di P. Giovanni Cavalcoli, OP
28 aprile 2011
Desidero intervenire anch’io dopo l’articolo del Prof.Corrado Gnerre, a proposito dell’omelia tenuta dal Padre Raniero Cantalamessa per lo scorso Venerdì Santo, circostanza alquanto opportuna per trattare della concezione cristiana del dolore, del male e del peccato.
Nelle parole del famoso predicatore francescano non è difficile trovare un’eco dell’intervento su questi argomenti fatto nel marzo scorso a Radio Maria dal Prof.Roberto De Mattei, un discorso che ha suscitato un’enorme polemica tra difensori e nemici della visione cattolica circa questi delicati argomenti, ed ha messo altresì in luce l’esistenza di posizioni le quali, pur sedicenti o considerate cattoliche, in realtà, non lo sono.
A questo riguardo anch’io sono entrato in questo interessante dibattito con alcuni miei interventi, uno presso il quotidiano Avvenire ed un altro, più recente,in questo stesso sito. Avendo letto l’intervento del Prof.Gnerre, che mi ha portato a conoscenza dell’omelia del Padre Cantalamessa, mi sono sentito ancora stimolato ad esprimere alcune osservazioni nei confronti delle idee del Padre Cantalamessa, mentre desidero esprimere il mio compiacimento per il saggio e ben informato intervento del Prof.Gnerre, il quale manifesta alcune riserve nei confronti del Cantalamessa, riserve che faccio mie ed alle quali vorrei aggiungere alcune precisazioni.
Prima osservazione. Il Padre Cantalamessa riprende un’idea oggi molto diffusa, di origine protestante, secondo la quale Dio farebbe “esperienza della sofferenza”. E’ vero che il Religioso francescano non si riferisce alla natura divina astrattamente intesa, ma al Dio incarnato Gesù Cristo con evidente anche se implicito riferimento alla sofferenza di Cristo come uomo.
Tuttavia, da come si esprime Cantalamessa, non risulta chiaro che – come già insegnava S.Leone Magno – se la natura umana di Cristo è passibile, la natura divina è impassibile, per cui non può soffrire. Oppure questo può dirsi solo in senso metaforico, come si dice che Dio è “offeso” dal peccato, è “adirato” per i peccati degli uomini, ed è “placato” dal divin sacrificio di Cristo e della S.Messa.
Tuttavia, come io ricordo in un articolo pubblicato nel 1992 nella rivista Divinitas, un periodico teologico pubblicato nella Città del Vaticano come espressione della Pontificia Accademia Teologica Romana, della quale sono membro, bisogna tener presente che sin dai primi secoli la Chiesa ha più volte condannata come eretica la tesi del cosiddetto “teopaschismo”, ossia appunto la dottrina che sostiene la sofferenza in Dio.
Tale dottrina infatti, prima che essere contro la fede – la Scrittura non parla mai di “sofferenza di Dio” – è contro una sana teologia razionale. Infatti la sofferenza implica che il sofferente sia privato di qualcosa che gli spetta o gli appartiene, e quindi sia composto di più elementi, mentre Dio, purissimo spirito, è semplicissimo ed atto puro di essere, ovverosia essere perfettissimo, beatissimo, eterno, immutabile, incorruttibile ed inviolabile, al Quale nulla può essere tolto, come del resto nulla può essere aggiunto. Questa concezione della divinità si trova già nei grandi sapienti pagani come Platone ed Aristotele. Tanto più essa è presente nella concezione cristiana, la quale non nega ma conferma i dati della sana ragione.
Con tutto ciò non è del tutto sconveniente parlare di un Dio che soffre in Cristo, ma occorre precisare che questo modo di esprimersi che si chiama “communicatio idiomatum”, non intende affatto riferirsi ad un’impensabile “sofferenza divina”, bensì si tratta di uno scambio di predicati, legittimo quando essi possono essere scambiati in quanto inerenti a un solo soggetto. Se per esempio il Tizio è medico e pittore, posso dire: quel medico è pittore, ma evidentemente non è pittore in quanto medico, ma in quanto è la medesima persona. Così in Cristo: posso dire il Verbo soffre, ma non in quanto Verbo, bensì in quanto Egli ha unito a sé una natura umana, la quale sola può soffrire.
Così similmente il sommo attributo di Maria SS.ma di essere “Madre di Dio” sorge dalla communicatio idiomatum: infatti è evidente che Maria non è madre della divinità – la divinità come tale è ingenerata e ingenerabile -, ma dell’umanità di Cristo; tuttavia si dice che è Madre di Dio perché quell’uomo che Ella ha generato è Dio, ossia è la stessa Persona.
Dire che Dio non può soffrire non vuol dire che Dio non sappia che cosa è la sofferenza: lo sa infinitamente meglio di noi, ma con la sua pura infinita intelligenza spirituale e non facendone esperienza come noi, esseri finiti, fragili ed imperfetti. Concepire formalmente un Dio che soffre vuol dire sbagliarsi sul Dio cristiano e trasformare Dio in un dio pagano, sul tipo di Dioniso, che muore e risorge.
E del resto la salvezza dalla sofferenza non può venire altro che da un agente non sofferente: se anche il medico è malato, chi ci cura? E’ vero che in Cristo Dio salva per mezzo della sofferenza, ma non è la sofferenza come tale e tanto meno un’impossibile sofferenza di Dio, bensì è la potenza del Dio impassibile, il Deus fortis et immortalis che ci salva dalla sofferenza usando la sofferenza, operazione prodigiosa, questa, che solo un Dio può compiere, ricavando con la sua potenza creatrice il bene dal male. Pensare che la sofferenza come tale sia buona, gustosa e salvifica non è cristianesimo, ma una forma di demenza ben nota agli psichiatri.
Seconda osservazione. Padre Cantalamessa ricorda il principio indubbiamente cristiano secondo il quale quando ci giunge una sventura, dobbiamo vedere in questo fatto un segno dell’amore di Dio per noi. Egli si rende conto della paradossalità di questa tesi, ma purtroppo non cerca di risolvere questa difficoltà, col rischio di presentare non un Dio che ci ama, ma un Dio che si prende tragicamente gioco di noi, davanti al quale quindi si è portati a bestemmiare e a farsi atei.
Infatti il buon senso ci dice che se qualcuno ci ama ci fa del bene e non ci manda una sventura. Questo pensiero, fondato sulla ragione naturale, è giustissimo ed innegabile. Sarebbe stoltezza credere che il cristianesimo lo smentisca; al contrario lo conferma. D’altra parte, la tesi suddetta sembra smentirlo. Essa dunque va adeguatamente spiegata. Ed è la stessa divina Rivelazione che ce la spiega, introducendo il fattore della divina giustizia.
Occorre pertanto riandare con molta attenzione alla tematica del “castigo di Dio”, introdotta da De Mattei, svolta dai miei recenti interventi e ripresa con buoni argomenti da Gnerre. La considerazione fondamentale che bisogna fare al riguardo è tener presente la virtù della giustizia divina, concetto, questo, che è raggiungibile già da una sana teologia razionale. Giacchè il concetto della giustizia è una nozione fondamentale dell’etica naturale. Suo principio fondamentale è che il peccatore dev’essere punito e che il giusto dev’essere premiato, per cui è ingiustizia l’impunità del peccatore e la punizione dell’innocente.
Inoltre bisogna inserire in queste considerazioni di ordine meramente etico-giuridico, un dato di fede, ossia la dottrina del peccato originale, la quale introduce una nozione di peccato diversa dalla concezione corrente del peccato, la quale arricchisce quella che risulta dalla semplice etica naturale, che conosce solo il peccato personale. Questa nozione nuova e rivelata è quella del peccato originale, peccato che S.Tommaso chiama peccatum naturae humanae, secondo il quale la colpa e la punizione di questo peccato coinvolgono l’intera umanità, come è detto tuttora dal Catechismo della Chiesa Cattolica, che ho già citato nei miei interventi.
Indubbiamente il termine “castigo” a proposito delle conseguenze di questo peccato, può esser troppo forte o forse inopportuno, dato che noi abitualmente riferiamo questo temine solo al peccato personale. Ma dal racconto del Genesi e dall’interpretazione che S.Paolo fa del peccato originale (“in Adamo tutti abbiamo peccato”), appare evidente che se è vero che in linea di principio la pena è conseguenza del peccato, le pene di questa vita, anche quelle degli innocenti, sono pene o conseguenze del peccato originale.
L’idea che Dio irroghi una pena a somiglianza del giudice terreno è certamente biblica; tuttavia la stessa Bibbia precisa in altri passi (“perditio tua, Israel”) che questa pena è da intendersi più che un “male” voluto da Dio, un male – la sofferenza – che ci tiriamo addosso noi con i nostri peccati. Certo questo principio non può valere per l’ordinamento giuridico terreno (civile ed ecclesiastico), dove la pena appare come riequilibramento e difesa dell’ordine sociale, per cui è normale che la pena sia irrogata dal giudice in base ad un codice penale ed in seguito a giusto processo. Da qui la possibilità che il delinquente sfugga alla giustizia umana, ma se non si pente, non può sfuggire alla giustizia divina.
Per riprendere poi l’osservazione di Padre Cantalamessa, bisogna dire che è vero che col verificarsi di una pubblica calamità ci vanno di mezzo innocenti e peccatori: ma ciò non vuol dire, come ho detto, che tale sventura non sia per tutti conseguenza (“castigo”?) almeno del peccato originale. A parte il fatto che persone perfettamente innocenti su questa terra non esistono e tutti abbiamo peccati da scontare. Gli stessi bimbi, che noi giustamente chiamiamo “innocenti”, sono pur sempre legati alle conseguenze del peccato originale e possono essere vittime dei peccati degli adulti. Ad ogni modo, se detta sventura può essere vero e proprio castigo per gli empi, i giusti possono approfittarne per unirsi a Cristo nell’opera della redenzione.
Poste queste premesse, veniamo adesso al punto. Come evitare di bestemmiare un Dio il quale ci dice che ci ama nel momento stesso in cui ci manda la sventura? Ricordando il sacrificio espiatorio e riparatore di Cristo, già predetto dal profeta Isaia (cc.42,49,50,53), Cristo che ha soddisfatto alla divina giustizia (“satisfecit pro nobis”, come dice il Concilio di Trento), pagando al nostro posto il debito del peccato: giustizia divina del Padre, che chiede di essere compensata, e giustizia di Cristo che dà soddisfazione alla giustizia divina offesa dal peccato, consentendo a sua volta a noi di pagare, in Cristo, il nostro debito.
E’ quindi solo così che si spiega come mai soffriamo pur esistendo un Dio onnipotente, di amore e di misericordia. Dio stesso per mezzo di Cristo ci rivela questo enigma per il quale continuiamo a soffrire benché Dio sia buono ed onnipotente: c’è in gioco il meccanismo della giustizia, benché tutto in fin dei conti, come dice S.Paolo, si risolva nella misericordia.
Il perdono divino che toglie la colpa e può togliere anche la pena non è un’ingiustizia, ma, come dice S.Paolo nella Lettera ai Romani, giustifica, rende giusti, è una superiore giustizia ed anzi un superamento della giustizia che dona all’uomo per amore ciò di cui la solo giustizia non è capace e non è competente ad attuare. D’altra parte per il peccatore che non si pente non ci può essere misericordia, ma resta la giustizia punitrice, la quale, se quegli non si pente in punto di morte, diventa eterna con la pena dell’inferno.
E giungiamo così al punto conclusivo. Infatti – e questo è il punto decisivo ben illustrato da S.Tommaso d’Aquino – è appunto per amore e misericordia che Dio Padre dà all’umanità ferita e punita per il peccato, la possibilità in Cristo di espiare il peccato trasformando la pena in espiazione del peccato e principio di una vita nuova da figli di Dio.
In conclusione, per non cadere in empie assurdità, quando noi cattolici esponiamo quella che è la concezione cristiana del peccato, del castigo e della redenzione non dobbiamo mai dimenticare di considerare rettamente la congiunzione dell’operazione divina della misericordia con quella della divina giustizia, così come la Rivelazione ci insegna nella costante Tradizione cattolica e nel Magistero della Chiesa.