FIGLI DI HEGEL, NIPOTINI DI BUDDA – di Piero Vassallo

di Piero Vassallo

 

 

Gianni Vattimo, artefice della fede che crede di credere, si lanciò con impeto contro Pier Paolo Ottonello, autorevole interprete della filosofia cattolica, colpevole d’insistere sul fondamento oggettivo della verità. “Possibile, domandò inviperito, che non si possa tornare a leggere il Vanvattimogelo senza passare attraverso il recupero dei luoghi naturali dell’aristotelismo medievale e del don Ferrante manzoniano?”.

Convinto che la citazione di don Ferrante abbia travolto la metafisica cristiana sotto la slavina ridarellara, Vattimo espose, con accademica tranquillità, l’assioma scientifico della neoreligione: “la verità non si dà se non come interpretazione[1].

Imperterrito nella vacillante certezza della modernità (dopo Kant il pensiero cattolico è estirpato), Vattimo omise di precisare che l’abbassamento della verità ad interpretazione soggettiva, cioè l’aggiramento del principio d’identità codificato da Aristotele, rappresenta la frantumazione di dualismo soggetto-oggetto, un colpo mortale vibrato alla radice del senso comune.

Infatti oltre il dualismo soggetto-oggetto si trova soltanto l’arcipelago della cineseria esoterica e dell’illusionismo, ultimamente raccomandato quale antidoto alla ragione (definita fascista).

Il facile umorismo intorno a don Ferrante e il terrifico appello all’antifascismo diventano scientificamente proponibili dopo la rivoluzione mentale, che ha prodotto il superomisno di Nietzsche, l’autore che Vattimo ha frequenta con bigotta assiduità: “cultura superiore capace di dare all’uomo un doppio cervello, qualcosa come due camere cerebrali, una per sentirci la scienza, una per sentirci la non scienza(“Umano, troppo umano”, I, § 251).

Solo la mente bicamerale delli huomini superiori è capace di opporsi efficacemente alla tradizione metafisica, secondo cui la conoscenza è conoscenza di oggetti e non di interpretazioni.

Licenziato il bieco Aristotele, la filosofia si riduce al dominio di pensatori inarrivabili e ineffabili, radicati nel presunto diritto al controsenso,  e perciò convinti d’esser tutto e il contrario di tutto.

La fuga dai luoghi naturali dell’aristotelismo medievale si traduce in precipitoso viaggio verso le curiose dottrine dello Zen, dello shivaismo, del taoismo e dello sciamanesimo.

Mentre l’allegria di Vattimo evocava l’ombra di don Ferrante, un autorevole docente dell’università patavina, Giangiorgio Pasqualotto, pubblicava un’ampia tavola delle concordanze tra il pensiero antimetafisico e il senso comune.

Nel secolo XIX Rosmini scriveva che uno dei segni più inquietanti del delirio moderno era la divisione della masse in due partiti, gli increduli e i superstiziosi [2]. Pasqualotto portò a felice conclusione l’impresa alchemica di fondere in un sol blocco o pietra filosofale, la superstizione e l’incredulità.

Oggetto del confronto istituito da Pasqualotto erano gli autori – Eraclito, Spinoza, Nietzsche ed Heidegger – che rappresentano simbolicamente la tradizione surrealista e panteista, ultimamente rovesciata nel pensiero debole.

Ora l’analisi minuziosa dei testi rivela che i quattro auttori del pensiero debole hanno in comune alcuni princìpi essenziali: il rifiuto del dualismo soggetto-oggetto, l’affermazione di una conoscenza superiore – di terzo genere – non accessibile ai profani, la negazione del principio d’identità, l’irenismo europeo e le dottrine superiori-occulte dell’oriente taoista e buddista zen, insieme con un dettagliato elenco delle vertiginose acrobazie messe in atto per superare spontaneismo etico.

Pasqualotto non riproponeva la vecchia tesi sullo scambio tra le culture dell’Occidente e dell’Oriente. Eraclito, infatti, è più antico del Taoismo, Nietzsche non avrebbe potuto leggere i sacri testi dello Zen, diffusi in Europa dopo la grande guerra. Ma rivendicava l’universalità e l’antichità della tradizione irrazionalistica.

Espressione del diffuso stato d’animo new age, la sua opera, è un inno ecumenico al pensiero doppio e un catalogo dei deragliamenti cinesi della ragion moderna.

Non a caso, al centro dell’universo s-pensante, era posto il vertice speculativo della modernità: Pasqualotto dimostra che il principio della dialettica hegeliana – ogni essere è altro da sé, ogni essere è se stesso – è identico a quello del taoismo e della filosofia presocratica [3].

La verità è che la notizia circa la fine della metafisica nasce dalla suggestione abbagliante, che promuove la guerra del pensiero doppio contro la realtà.

Il fumo soffiato dal carbonaio Vattimo, che insinua la confusione tra la pseudoscienza di don Ferrante e gli indeclinabili princìpi del senso comune.

In questa guerra Hegel rappresenta il compimento dello scientismo illuministica, Nietzsche la dissoluzione del pensiero hegeliano nelle forme neopagane di un pensiero che fa il verso delle più grottesche  dottrine occulte. Grazie a Nietzsche, i figli di Hegel diventano nipotini di Budda.

Un umorista alla Vattimo direbbe che per scongiurare l’affondamento della sapiente nave di Bosch, non rimane altro che la mitica remora di don Ferrante… o il pesciolino sacro alla dea Kalî.



[1] “Chiesa, la sindrome di don Ferrante”, La Stampa, 25 febbraio 1997.

[2] “Filosofia della politica”, l. III, c., op. cit., pag. 355, in nota. Rosmini aggiungeva: “io ho additato questi segni appariti negli ultimi tempi del romano impero”.

[3] “La filosofia del Tao”, Est, Milano, 1997, pag. 27.

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