di Giovanni Lugaresi
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25 Aprile. Non abbiamo aspettato i libri di Giampaolo Pansa, così disprezzati da tanta parte della sinistra, anche se anni fa un certo Otello Montanari, esponente della Resistenza rossa, aveva pronunciato una frase emblematica: “chi sa, parli!”. Si trattava di un saper e un dover parlare dei e sui crimini di parte della resistenza comunista. Ma quell’appello cadde praticamente nel vuoto. Perché se c’era stato un Giorgio Pisanò (ex repubblichino) a scrivere delle mattanze dei rossi durante e dopo la resistenza, soltanto adesso abbiamo avuto e continuiamo ad avere un Pansa, appunto, che non è mai stato comunista, ancorché a sinistra si sia sempre collocato.
Sì, quando la grancassa partigianresistenziale romagnola suonava ogni anno il 25 Aprile vedendo uniti democristiani, comunisti, socialisti, repubblicani, eccetera, la domanda che sorgeva spontanea in chi scrive, allora giovane ma non privo di senso critico, così suonava: erano insieme per combattere il fascismo e il nazismo, ma come fanno a restare uniti se i comunisti alla dittatura nera avrebbero voluto far subentrare una dittatura rossa? Se infatti cattolici, repubblicani, liberali, socialisti (e monarchici, beninteso, perché i primi resistenti furono loro – leggasi Elena Aga Rossi!) si battevano per la libertà, per la democrazia, gli altri invece no! E’ stata, e ancora per tanta parte resta, una delle ambiguità nazionali. E una delle ipocrisie care agli italiani. Per cui anche il prossimo 25 aprile, assisteremo al rituale del tutti insieme, appassionatamente, e avanti… Oh bella, ciao!
Restii ad associarci al peana partigianresistenziale in virtù del motivo citato, ci viene in mente un libro attualissimo di don Primo Mazzolari: “I preti sanno morire”: una via crucis del clero italiano vittima, ed ogni stazione del percorso di Gesù verso il Golgota aveva fornito occasione a don Primo per una meditazione sul ministero sacerdotale. Una lettura di giovinezza che andiamo riprendendo di quando in quando, ma allora, per la prima volta leggemmo da parte resistenziale un’espressione eloquentissima: “gli anni della caligine, che sono poi quelli della guerra civile”. Don Mazzolari, in mezzo alla retorica dilagante, parlava e scriveva di “guerra civile”, sì… lui antifascista!
Come in tutte le guerre civili, fin dall’antichità, c’è una componente che peraltro si trova (accomunandoli) nei due campi: l’odio! Ebbene, nei sacerdoti uccisi in quegli anni c’era amore: amore per la loro gente, amore per il prossimo, amore per i perseguitati, con una sconfinata pietas per i morti, nonché con una consapevolezza straordinaria del loro ministero.
Accanto a quei trecento preti fatti fuori dall’odio delle parti ce ne furono poi tanti, tantissimi, impegnati nel soccorrere il prossimo, anche a rischio della vita.
Ecco, allora, che proprio in questo 25 Aprile ci sovviene un episodio che non è stato glorificato, portato ad esempio, dai cattolici resistenziali…
In un volume uscito nel 1997 e che dovrebbe essere ristampato (si troveranno in Romagna un editore e uno sponsor?!), data la sua serietà storica, a firma dello studioso Enzo Tramontani, “Pastori nella tormenta” (“Il clero ravennate-cervese negli anni della Resistenza 1943-1945” – Edizioni Risveglio 2000), si legge infatti dell’eccidio del Ponte degli allocchi – poi Ponte dei Martiri.
Che cosa accadde, dunque, sul Ponte degli allocchi allora? Per rappresaglia in seguito all’uccisione del brigatista nero Leonida Bedeschi (detto “cativeria”), dodici partigiani furono uccisi al Ponte degli allocchi, appunto: Domenico Di Janni, Augusto Graziani, Michele Pascoli, Raniero Ranieri, Aristodemo Sangiorgio, Valsano Sirilli, Edmondo Toschi, Giovanni Vallicelli, Pietro Zotti, fucilati; il professor Mario Montanari, notissima figura del Ricreatorio, dell’Azione Cattolica e del Partito d’Azione, raggiunto da una sventagliata di mitra mentre cercava di fuggire; infine, Natalina Vacchi e Umberto Ricci, impiccati, dopo avere assistito all’esecuzione dei compagni. Era il 24 agosto 1944 e quella scena di cadaveri ancora caldi si presentò al chierico Giovanni Baldini che, abitando nella zona, passava ogni mattina sul ponte diretto in seminario per la messa.
Sconvolto dalla scena, corse a perdifiato ad avvertire il vicerettore don Giuseppe Brasini, peraltro già allarmato per i ripetuti colpi di arma da fuoco. Il sacerdote prese il vaso degli olii santi e insieme al chierico si affrettò al luogo dell’eccidio. Chinatosi su ogni cadavere, don Brasini conferì a quegli sventurati “l’estremo segno della fede”…
Non era peraltro, questa, l’unica manifestazione di solidarietà sacerdotale che contraddistingueva il sacerdote in quel periodo. In seminario erano stati accolti, sotto la sua diretta responsabilità, fuggiaschi, perseguitati, poveri. Le manifestazioni di riconoscenza pervenutegli nel dopoguerra non si contarono. Ma di quelle azioni, di quel ruolo svolto negli “anni della caligine”, quel sacerdote non menò mai vanto, anzi. Consigliere dell’Opera nazionale orfani di guerra e poi presidente del comitato provinciale, agì sempre con grande spirito di carità, con efficienza e sempre nella riservatezza.
Nato nel 1908 a Pisignano di Cervia, don Giuseppe Brasini moriva nel 1991 a Ravenna, dove era sempre vissuto. Né a Pisignano, né a Ravenna, c’è una strada che lo ricordi.
Ma a noi piace farlo, un ricordo, proprio tra i frastuoni della grancassa del 25 Aprile… in silenzio! E questo è certamente un 25 Aprile davvero “diverso”.
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pubblicato anche su “La Voce di Romagna”
1 commento su “Un “altro” 25 aprile. In memoria di Don Giuseppe Brasini, eroe della carità negli anni della caligine – di Giovanni Lugaresi”
Grazie per la sua narrazione , mi metterò alla ricerca di questi libri .