… oggi si manifesta un cristianesimo che si sente tanto più autentico quanto più si fa nemico del minimo fremito di reverenza per la forma. La pratica religiosa ormai si gloria di attingere solo alla sostanza finendo per rimestare nella materia lasciata a se stessa. La solita borghesissima rivolta antiborghese ha instaurato una sorta di eresia dell’informe che si nutre di esegesi del brutto come unica lettura del Vangelo.
di Alessandro Gnocchi
Andrea Sacchi – ritratto di mons. Clemente Merlini
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Uno spettro si aggira laicamente per il secolo: è lo spettro della mala educazione. Ma, per quanto sia baldanzoso, avrebbe vita grama se non trovasse alimento nel confratello che si aggira religiosamente per i documenti ecclesiali col nome di ”emergenza educativa”. L’uno e l’altro, più che nei programmi di educazione civica o nei piani pastorali di nuova generazione, potrebbero trovare almeno un po’ d’argine in quei libriccini di formazione del laicato cattolico finiti nei mercatini di antiquariato. Erano pubblicati da diocesi, ordini religiosi, confraternite, pie unioni e persino da singoli sacerdoti ad uso dei loro parrocchiani. Hanno titoli come “Educazione della giovinetta cattolica”, “Manuale del giovane cristiano”, “Decoro della sposa cristiana” o “Doveri, responsabilità e precetti del capofamiglia”: roba da far ridere i pedagoghi d’oggi, ma formavano l’ambiente in cui ragazzini come Domenico Savio si santificavano preferendo la morte al peccato, oppure fanciulle come Maria Goretti e Pierina Morosini sceglievano la purezza a costo della vita, e tanti altri, senza oltrepassare la soglia di una santità conclamata, mettevano su famiglie in cui l’emergenza non riguardava il degrado dei costumi.
Il segreto della loro efficacia stava in quello che oggi viene scambiato per formalismo. Ma, per comprenderli davvero, bisogna saperli leggere con almeno un po’ di amore a ciò che trasmettevano. Allora si scoprirebbe che educavano alla buona creanza cristiana applicando un metodo condensato in sonante essenzialità al punto 252 del “Catechismo” di San Pio X: “Che cos’è la virtù morale? La virtù morale è l’abito di fare il bene, acquistato ripetendo atti buoni”. E padre Carlo Dragone, nella sua “Spiegazione del Catechismo”, così glossava nel 1956: “Nel Battesimo vengono infuse le virtù teologali e le virtù morali, che però danno soltanto la capacità di compiere atti soprannaturali e virtuosi. La facilità si acquista ripetendo gli atti buoni, in modo che si formano le buone abitudini o abiti virtuosi acquisiti. Perciò le virtù morali, che rendono buoni i nostri costumi, sono inclinazioni buone, abitudini di fare atti buoni, acquistate con l’esercizio”.
Come dire che la grazia è la materia prima della Grazia, un’evidenza che ha origine in pagine e pagine evangeliche dove la Buona Novella si fa per le buone maniere come lo stampo per la cera. “Praesta, quaesumus, omnipotens Deus: ut qui paschália festa perégimus; haes te largiénte, móribus et vita teneámus”, dice l’orazione della messa tradizionale della domenica in albis appena trascorsa, la prima dopo Pasqua: “Concedi, o Dio onnipotente, che, avendo celebrate le feste pasquali, ne conserviamo per grazia tua lo spirito nei costumi e nella vita”. E, nel Vangelo di questa messa, è proprio la buona grazia di Gesù risorto a sanare la sgarbata incredulità di Tommaso. Per lui, che otto giorni prima non era presente alla sua apparizione nel cenacolo, il Signore torna a mostrare con mansuetudine cerimoniosa le piaghe sul suo corpo: “Metti qua il tuo dito, osserva le mie mani, accosta la tua mano, e mettila nel mio costato: e non essere più incredulo, ma credente”. “Dóminus meus, et Deus meus”: vinto dall’estrema grazia con cui lo ha trattato il suo Signore e suo Dio, Tommaso ne confessa la divinità come nessun altro apostolo aveva fatto fino ad allora e poi ne porterà la lieta notizia fino in Persia e in India, fino al martirio.
E’ in questo intrattenersi così intimo e cerimonioso, dove la forma purissima del sacro fa da calco alla materialità del gesto e della parola, che l’uomo ha fruttuosa relazione con Dio. Qui dimora la saldezza delle vere conversioni, a patto che la cerimonia, fosse anche per la debolezza dell’uomo, possa ripetersi orientandosi al rito. “Il ritardo dei discepoli a credere alla risurrezione del Signore” spiega San Gregorio Magno nel “Terzo Notturno dell’Ascensione” “più che a dimostrare la debolezza loro, servì a nostra maggiore garanzia. Infatti il loro dubbio fu occasione che la risurrezione venisse dimostrata con molte prove (…). La storia della Maddalena così pronta a credere, è meno utile a me che non quella di San Tommaso che dubitò per tanto tempo, poiché questo apostolo, nel suo dubbio, toccò le cicatrici del Signore e così tolse dal nostro cuore la piaga del dubbio”.
La cerimoniosità rituale risponde alla natura liturgica dell’uomo: cosicché, per esempio, un San Francesco di Sales amava insegnare che le buone maniere sono il principio della santità o un Leon Bloy diceva che “solo le persone senza profondità non si fidano delle apparenze”. Ma oggi si manifesta un cristianesimo che si sente tanto più autentico quanto più si fa nemico del minimo fremito di reverenza per la forma. La pratica religiosa ormai si gloria di attingere solo alla sostanza finendo per rimestare nella materia lasciata a se stessa. La solita borghesissima rivolta antiborghese ha instaurato una sorta di eresia dell’informe che si nutre di esegesi del brutto come unica lettura del Vangelo.
Eppure, la vita e l’insegnamento di Gesù, i gesti più veri di chi gli sta intorno sono uno spreco di bellezza, parto della devozione spirituale al mistero di tutto ciò che esiste. Negli eventi grandiosi e nelle cose minime, nei gesti regali e nelle piccole attenzioni quotidiane, i personaggi del Vangelo sono gentiluomini vocati alle buone maniere.
Tra gli esempi più luminosi vi è la cena di Betania, nella casa di Simone. Una cerimonia così densa di gesti e di significati ulteriori che necessitano di diversi racconti evangelici per essere colti tutti. Quella sera, racconta San Luca, Gesù entrò nella casa di Simone il fariseo e si mise a tavola. “Ed ecco una donna, che era peccatrice in quella città, appena seppe che egli era a mangiare nella casa del fariseo, portò un alabastro d’unguento e stando ai piedi di lui, di dietro, con le lacrime cominciò a bagnarne i piedi e coi capelli del suo capo li asciugava e li baciava e li ungeva d’unguento”. Il padrone di casa, costernato per tanta attenzione donata a una peccatrice, aveva certamente organizzato un pranzo di grande livello, con accurata distribuzione dei commensali, precisione del servizio, qualità delle pietanze. Ma l’invitato per il quale tutto questo era stato preparato lo rimprovera perché quelle buone maniere non sono degne della Buona Novella che lui porta in dono: “Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; ma essa li ha bagnati colle sue lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, ma lei da che è venuta non ha smesso di baciarmi i piedi. Tu non hai unto d’olio il mio capo, ma essa con l’unguento ha unto i miei piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui poco si perdona, poco ama”. Minuzie da povero formalista, si direbbe oggi, eppure Gesù, perfetto Dio e perfetto uomo, ne nota l’assenza. Poiché il rito con cui si adora il Signore e la cerimonia con cui si rende omaggio al prossimo non raggiungono il loro scopo se non compiono tutto ciò che è prescritto.
Nella sua cronaca, San Matteo si sofferma sull’indignazione dei discepoli: “A che tale sciupio? Quest’unguento si poteva venderlo caro e darne il ricavo ai poveri”. Ma rimarca soprattutto il rimprovero che tale moto terreno e sentimentale provoca da parte del Signore: “Perché date noia a questa donna? Ella ha fatto una buona azione verso di me. Infatti voi avrete sempre i poveri con voi, ma non sempre avrete me. Costei, spargendo quest’unguento sul mio corpo, lo ha fatto per la mia sepoltura. Io vi dico in verità che dovunque sarà predicato questo vangelo, sarà pur raccontato a sua memoria ciò ch’ella ha fatto”. E San Giovanni precisa che il discepolo scandalizzato è Giuda Iscariota, il traditore, che preferisce i poveri a Dio.
Lungo il cortese sentiero dell’omaggio alla maestà divina si erano già incamminati i magi poco dopo la nascita di Gesù. E vi si inoltreranno Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, con circa cento libbre di mistura di mirra e aloe da spargere sul corpo del Maestro dopo la sua morte. Solo il riconoscimento del primato di Dio e delle attenzioni che gli sono dovute permette di tributarne di grandi agli uomini. Questa certezza permette al buon Samaritano di rovesciare radicalmente la prospettiva di Giuda. E’ il suo amore per Dio a fermarlo lungo la strada in soccorso dello sconosciuto ferito dai ladri. E con quanta delicatezza si appressa al suo prossimo. “Ne fasciò le piaghe versandovi sopra olio e vino; e, collocatolo sulla propria cavalcatura, lo condusse all’albergo e si prese cura di lui. Il giorno dopo, tratti fuori due denari li diede all’oste e gli disse: Prenditi cura di lui, e quanto spenderai di più te lo pagherò al mio ritorno”.
E’ la stessa attenzione che Maria presta al Signore venuto a farle visita in casa sua. Gli siede ai piedi e sta ad ascoltare la sua parola. E a Marta, la sorella che si lamenta di essere lasciata sola a servire i commensali, Gesù risponde: “Marta, Marta, tu t’affanni e t’inquieti per troppe cose. Eppure una sola cosa è necessaria. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta”.
Ma la cerimonia, così come il rito di cui è riflesso a uso di chi pratica il mondo, è fatta di manifestazioni inesplicabili ad occhio laico tanto quanto i nascondimenti cui non può rinunciare. Per questo, nel Vangelo di San Matteo, il Maestro prescrive: “Quando digiunate, non vogliate imitare gli ipocriti, che prendono un’aria malinconica e sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico che han già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece quando digiuni, ungiti il capo e lavati la faccia, affinché non agli uomini tu appaia come uno che digiuni, ma al Padre tuo, che è nel segreto; ed il Padre tuo, che vede nel segreto, ti darà la ricompensa”.
Non vi è precetto più alto che scandisca il tempo dell’eleganza e della grazia. La sua pratica è un atteggiamento morale che, un passo prima della santità, si chiama sprezzatura. Equilibrio tra rigore e levità che si traduce in rispetto per il soffio divino nascosto anche nella più piccola scaglia di creato. Nasce da questa radice l’amore con cui Maria accetta la morte del Figlio inchiodato alla croce. Dolorosa e gioiosa comprensione del mistero più grande, radicata nell’adesione all’annuncio dell’angelo Gabriele: “Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola”. Il racconto dell’annunciazione può essere letto come un trattato di buone maniere, un capolavoro della cerimonia che non ha uguali. Non vi si trova una parola fuori posto, non vi è un fremito che tradisca cedimento, non un’ombra di rinuncia: e si sta decidendo il destino dell’universo.
Principio della santità, le buone maniere sono efficace difesa contro le trappole del demonio. Incapace di conoscere i pensieri dell’uomo perché di altra natura, insegna San Giovanni Cassiano nella “VII Conferenza ai monaci”, il principe di questo mondo li può indovinare osservando i movimenti del corpo: “A nessuno viene il dubbio che gli spiriti immondi riescano a conoscere la natura dei nostri pensieri; quegli spiriti però possono arrivare a individuarli fondandosi sugli indizi sensibili che ad essi appaiono dal di fuori, vale a dire dalle nostre disposizioni o dalle nostre parole, e anche dalle tendenze alle quali ci scorgono inclinati con maggiore apprensione”.
Lettura preferita di San Filippo Neri, Cassiano è fonte della Regola di San Benedetto, quella mappa per la santificazione fatta solo di minuziose prescrizioni per il comportamento nella vita quotidiana dei monaci. Giunto agli ultimi due gradini dell’umiltà, Benedetto si sofferma su dettagli incomprensibili al cristianesimo maleducato di oggigiorno: “L’undicesimo gradino dell’umiltà è quello del monaco che, quando parla, lo fa delicatamente e senza ridere, con umiltà e compostezza, e dice poche e assennate parole e non fa chiasso con la voce (…). Il dodicesimo gradino dell’umiltà si ha se il monaco non solo coltiva l’umiltà nel cuore, ma la mostra anche con l’atteggiamento esterno a quelli che lo vedono: cioè nell’ufficio divino, in chiesa, nell’interno del monastero, nell’orto, per via, nei campi, dappertutto insomma, quando siede, cammina o sta in piedi, ha sempre il capo chino e lo sguardo fisso a terra”.
Rispetto alla solidità dei primi gradini, pare quasi che questi ultimi siano esili e persino evanescenti. Ma lo sono soltanto allo sguardo di chi non vi vede la perfezione prendere forma in esistenze capaci di indurre alla conversione con un semplice gesto: un atto di riverenza davanti al Crocifisso, una genuflessione al cospetto del tabernacolo. Manifestazioni di un mondo di cui al laico è possibile ancora percepire fremiti e atmosfere nei salottini d’attesa di certi conventi e certi monasteri o in qualche canonica: luoghi levigati dal tempo dilatato dello spirito, tirati a cera come in altri secoli, i muri lindi e profumati, Crocifisso, ritratto del fondatore e soprammobili al loro posto da sempre. Crisalidi spirituali in cui il sopraggiungere della tal suora e del tal padre sono epifanie di destini avviati alla perfezione.
Fu questo uno dei tratti che conquistò il cardinale Newman alla vocazione per l’Oratorio di San Filippo Neri. In un discorso al Capitolo del 1848 scriveva: “Un Oratoriano possiede la sua stanza e i suoi mobili, i quali, (…) senza essere suntuosi, dovrebbero fare in modo che sia possibile affezionarvisi. Insieme non formano una cella, ma un nido. L’Oratoriano deve essere circondato dalle sue cose, i suoi libri, gli oggetti personali: in una parola deve vivere, per dirla con un tipico termine inglese, nel comfort. (…) La chiesa deve essere bella, le funzioni religiose devono essere condotte con meticolosità e, se possibile, con magnificenza; la musica deve essere attraente (…). Avarizia, povertà, austerità, trascuratezza, rigore sono parole sconosciute in una casa Oratoriana”. E, se deve indicare il modello per un Oratoriano, Newman lo vede nel ritratto di monsignor Clemente Merlini dipinto da Andrea Sacchi: “seduto in una poltroncina con atteggiamento riposato: una mano si allunga sul tavolo, l’occhio è vivace e scintillante, l’espressione allegra”.
Il buon cristiano è tale quando ripugna al mondo per ciò che testimonia e non per come si presenta. Se deve versare il sangue, tra i suoi modelli contempla Tommaso Moro, che il 6 luglio 1535 salì il patibolo portando come ultimo bagaglio la sua santità, le buone maniere e una parola di conforto per il boia: “Amico io sono pronto e voi fatevi coraggio… Vi avverto che ho il collo corto e perciò state attento a colpire giusto per non macchiare la vostra buona fama”.
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fonte: Il Foglio
12 commenti su “Lo spettro della mala educazione – di Alessandro Gnocchi”
Gnocchi come sempre superlativo. Anche se pochi, anche se reietti ed emarginati dalla dirompente vulgata psicopedagogica luterana di vescovi e preti che si vergognano di esserlo, si deve proseguire nel dire e fare cose sensate. Questa sbornia adolescenziale, pnuematofora passerà come sono passate tutte le oltre 3000 eresie più o meno dolci e conclamate. Oggi questa sembra picchiare duro specie dopo il 13.3.13. Ma tutto passa, quindi non disperiamo e ringraziamo di avere teste e penne come il grande Alessandro Gnocchi. come Vassallo, De Mattei. Livi Padre Ariel . E attingiamo ancora copiosamente, oggi più che mai, al mare di bello e di buono che il carissimo Mario Palmaro ci ha lasciato. Mi sono riletto ancora ci salveranno le vecchie zie. Uno spattacolo! Ho pensato a cosa avrebbe scritto della telefonata del vescovo di Roma a Giacintone Satanasso Pannella…
un ottimo articolo, che diffonde l’aroma della buona teologia e della vera pietà
Grazie, Prof. Gnocchi, per questo bellissimo articolo.
Caro Alessandro.
Commento narrandoti un episodio risalente alla scorsa estate e lo faccio per approvare tutto ciò che hai scritto.
Presso la chiesa di una certa diocesi d’Italia dove mi trovavo a soggiornare per un periodo di vacanza, mi era stata data da celebrare la Santa Messa alle ore 18.
Giungo come mio solito con abbondante anticipo, visto che il prete, alla Messa, non si prepara solo vestendosi – semmai anche di fretta o peggio giungendo all’altare di corsa – ma soprattutto pregando, per poi procedere con tutte quelle parole, questi gesti e quei movimenti lenti che la liturgia, sia feriale sia festiva, richiede e dovrebbe di prassi richiedere.
Quando giunsi era in corso la celebrazione di un matrimonio.
Io che ero stato al mare nel pomeriggio, lungi dal presentarmi in chiesa vestito con pantaloncini e maglietta – come invece ho visto fare ripetutamente a diversi preti – vado prima a casa, mi preparo, indosso come di prassi la veste talare con la quale mi presento sempre e ovunque a celebrare, dato che il clergyman in alternativa lo uso eccome, ma solo al di fuori da tutti gli atti sacramentali e di tutti gli atti di ufficialità ecclesiale e pastorale.
Simpatizzante lefebvriano … “tradizionalista” …?
Ma quando mai!
Semplice e sereno prete cattolico che si attiene come tale a quanto dispone il Codice di Diritto Canonico ed a quanto la Chiesa ha ribadito dal 1967 al 2008 attraverso esortazioni fatte direttamente dai Sommi Pontefici Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, oltre a numerosi documenti e inutili esortazioni date dalla Congregazione per il Clero e dalla Conferenza Episcopale Italiana, formata quest’ultima da oltre 200 vescovi incapaci a imporre ai propri preti di vestire da preti come la Chiesa comanda; vai a una Santa Messa Crismale e … “goditi” lo spettacolo per così dire: casual-pretesco, perché se non vi fosse da piangere vi sarebbe da ridere.
Per farsi breve: entro in questa Chiesa mentre sta volgendo alla fine la celebrazione di un matrimonio, ed appena varcata la porta mi ritrovo dinanzi a un gruppo di cosiddette teenegers su sessant’anni, conciate a questo modo:
– spalle completamente scoperte;
– seni mezzi di fuori;
– minigonna vertiginosa;
– zeppe ai piedi da quindici centrimetri.
Se poi ciò non bastasse:
– intente a chiacchierare durante la celebrazione.
… e lasciamo perdere il trucco, perché una prostituta dei sobborghi metropolitani non sarebbe arrivata a tanta vistosità e cattivo gusto.
Le guardo e domando:
“Si entra in chiesa in queste condizioni?”.
Una delle tre non trova di meglio da fare che replicarmi dicendo stizzosa e provocante:
“Perché, non le piace?”.
A quel punto è sortito subito fuori – e reputo pure giustamente – il figlio di Boccaccio, di Pietro l’Aretino, di Cecco Angiolieri .. tal io sono :
“Senta, mia cara, non solo nella mia vita ho visto molto di più, ma soprattutto le sia chiara una cosa: ho visto molto di meglio”.
Non dico come erano agghindate le altre presenti nella chiesa, a partire dalla sposa all’altare, con spalle e schiena totalmente scoperta e con una scollatura davvero indecente.
Il giorno dopo, le tre teenegers sessantenni che avevo pizzicato, sono andate a protestare dal parroco, che a testa china si è scusato con loro giustificandosi che ero un prete straniero; insomma: quasi come se appartenessi a un’altra Chiesa (o religione) e fossi capitato lì per sbaglio.
Successivamente ebbi occasione di incontrare anche il vescovo di quella diocesi, che con un falso sorriso clericale sulle labbra mi disse:
“Lei è libero di fare il censore, se vuole, ma sappia che qua non attacca …”
Replicai testualmente:
“Vostra Eccellenza è libero invece di far entrare le sgualdrine sfrontate dentro le proprie chiese, cosa invece questa che attacca eccome: attacca la sua Chiesa particolare”.
Si fece paonazzo e mi disse:
“Ricordi, che il Signore perdonò Maddalena”.
Replicai:
“Lei che del Vangelo è sommo maestro dovrebbe insegnare a tutti quanti anche il seguito di quella storia, la licenziò dicendole: vai e non peccare più. Non le disse: continua a fare la sgualdrina”.
Ora, mio caro Alessandro, il problema della maleducazione diffusa anzitutto nel clero, è dovuta al fatto che mancano anzitutto educatori e formatori; e se prima non si è stati educati e formati, non si può educare e formare, ma solo diseducare e deformare.
Fai un giro per i seminari italiani e vedrai subito che flora e che fauna vi dimora, a partire dai formatori.
Una volta, nei nostri seminari, entravano anche e soprattutto figli di famiglie contadine poverissime; e dopo un po’ di anni ne uscivano fuori preti educati come dei perfetti gentiluomini.
Oggi siamo ridotti che se baci la mano a certi vescovi rischi di prenderti uno schiaffo sulla bocca mentre te la ritirano di scatto.
“Sono cose che non usano più!”
Mi disse stizzoso un vescovo al quale risposi:
“Badi bene, che io non mi sognerei mai di baciare a schiena curva la mano a un povero soggetto come lei, io bacio la mano al mistero e al ministero della pienezza del sacerdozio apostolico, perché se a lei non è chiara la dignità che le è stata conferita, a me sì”.
Così è, caro Alessandro, ma sono certo sia chiaro anche a te che tutto questo non potrà proseguire ancora oltre, ormai, siamo agli sgoccioli. Tra poco imploderemo e poi ripartiremo con la ricostruzione sulle ceneri.
Con sincero affetto.
Ariel L.d.G.
Stiamo molto attenti affinché dopo il caos, prima e in maniera più efficace di noi pochi cattolici rimasti a combattere come giapponesi nella giungla, qualcuno non arrivi a ricostruire “a new world order”…
Questo è il mio timore visto che ormai il fumo di satana è ormai ben penetrato anche all’interno della Chiesa, l’unica che poteva opporsi seriamente a questo triste declino (imposto) della civiltà occidentale.
Per il resto condivido sia l’articolo che il Suo commento, come quello degli altri lettori.
Grazie!
Mi scusi padre Ariel ma cosa intende con “tra poco imploreremo”? Cordialita
Caro Gabriele.
Errore di battitura, volevo scrivere: “tra poco IMPLODEREMO”.
Scusate l’errore.
Come sempre tutti ottimi gli scritti.
Aggiungo che fin da quando ero giovane sostenevo che l’apparenza conta molto e
quanto dice Cassiano me lo conferma in pieno, anche nei confronti del nemico.
GRAZIE!!!
Quando leggo il suoi scritti caro Sig. Gnocchi , mi sembra di sentire il buon profumo di pane di una volta. E’ veramente una bellezza ed una grazia il suo modo di scrivere.
Sono anch’io una “teenaeger” di 60 anni, mi dicono, ancora, di ottimo aspetto. Ciò nonostante non mi sognerei mai di entrare in una chiesa se non adeguatamente e decorosoamente vestita, per rispetto non solo per Dio, in cui credo, e per gli altri fedeli presenti, ma anche per me stessa. Non ho in odio il mio corpo, che curo al meglio anche sul piano estetico, ma ci sono luoghi e luoghi, circostanze e circostanze, che portano naturalmente ad atteggiamenti diversi. Una chiesa non è l’arenile di una spiaggia, e questo dovrebbero capirlo anche i bambini, per non parlare di preti e vescovi. Sono sconcertata; non ho parole. Devo constatare, con rammarico, che anche nella mia città, le mie coetanee, ma soprattutte quelle più giovani, sono molto lontane da queste ovvie posizioni, e i preti lasciano fare, anzi, appaiono addirittura contenti di ciò che vedono. Grazie per quanto ho letto. Mi piace sempre ciò che scrive Ariel. Mi dà ancora speranza e mi fa sentire meno sola.
grazie per il bellissimo articolo di Alessandro Gnocchi, bello anche il commento di padre Ariel, sono boccate di ossigeno per le nostre anime. Dio abbia misericordia di noi
GRAZIE