare insieme”. Costui ha mai letto, non dico San Basilio, ma il discorso del Papa che pure dice di voler difendere?) Emerge – riprendiamo la citazione dal discorso del 22 dicembre 2005 – la domanda: perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo piuttosto difficile? Ebbene – spiegava il Papa – tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro…. da una parte esiste una interpretazione che vorrei chiamare ‘ermeneutica della discontinuità e della rottura’…. dall’altra c’è l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa che il Signore ci ha donato”.
Su queste due ermeneutiche e sulle loro caratteristiche, ma soprattutto su come sia stato possibile che si formassero due ermeneutiche contrapposte, per usare i termini di Romano Amerio, un’ermeneutica “neoterica” e un’ermeneutica “tradizionale” (Iota unum, ed. Lindau, p. 103) ritorneremo, ma ora vorrei approfondire le ragioni per cui in questi ultimi anni la riflessione sul Concilio Vaticano II si è fatta più coraggiosa e più urgente.
Una prima risposta viene dalla sensibilità del regnante Pontefice che, come si è visto, già da Cardinale nella sua funzione di Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, non si era nascosto il problema di una progressiva decadenza della Chiesa dopo il Concilio, sotto l’aspetto umano.
La sua attenzione alla liturgia, il suo “spirito liturgico” lo ha portato poi a recuperare, sia pure nella forma detta straordinaria del Rito Romano, l’antico Messale di San Pio V nella edizione pubblicata nel 1962 da Giovanni XXIII, non solo riconoscendo che questo Messale non era mai stato abrogato, ma assicurando ampia libertà di celebrazione secondo detta forma.
Indubbiamente il M.P. Summorum Pontificum, con la Lettera di accompagnamento, in cui si denunciano gli abusi post-conciliari “al limite del sopportabile”, riguardando un tema, quello della liturgia, di più evidente percezione da parte non solo degli specialisti, dei teologi, ma di tutti i fedeli e di quanti, anche non fedeli, si occupano delle cose di Chiesa, ha rappresentato un importante “scossone” per approfondire le problematiche del Concilio e del post-concilio.
A questo punto mi piace anche ricordare il coraggio con cui l’allora Cardinal Ratzinger nella Autobiografia riconosceva il suo sbigottimento per come si era realizzata la riforma liturgica e, soprattutto, “per il divieto del Messale Antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della Liturgia” (La mia vita, Edizioni Paoline 1977, p. 113). E’ vero che quest’operazione, ossia, per usare ancora le parole del Cardinal Ratzinger, la demolizione dell’edificio dell’antica liturgia e la costruzione di un edificio nuovo, appartiene più al post-Concilio che al Concilio: tuttavia ancora una volta la inaudita gravità di quanto accaduto non può non indurre ad allargare la riflessione al Concilio stesso.
C’è un altro aspetto che rende oggi, per così dire, urgente una riflessione su che cosa sia andato storto nel e dopo il Concilio Vaticano II, ed è un altro aspetto che mediaticamente e drammaticamente ha avuto un grande risalto: lo scandalo dei preti pedofili.
Ci si potrebbe chiedere: “Che cosa c’entra il Concilio Vaticano II con questo scandalo? Non è addirittura provocatorio sospettare una qualche relazione tra questo abominevole scandalo e quello che pur sempre è stato un Concilio Ecumenico della Chiesa Cattolica?”
In realtà è stato lo stesso Benedetto XVI ad affrontare la questione, ad esempio nella Lettera pastorale ai cattolici dell’Irlanda del 19 marzo 2010, laddove contestualizza l’emergere di questi comportamenti gravemente riprovevoli nel “rapidissimo cambiamento sociale, che spesso ha colpito con effetti avversi la tradizionale adesione del popolo all’insegnamento e ai valori cattolici. Molto sovente le pratiche sacramentali e devozionali che sostengono la fede e la rendono capace di crescere, come ad esempio la frequente confessione, la preghiera quotidiana e i ritiri annuali, sono state disattese. Fu anche determinante in questo periodo la tendenza, anche da parte di sacerdoti e religiosi, di adottare modi di pensiero e di giudizio delle realtà secolari senza sufficiente riferimento al Vangelo. Il programma di rinnovamento proposto dal Concilio Vaticano II fu a volte frainteso… In particolare vi fu una tendenza, dettata da retta intenzione ma errata, ad evitare approcci penali nei confronti di situazioni canoniche irregolari”.
E’ quella che Romano Amerio (cfr. Iota unum, p. 141-145) ha definito la “desistenza dell’autorità” o “breviatio manus”, una delle caratteristiche della crisi post-conciliare, consistente “nello snervamento della potestà del Vicario di Cristo, con la rinuncia o la pratica impossibilità da parte dello stesso a comminare sanzioni, a punire i rei, a richiamare con severità, a denunciare pubblicamente il male, facendo seguire alla denuncia azioni con essa coerenti” (cf. Matteo D’Amico, Per un accesso a Iota unum: la struttura della critica di Amerio alla teologia conciliare e post-conciliare, in Il Vaticano II e le variazioni nella Chiesa cattolica del XX secolo, Fede e Cultura 2008, p. 72).
Si può dire che lo scandalo della pedofilia, pur con tutto il suo carico di orrore, abbia indotto l’Autorità ecclesiastica a recuperare la necessità di applicare, con fermezza ed efficacia, il diritto penale canonico, di esercitare un potere che è espressione di una struttura gerarchica, che rischiava di finire dissolta in una impropria logica di democratizzazione.
Ma, a monte dello scandalo della pedofilia, scandalo che è composto come da due parti, una riguardante gli abusi veri e propri e l’altra una certa tolleranza o, per meglio dire, una non adeguata repressione canonica degli stessi, non c’era solo la desistenza dell’autorità, il rifiuto di applicare il diritto penale canonico, in una visione della Chiesa puramente spirituale, carismatica, ma anche idee teologiche aberranti, come ha dichiarato lo stesso Benedetto XVI nel suo discorso alla Curia Romana del 20 dicembre 2010.
In questo discorso il Papa ricordava che “negli anni ’70, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino. Questo però faceva parte di una perversione di fondo del concetto di ethos. Si asseriva – persino nell’ambito della teologia cattolica – che non esisterebbe né il male in sé, né il bene in sé. Esisterebbe soltanto un ‘meglio di’ e un ‘peggio di’. Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male. La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere. Gli effetti di tali teorie sono oggi evidenti. Contro di esse Papa Giovanni Paolo II, nella sua enciclica Veritatis splendor del 1993, indicò con forza profetica nella grande tradizione razionale dell’ethos cristiano le basi essenziali e permanenti del’agire morale”.
Come è stato possibile –ci chiediamo – che “nell’ambito della teologia cattolica” si diffondessero simili errori e non fossero piuttosto stroncati, fin dal loro apparire, con la massima severità? “Obsta principiis” insegnava la prudenza classica e cristiana che, se non cessava di essere una virtù, dopo l’ultimo Concilio non godeva però di ampio seguito.
Con Benedetto XVI, che non ha esitato a riproporre la visione di Santa Ildegarda di Bingen, della Chiesa come figura di donna dal volto cosparso di polvere, dal vestito strappato, dal mantello senza più bellezza e dalle scarpe insudiciate, ripetiamo: “solo la verità salva”.
E la verità storica, che il Professor de Mattei ha ben riassunto ed esposto nel suo libro, ci dice che già prima del Concilio e comunque nel Concilio, e non solo nel post-concilio, c’era qualcosa che non andava.
Questo è un punto che, per chi vuol mantenersi intellettualmente onesto, non può più essere revocato in dubbio. Solo da questo punto può ripartire un’opera di chiarificazione e di purificazione nella Chiesa.
Entriamo dunque al Concilio Vaticano II.
Non vogliamo e non possiamo giudicare le intenzioni degli uomini, tanto più se la Chiesa ne ha riconosciuto l’eroicità delle virtù personali, la loro buona fede, né escludere che la Divina Provvidenza possa “scrivere diritto sulle righe storte degli uomini”, ma non si può non restare sorpresi dal giudizio eccessivamente ottimista di Giovanni XXIII all’apertura del Concilio Vaticano II: “sempre la Chiesa – egli diceva – si è opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati con la massima severità. Ora, tuttavia, la sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che l’arma della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando più ampiamente la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne. Non già che manchino dottrine fallaci, opinioni e concetti pericolosi da cui premunirsi e da dissipare; ma essi sono così evidentemente in contrasto con la retta norma dell’onestà, e hanno dato frutti così esiziali, che ormai gli uomini da se stessi sembra siano propensi a condannarli , e in specie quei costumi di vita che disprezzano Dio e la sua legge, la eccessiva fiducia nei progressi della tecnica, il benessere fondato esclusivamente sulle agiatezze della vita. Sempre più essi vengono convincendosi che la dignità della persona umana, del suo debito perfezionamento è affare della massima importanza”.
Considerando i risultati e, tra questi prendendo come esempio proprio lo scandalo della pedofilia tra i sacerdoti, ma moltissimi altri esempi potrebbero essere addotti, viene spontaneo osservare, con tutto il rispetto e la devozione nei confronti del Beato Giovanni XXIII, che così parlava per la straordinaria bontà del suo cuore, che sarebbe stato meglio usare ancora l’arma della severità, delle rinnovate condanne, in quanto gli uomini da se stessi non si sono affatto convinti del rispetto che si deve alla dignità della persona umana, addirittura dei fanciulli.
Potrebbe bastare questa citazione di Giovanni XXIII per comprendere come non si possa, se si vuol essere fedeli alla storia, che si fa coi documenti, con gli atti e non con le chiacchiere e con l’ideologia, e neanche con le pie illusioni, attribuire tutti i mali apparsi negli ultimi anni nella storia della Chiesa al cd. post-concilio, assolvendo del tutto il Concilio, inteso nella sua dimensione umana.
Vorrei prendere come guida nel grande labirinto del Concilio Vaticano II il Cardinale Giuseppe Siri, il quale in una magistrale conferenza (ora pubblicata nel volume dell’Opera Omnia, La giovinezza della Chiesa, Pisa 1983, pp. 175-197) tenuta a Cannes, o per meglio dire nell’isola di Sant’Onorato davanti a Cannes, ad una equipe dirigenziale internazionale, tra cui era presente Henry Kissinger, il 27 settembre 1969, pur parlando dei guai del post-concilio, non mancò di esaminare a fondo i fatti anteriori e concomitanti al Concilio.
Così, per quanto riguarda la preparazione del Concilio, egli sottolineò che “le conseguenze dell’eccesivo campo aperto alle discussioni non furono allora chiaramente viste, mentre si vedono dolorosamente oggi e stanno agitando, quando addirittura non dividono, il campo ecclesiale. Allora non si pensò dai più a restringere l’oggetto del Concilio, come era accaduto in tutti i Concili precedenti. Lo stesso Concilio di Trento…ebbe due soli oggetti: la dottrina di Lutero e la Riforma della disciplina ecclesiastica”.
Ma un altro criterio adottato nella immediata preparazione del Concilio è riapparso nelle sue negative conseguenze, secondo il Card. Siri: “Fu adottato negli schemi il criterio discorsivo e fu escluso il metodo delle proposizioni semplici, stringate per l’affermazione delle verità o per la netta condanna degli errori… Uno schema di un argomento steso col metodo discorsivo più difficilmente enuclea le parti sostanziali mentre può allungare, e di molto, la discussione sulle parti accidentali….”.
Questo aspetto formale, nella redazione dei testi del Concilio, è di straordinaria importanza, come è stato giustamente messo in rilievo anche dal Prof. de Mattei: infatti la conseguenza fu – ascoltiamo ancora il Card. Siri – che “è diventato ben più difficile capire dove il Concilio intendeva impegnarsi in dichiarazioni solenni, che importavano l’infallibilità e pertanto la irreformabilità di un asserto e dove non intendeva impegnarsi a quel modo…. Il frutto è stato – non certamente legittimo e solo accidentale – che molti si sono a torto creduti di poter interpretare i testi a loro modo e persino fuori dell’ortodossia cattolica (oggi diremmo secondo l’ermeneutica della discontinuità)…. Molti fatti odierni – spiegava ancora il Card. Siri – trovano la loro spiegazione storica in quel metodo discorsivo e nella assenza delle rilevate proposizioni positive come negative”.
Eppure, ricordava il Cardinal Siri, “non mancò allora chi propose chiaramente di adottare il sistema delle proposizioni brevi e sostanziali”.
Questi altri non era che lo stesso Cardinal Siri, come si evince, dalle note del suo Diario, pubblicato da Benny Lai (Il Papa non eletto, Laterza 1993, p. 365).
Non solo la preparazione, ma la stessa impostazione del Concilio, secondo il Card. Siri, ha avuto caratteri che permettono di capire storicamente quanto è successo poi.
Il Card. Siri lamentava che al Concilio fosse mancata una vera presidenza, che avrebbe potuto e dovuto contenere quelle che egli ha definito “voci stonatissime, anche irriverenti, persino ereticali”, voci la cui eco è continuata negli anni successivi.
Un altro aspetto che il Card. Siri evidenzia dell’impostazione del Concilio fu la preponderante “pastoralità”, a danno della difesa dell’ortodossia.
A monte di questa impostazione pastorale vi era il già ricordato fiducioso ottimismo di Giovanni XXIII, secondo cui gli errori teologici, circolanti nelle riviste, nelle università e in molte pubblicazioni, tutto sommato non erano pericolosi e “non sarebbero venuti a turbare la pace dei ragionamenti conciliari. Purtroppo – notava il Card. Siri – questo ottimismo non corrispose ai fatti”.
Più che alla condanna e alla repressione degli errori, Giovanni XXIII volle così dedicarsi all’impulso della pastorale, intendimento santissimo secondo il Cardinale Siri, ma nella strumentalizzazione che altri ne fecero divenne una delle cause della crisi: “Con la pastorale – osservava il Card. Siri – si vollero giustificare silenzi falsi, riduzione nella verità con la scusa di rendere le medesime più accettabili….”.
Proprio sul tema della “pastoralità” e sulle conseguenti preoccupazioni si apriva il Diario del Concilio del Cardinal Siri, il quale alla data del 10 ottobre 1962, annotava: “in questo Concilio temo si sentirà… il peso di un’abitudine attivistica, la quale fa pensare poco, studiare meno, gettare in una zona oscura i grandi problemi dell’ortodossia e della verità. Il pastoralismo pare una necessità, mentre è, prima che un metodo deteriore, una posizione mentale erronea” (Il Papa non eletto, p.356).
Un’altra nota negativa dell’impostazione del Concilio fu, secondo il Card. Siri, la grande libertà concessa ai Padri Conciliari: si dissero anche – ricorda il Card. Siri nella citata conferenza del settembre 1969 – “delle mezze eresie da parte di taluno, si fecero audacie quasi sconvolgenti e tuttavia – che si sappia – nessuno fu ripreso; il segreto non fu affatto rispettato e, salvo un blando richiamo, non furono più azionati i freni per contenerlo. Furono visti Padri uscire dall’aula per portare le notizie fuori prima che finissero le sedute. Le esagerazioni dell’uso della libertà ci furono e furono dannose al Concilio in se stesso, che continuò, praticamente, come se fosse tenuto sulla piazza….Né sono mancate autentiche esagerazioni di tono con lo scopo evidente di far colpo sulla pubblica opinione”.
Ebbene questo stile, iniziato con il Concilio, continuato con il paraconcilio, è andato avanti anche dopo ed ha caratterizzato l’attività di teologi, giornalisti, persone più o meno di cultura, che hanno pensato bene di appropriarsene, discettando, come diceva ancora il Card. Siri “su materie che, o non sono affatto discutibili, o lo sono con notevole pericolo per la fede e la disciplina ecclesiastica”.
Quest’andazzo purtroppo non è certo finito.
Esemplare, in tal senso, per citare un esempio recentissimo, è l’ampio articolo che all’inizio di questo mese Gianni Gennari, che si firma giornalista di Avvenire, ha pubblicato su Il Foglio non solo esprimendosi contro la legge del celibato, ma attaccando in modo vergognoso il Cardinale Prefetto della Congregazione per il Clero, solo perché aveva, in alcuni suoi testi, illustrato i fondamenti dottrinali di tale legge.
E, infine, il Card. Siri non ebbe timore a parlare di una vera e propria “contro-impostazione del Concilio” preparata in una certa parte d’Europa (nel Diario aveva indicato esplicitamente le aree francesi-tedesche), per cui un certo gruppo tentò di prendere, per così dire, la guida del Concilio e poi la guida della Chiesa del post-concilio.
Osservava il Card. Siri: “Ho la certezza che Papa Giovanni si fosse reso conto di questo nei pochi mesi che furono anche gli ultimi della sua vita, perché, proprio allora, in una lunghissima udienza, mi disse chiaro ‘che non era affatto contento del Concilio’…..”.
Questi sono i fatti storici riferiti da un grande testimone, che io ho voluto ricordare per dire che l’impostazione data dal Prof. Roberto de Mattei al suo libro non è affatto peregrina o ideologica, ma è l’unica che rispetta la verità storica di una continuità tra fermenti presenti e sviluppatisi fin dall’inizio del secolo XX, manovre prima, durante e dopo il Concilio di gruppi influenti sulla cui buona fede nessuno può pronunciarsi (nel suo Diario il Card. Siri annotava: “Ho capito che quei Cardinali sono mossi da santi intenti, ma evidentemente subiscono l’influsso di scuole e pubblicazioni, delle quali si può dire che sono le ragnatele accumulate in trent’anni sulle spalle della Santa Chiesa di Dio”, p. 371), ma l’opera dei quali tendeva obiettivamente a dar vita ad una nuova Chiesa o, se si vuole, ad una fase radicalmente nuova nella storia della Chiesa rispetto a quelle definite costantiniana e tridentina.
Perfettamente coerente con la narrazione del Card. Siri e, se permettete, del Prof. de Mattei, sono i ricordi di un altro grande personaggio, a cui abbiamo accennato, Mons. Luigi Maria Carli, il quale nel suo Nova et Vetera della fine di luglio 1969 (è interessante che la pubblicazione di questo libro praticamente coincida con la citata conferenza del Card. Siri a Cannes) spiegava: “Nulla vieta di vedere nel Vaticano II l’occasione propizia in presenza della quale ciò che di aberrante, da qualche tempo, ribolliva sotto la superficie di una calma apparente nella vita della Chiesa, è esploso virulento alla luce del sole. Il Concilio ha fatto da catalizzatore di reazioni di vario tipo già esistenti, allo stato sparso, in seno alla cattolicità….Bisogna onestamente riconoscere che l’esplosione della crisi, non causata dal Concilio, può essere stata indirettamente facilitata non solo da situazioni esteriori alla Chiesa, ma anche da taluni aspetti caratteristici dello stesso Vaticano II.
A differenza dei precedenti Concili – ribadisce Mons. Carli quasi con le stesse parole del Card. Siri – aventi obiettivi molti delimitati e soprattutto specifici errori da contrastare, l’ultimo Concilio si diede espressamente un carattere pastorale. Di qui la vastità e la genericità delle tematiche da affrontare, con la inevitabile conseguenza di non poter sviscerare a fondo ogni argomento, né soppesare con la bilancia della rigorosa alchimia teologica tutt’e singole le espressioni adoperate. Non venendo in questione l’infallibilità dei pronunciamenti, è ovvio che si sia badato più alla formulazione pratica che non a quella dottrinale delle singole frasi, e si sia così ottenuta la quasi unanimità dei suffragi su testi dei quali si attendeva più alla sicurezza generica del pensiero che non alla precisione del singolo dettaglio. Era poi nella tradizione plurisecolare, a cominciare da Nicea, che un testo conciliare attinente alla fede o alla morale, avesse valore definitorio, e quindi ultimativo, delle questioni affrontate, invece il Vaticano II espressamente escluse la volontà di nuove definizioni dogmatiche, pur presentando il proprio insegnamento come dottrina cattolica; e così, piuttosto che chiudere vecchie controversie ne aprì di nuove… Resta il fatto che talvolta il testo, non già l’intenzione dei Padri, offre l’appiglio ad aberranti interpretazioni…. Di qui ha origine una peculiarità della attuale crisi nella Chiesa. Anche dopo gli altri Concili si sono avute delle crisi ma esse riguardavano cattolici i quali espressamente rifiutavano i testi conciliari… e perciò si separavano dalla Chiesa. Viceversa, dopo il Vaticano II la crisi è costituita, in gran parte, proprio dall’abusivo ricorso che si fa ai suoi documenti” (pp. 50-51).
Mi avvio alla conclusione, avendo, a questo punto, materiale sufficiente per dare una risposta alla domanda posta inizialmente: “E’ vero che il Prof. de Mattei, mettendo in evidenza i problemi che si sono manifestati prima e durante il Concilio e che hanno avuto una loro ricaduta su una certa ambiguità o imprecisione nella redazione dei testi, è nemico dell’ermeneutica della continuità?”.
Rispondiamo che il Prof. de Mattei ha semplicemente rilevato dati storici, di fatto, tra cui quello che, come si è visto, già lamentavano prelati come il Card. Siri e Mons. Carli, e che Romano Amerio ha definito il carattere anfibologico dei testi conciliari, la loro incertitudine, per cui il tempo post-conciliare anziché di esecuzione fu di interpretazione del Concilio (Iota unum, pp.102-103).
Se così non fosse, non si spiegherebbe il fenomeno, così ben descritto dallo stesso Card. Ratzinger – Benedetto XVI, di scontro tra ermeneutiche. Anzi, durante lo stesso Concilio Vaticano II, si sentì l’esigenza, senz’altro ispirata dall’Alto, di precisare alcuni punti di straordinaria importanza dal punto di vista ecclesiologico (in breve la questione della collegialità), attraverso l’apposizione alla costituzione Lumen gentium della cd. Nota explicativa praevia.
Questo non significa che non sia possibile, anzi doverosa, sul piano teologico, una ermeneutica della continuità, ossia lo sforzo di una interpretazione dei testi conciliari che sia il più possibile fedele alla tradizione della Chiesa; non si tratta però, come la storia ha dimostrato, di una interpretazione “scontata”, proprio per l’illustrata ambiguità originaria delle formulazioni, ambiguità che ha obiettivamente consentito, come ben ha ricordato Benedetto XVI nel discorso del 22 dicembre 2005, il ricorso al famigerato “spirito del Concilio”, grazie al quale “si concede spazio ad ogni estrosità”.
Certamente il Magistero ordinario ha provveduto e provvede a favorire, in alcuni suoi documenti, interpretazioni nel senso della continuità; non è tuttavia (e questo ce lo ha ben spiegato il Prof. de Mattei) irrispettoso della realtà storica, ma neanche della ragione teologica, chiedersi se non sia opportuna una più incisiva, coerente e radicale opera di chiarificazione, come quella suggerita da Mons. Brunero Gherardini e per la quale esprime i suoi auspici, nella conclusione dell’opera, il Prof. de Mattei. Ma questo resta un altro “discorso da fare”.