LA PASTORALE DEL CONCILIO VATICANO II: PROGRESSI E REGRESSI – di P.Giovanni Cavalcoli,OP

di P.Giovanni Cavalcoli,OP

 

E’ noto a tutti che il Concilio Vaticano II ha introdotto nella Chiesa un profondo rinnovamento della pastorale, ossia del metodo di guidare il popolo santo di Dio e più in generale del modo di annunciare e diffondere il Vangelo nel mondo d’oggi. E’ talmente evidente e onnipresente questa impostazione pastorale nei documenti conciliari, che alcuni studiosi, esagerando e cadendo in una visione parziale, hanno addirittura sostenuto che il Vaticano II è stato un Concilio solo pastorale, privo di novità dottrinali, per cui la dottrina infallibile del Concilio sarebbe soltanto la semplice ripetizione o conferma di dogmi precedentemente definiti.     concilio

Viceversa le dottrine nuove vengono viste con diffidenza, perché non le si ritiene in continuità col Magistero precedente. Ma adesso non voglio fermarmi su questa questione, che ho già trattato in altre occasioni, allorchè mi sono invece unito al parere di quegli studiosi, del resto appoggiati sulle stesse dichiarazioni e insegnamenti dei Papi del postconcilio, secondo i quali il Vaticano II non è stato solo pastorale, ma anche dottrinale e non solo, ma ha fatto anche avanzare la dottrina della fede nella modalità dell’insegnamento “ordinario”, anche se è assente la forma “straordinaria”, ossia quella propria delle definizioni dogmatiche esplicite e solenni.

Ma qui voglio fermarmi solo sulla questione delle novità pastorali del Concilio. Anche qui ci sono stati dei mutamenti, ma, a differenza di quelli dottrinali che sono avvenuti – né diversamente poteva essere – in continuità con la tradizione, checchè ne dicano i lefevriani, invece possiamo tranquillamente dire che  nella linea pastorale il Concilio per certi aspetti, ha rotto col passato ed ha anche fatto bene. E tuttavia potremmo anche chiederci: ma forse non ha anche rotto un po’ troppo? Ecco il tema di questo articolo.

Infatti in questo ambito di insegnamento il Magistero della Chiesa non è infallibile, a differenza degli insegnamenti dottrinali-dogmatici ordinari o straordinari, dichiarati o non dichiarati, definiti o non definiti, purchè si tratti di materia di fede o prossima alla fede, dove la Chiesa è invece infallibile, ossia non può sbagliare.

A nessuno è sfuggita la novità dell’impostazione pastorale del Vaticano II, tanto che alcuni studiosi, esagerando, hanno parlato addirittura di “rivoluzione” o di “sovversione”, paragonando la storia del Concilio alla storia della Rivoluzione Francese. Alcuni, incapaci di apprezzare il progresso, ed attaccati in modo poco illuminato alla tradizione, si sono scandalizzati vedendo negli insegnamenti del Concilio una specie di criptomodernismo, da cui il loro rifiuto delle novità conciliari; altri, influenzati da una concezione modernista del progresso, leggendo sempre nel Concilio una rottura col passato, se ne sono compiaciuti, come se la Chiesa nel Concilio, dopo duemila anni di fraintendimenti, finalmente si fosse lasciata illuminare dalla luce del Vangelo e la Chiesa quindi non fosse nata con Gesù Cristo, ma solo nel 1962.

Invece occorre dire a chiare lettere che l’azione pastorale della Chiesa, nella sua essenza fondamentale, non cambia lungo i secoli, perché trae ispirazione  dall’esempio divino e permanente di Cristo buon pastore. Tuttavia è vero che nel corso della storia la conoscenza del modello offerto da Cristo progredisce continuamente sia grazie allo sviluppo dogmatico che attraverso certi errori che vengono involontariamente compiuti, come sarebbe l’applicazione di metodi pastorali che alla prova dei fatti o a lungo andare si rivelano inadatti o addirittura sbagliati e contrari al vero spirito del Vangelo. Si applica qui in certo modo il proverbio “sbagliando s’impara”. Basti pensare alla famosissima storia dell’inquisizione o alla vicenda del potere temporale dei Papi o alla storia delle Crociate, anche se forse c’è oggi chi auspicherebbe una nuova battaglia di Lepanto.

Ora il Vaticano II, come è noto, sotto l’ispirazione del famoso discorso d’apertura del Beato Giovanni XXIII, ha promosso un rinnovamento dell’azione pastorale ed evangelizzatrice della Chiesa improntata a due princìpi fondamentali: primo, la comunicazione del Vangelo agli uomini del nostro tempo con un linguaggio e modi espressivi adatti e comprensibili, mediante l’utilizzazione delle diverse culture alle quali il messaggio viene indirizzato (inculturazione). Secondo, una modalità pastorale ed evangelizzatrice indirizzata soprattutto alla messa in luce dei valori e delle verità che la Chiesa ha in comune col mondo moderno, facendo prevalere un atteggiamento di dialogo e di misericordia rispetto a quello della severità e della condanna.

Questi due indirizzi hanno pervaso ed ispirato tutti i documenti del Concilio generando una svolta profonda nell’atteggiamento della Chiesa nei confronti del mondo moderno, e facendo del Vaticano II veramente un unicum del tutto originale rispetto alla storia precedente dei Concili, che sempre si concludevano col famoso anàthema sit.

Tali indirizzi, come è stato rilevato più volte in questi ultimi decenni, hanno rimediato ad un certo costume morale farisaico, uniformista e rigorista, ad un atteggiamento della Chiesa di eccessiva separazione dagli eventi della storia moderna, di ignoranza nei confronti dei problemi e dei valori del nostro tempo e di eccessiva e non sempre calibrata polemica nei confronti degli errori moderni, nonché ad una stasi scolasticistica della ricerca e della libertà nel campo della teologia.

Questo grandioso e provvidenziale rinnovamento pastorale ha portato copiosi frutti in tutto il mondo, ma, trattandosi di disposizioni circa le quali la Chiesa non è infallibile, non dovremmo stupirci se a ragion veduta dovessimo notare qualche difetto o qualche provvedimento meno opportuno o non del tutto prudente. E di fatti, dopo più di quarant’anni di applicazione delle direttive conciliari, osservatori seri ed equilibrati della situazione ecclesiale contemporanea sono obbligati a riconoscere dagli stessi risultati ottenuti che non tutto in quelle direttive era completamente saggio e pastoralmente efficace.

Si tratta del fatto che il Concilio, reagendo opportunamente – come ebbe a dire lo stesso Papa Giovanni nel suddetto discorso – ad un lungo passato nel quale la Chiesa aveva praticato un’eccessiva severità contro i suoi figli ed un’opposizione esagerata al mondo moderno, intese correggere questa tendenza spostandosi decisamente sul versante opposto della misericordia, del dialogo, della comprensione e dell’assunzione dei valori presenti nelle culture, nelle religioni e in genere negli uomini di buona volontà del mondo d’oggi, nella speranza di rendersi più attraente e di poter diffondere meglio il messaggio della salvezza.

Il Concilio certo non dimenticava la condanna degli errori, né la necessità di quella “buona battaglia” che ci porta ad opporci alle forze del male, e neppure dimenticava le esigenze dell’ascetismo e del rigore morale. Tuttavia – e di ciò ci si è accorti nei decenni successivi – l’impostazione pastorale del Concilio era venata qua e là da atteggiamenti un po’ ingenui, un po’ troppo indulgenti, ottimisti e a volte anche troppo generici e superficiali nell’evidenziamento e nella messa in guardia contro mali, vizi ed errori pur sempre presenti anche negli uomini e nelle società del nostro tempo.

Si aggiunga il fatto che sin dall’immediato postconcilio prese piede con una forza impressionante tutta una corrente sedicente e cosiddetta “progressista” – meglio sarebbe dire “modernista” -, la quale, presentandosi come interprete dello “spirito” del Concilio, accentuò ulteriormente, anziché – come si sarebbe dovuto fare – correggere questo difetto, provocando nel costume ecclesiale un indebolimento delle difese immunitarie, forme di sincretismo e relativismo ed una tendenza morale al lassismo, al soggettivismo, al secolarismo e all’edonismo, – pensiamo alla famosa “contestazione” degli anni ’70 – i cui frutti amari oggi stiamo sempre più sperimentando in tutti gli ambienti della vita ecclesiale, nel clero e nel laicato, dalla teologia alla cultura, dalla famiglia alla società, dalle comunità religiose alle associazioni laicali.

Un grave fenomeno che si è aggiunto è stato quel nefasto equivoco, purtroppo promosso da teologi che avevano lavorato come periti al Concilio, come per esempio Rahner, Schillebeeckx e Küng, per il quale, sotto pretesto di mutare linguaggio e modi espressivi, si è finito col mutare concetti e dottrine dogmatiche, che viceversa si sarebbero dovuti religiosamente conservare e semmai difendere ed ulteriormente spiegare ed esplicitare, come del resto aveva fatto lo stesso Concilio, quando invece Papa Giovanni, sempre nel suddetto discorso, aveva detto chiarissimamente che il Concilio avrebbe semplicemente dovuto spiegare ed esprimere in modo nuovo quel medesimo patrimonio di verità di fede immutabili ed inviolabili che si sarebbe dovuto trasmettere inalterate alle generazioni del presente e del futuro.

Un compito ecclesiale che oggi appare pertanto sempre più urgente è quello di correggere questa tendenza non solo improduttiva ma dannosa, non certo tornando sic et simpliciter ai metodi del preconcilio, come vorrebbe un tradizionalismo miope ed arretrato, ma tuttavia recuperando con moderazione alcuni elementi essenziali e tradizionali oggi dimenticati dell’azione pastorale in saggia congiunzione con le nuove direttive conciliari, così da impostare un programma e un metodo di evangelizzazione e di formazione cristiana in continuità con i grandi maestri e pastori del passato che hanno saputo, con l’aiuto dello Spirito Santo, far crescere, diffondere, difendere ed irrobustire il corpo ecclesiale rendendolo vero segno di Cristo nel cuore del mondo.

Bologna, 23 febbraio 2011

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