L’universo concentrazionario dei Gulag sovietici – di Dionisio di Francescantonio

Campo Gulag

di Dionisio di Francescantonio

Campo GulagNel mondo occidentale l’esistenza dei gulag in Unione Sovietica era quasi del tutto ignota fino a quando non apparve l’opera Arcipelago Gulag di Aleksàndr Solzenicyn, in cui lo scrittore russo, tra il 1970 e il 1974, li descrisse per la prima volta con minuziosa crudezza. L’acronimo gulag sta per “Amministrazione generale dei campi d’internamento”, dove finivano tutti i nemici della rivoluzione sovietica o, come prese a definirli il regime da un certo momento in poi, gli elementi “estranei alla società”, ossia tutti i non assimilabili all’edificazione della società comunista. Il sistema dei campi di concentramento punitivi appartiene alla storia sovietica fin dai suoi esordi  (già nel 1920, nell’arcipelago delle Soloveckie, cinque isole situate nel Mar Bianco a circa duecento chilometri dal circolo polare artico, erano stati creati lager di lavori forzati per tutti coloro che si opponevano al regime bolscevico), ma il suo enorme sviluppo si ebbe durante il lungo dominio di Stalin, conclusosi solo all’inizio degli anni Cinquanta con la sua morte. Fu proprio dall’esempio fornito dalle Soloveckie che il sistema di lavoro forzato si affermò. Gli organismi statali decisero di sfruttare  il lavoro dei detenuti non più, come si diceva originariamente, “a scopo rieducativo”, ma quale fonte di profitto per lo Stato bolscevico. E poiché lo scopo dei bolscevichi  era quello di spingere la Russia in un processo di industrializzazione forzata che ne aumentasse le risorse difensive/offensive contro il nemico capitalista, la cosiddetta patria della “liberazione degli schiavi dalle catene del capitalismo” tornò semplicemente alla pratica dello schiavismo più totale e brutale. I nuovi schiavi per dissenso politico furono spediti nei campi di lavoro installati in luoghi remoti e inospitali, soprattutto nella sterminata regione del nord della Russia, ma ricchi di risorse necessarie allo sviluppo della patria del comunismo quali oro, stagno e soprattutto legname ricavabile dalle immense foreste siberiane. All’inizio del 1921 nei lager erano finiti più di 156.000 persone, mentre alla fine del 1938 erano già due milioni. E nel 1953, quando Stalin morì, i forzati dovevano aggirarsi intorno ai 10 milioni.
Le condizioni di vita dei reclusi nel gulag erano a dir poco disumane. Le testimonianze di Solzenicyn e di Varlam Salamov, entrambi narratori di grande talento oltre che deportati di lungo corso, le illustrano con potente efficacia. Il primo elemento che caratterizzava l’esistenza del recluso era la sottoalimentazione, e quindi una fame cronica e ossessiva. Salamov, nei suoi “Racconti di Kolyma” (la Kolima era una desolata regione di paludi e di ghiacci della Siberia, dove l’autore rimase internato per molti anni) scrive: “Ne avevamo tutti quanti abbastanza del vitto che distribuivano al campo, dove ogni volta ci veniva quasi da piangere alla vista dei grandi bidoni di zinco pieni di minestra… Eravamo pronti a piangere per la paura che la minestra fosse troppo acquosa. E quando accadeva il miracolo che la minestra era densa, non ci potevamo credere e, pieni di gioia, la sorbivamo piano piano. Ma anche dopo una minestra densa, nello stomaco così riscaldato restava un dolore sordo: facevamo la fame da troppo tempo”. Dal canto suo Solzenicyn ci illustra la devastazione compiuta nelle coscienze dalla fame riferendo la considerazione fatta dal detenuto incaricato di ritirare le scodelle svuotate dai suoi compagni: “Se nelle scodelle è rimasto qualcosa, non ce la fai e finisci per leccarle”.   
Ma come si finiva nel gulag? Il regime sovietico si caratterizzò immediatamente, già dal suo stesso nascere, come un meccanismo di repressione e persecuzione nei confronti dell’intera popolazione, giacché i nemici di una rivoluzione che pretendeva l’annullamento di ogni individualità e di ogni iniziativa privata nascevano e si moltiplicavano man mano che il sistema mostrava tutta la sua distanza dalle abitudini dell’uomo e da quella della stessa realtà della vita, insieme alla sua implacabile ferocia. Ma in epoca staliniana,  tra collettivizzazione forzata dell’agricoltura, “piani quinquennali” per lo sviluppo accelerato dell’industrializzazione che pretendeva ritmi di lavoro massacranti per tutti, insieme alla smania di stanare tutti i “sabotatori” di un programma di produzione troppo ambizioso per un paese economicamente arretrato e capace solo di causare, sul piano economico e sociale, un peggioramento delle condizioni dell’intera popolazione, ebbe inizio quel cupo periodo di terrore che scatenò una vera e propria “epidemia di arresti”, come la chiama Solzenicyn, e durante il quale “la sentinella della Rivoluzione acuì lo sguardo e, ovunque lo dirigesse, scopriva subito un nido di sabotaggio”. In tutta la Russia si creò un clima agghiacciante, una sorta di incubo permanente basato sul sospetto e sulla delazione. Per molti anni nessuno poté essere sicuro di non finire, prima o poi e senza nemmeno sapere perché, nel mirino della polizia segreta, la Ghepeù staliniana. “Fu un’aggressione micidiale, quasi unica nella storia per dimensioni, sferrata da un governo contro il suo popolo” prosegue Solzenicyn “e le accuse contestate a milioni di vittime erano quasi senza eccezione completamente false. Stalin ordinò, ispirò e organizzò di persona l’operazione. Tutte le settimane riceveva rapporti non solo sulla produzione di acciaio e le cifre relative al raccolto, ma anche sul numero delle vittime eliminate”. Uno dei provvedimenti più perversi emanati dal dittatore sovietico per scatenare il sospetto perfino all’interno dei nuclei familiari fu quello della comminazione della deportazione “per mancata vigilanza rivoluzionaria” ai familiari degli inquisiti, per cui accadeva spesso che un componente d’una famiglia denunciasse i familiari per scongiurare la possibilità di finire tra i sospettati, pur sapendo che i congiunti non erano colpevoli di nulla.
solzenicyn vivere senza menzognaUna volta nel gulag, per il deportato iniziava una vita d’inferno. L’orario di lavoro dei forzati, dalle 12 alle 16 ore al giorno, era massacrante all’estremo, specie se si considera l’inclemenza del clima in regioni dove l’estate dura poco più di un mese e il resto dell’anno è un inverno ininterrotto con temperature oscillanti dai meno 35 ai meno 60 gradi. Ai detenuti, sempre insufficientemente coperti, non si concedeva nulla, né tutela contro il freddo spaventoso né sconti sul lavoro. Il detenuto era obbligato a produrre la misura giornaliera di lavoro prestabilita dai carcerieri.  Se la misura non era raggiunta per più giorni, il forzato, come racconta Salamov, veniva condotto nottetempo nella foresta, dalla quale i dormienti sentivano provenire l’eco d’uno sparo. Il detenuto trascinato nella foresta, allorché si rendeva conto di ciò che l’aspettava, “rimpiangeva di aver lavorato, di aver tanto patito per niente anche quel giorno, quel suo ultimo giorno di vita”. L’eliminazione dei deportati non più sufficientemente produttivi era frequentissima. Il colpo alla nuca a cui allude Salamov si poteva ancora considerare un atto di misericordia; più spesso il detenuto veniva chiuso in gabbia, portato lontano dalle baracche e lasciato morire atrocemente nel gelo della notte. La mortalità nei campi, stando ai resoconti stilati dalla Ghepeù, fu del 10 per cento nel 1932 e del 20 nel 1938, ma è probabile che le percentuali reali fossero molto più elevate. I gulag più duri, in particolare quelli minerari, erano veri e propri campi di sterminio, nei quali ben pochi sopravvivevano fino alla fine della detenzione. I sovietici non disponevano di camere a gas o di forni crematori  come nei campi nazisti, ma forse solo perché la combinazione risultante dal clima insopportabile, dal lavoro estenuante, dalla denutrizione cronica, dalla mancanza di igiene, dalle umiliazioni, dalle percosse e dalle malattie che derivavano dalla somma di questi fattori (come lo scorbuto, la pellagra, la tubercolosi, il congelamento degli arti e altro), costituiva una miscela sufficientemente letale per garantire una rapida eliminazione degli elementi “inutili” o “asociali”. D’altronde la consegna per tutti i dirigenti dei campi era che dal forzato bisognava prendere tutto quello che poteva dare fin che le forze lo reggevano; dopo non serviva più. Ma, a questo proposito, sentiamo ancora una volta Salamov: “Nei lager, perché un uomo giovane e in buona salute – che ha iniziato la sua carriera sul fronte di taglio di un giacimento aurifero, in inverno, all’aria aperta – si trasformi in dochodjaga, un morto che cammina, bastano da venti a trenta giorni di lavoro, con orari giornalieri di sedici ore, senza giorni di riposo, con una fame costante, gli abiti a brandelli e le notti passate sotto una tenda catramata piena di buchi mentre all’esterno la temperatura scende a meno di sessanta gradi, con i pestaggi inferti dai “caporali”, dai capigruppo scelti tra i malavitosi e dai soldati della scorta… Le squadre che aprono la stagione aurifera e portano il nome del loro caposquadra, alla fine del periodo di scavo non hanno più neanche uno degli uomini presenti inizialmente, a parte il caposquadra stesso, il “piantone” responsabile della baracca e qualche amico personale del caposquadra. Gli altri elementi cambiano tutti, e più volte nel corso di una stagione. Il giacimento aurifero getta senza soste le scorie umane della produzione negli ospedali e nelle fosse comuni”
Molte delle realizzazioni “titaniche” portate a termine dal regime sovietico (la definizione era dello stesso Stalin) furono in gran parte dovute al sacrificio di quei “morti che camminavano”, schiavi privati d’ogni diritto e brutalmente trattati: queste furono l’apertura dei canali Mosca-Volga, Volga-Don e quello tra il Mar Baltico e il Mar Bianco, la centrale  idroelettrica di Kujbeysev, la diga sul Dnepr, il complesso chimico di Berezniki e il complesso industriale di Magnitogorsk, nonché i nuovi insediamenti urbani siberiani di Komsomolsk, Vorkuta, Noril’s e Magadan. Imprese spesso grandiose, come fu, indubbiamente, la diga sul Dnepr, ma in qualche caso, come il canale del Mar Baltico, rivelatisi veri e propri errori, che si tradussero semplicemente nello sperpero delle cospicue riserve investite per realizzarlo. Infatti, il canale, una volta costruito, risultò inutilizzabile: solo le chiatte a fondo piatto riuscivano a percorrerlo, mentre nelle intenzioni dei suoi promotori avrebbe dovuto consentire alla flotta del Baltico di collegarsi a quella settentrionale. Quasi sempre, in ogni modo, tali imprese “titaniche” assorbirono una parte troppo ingente delle risorse nazionale, e per risorse intendiamo qui solo quelle finanziarie perché lo spreco di quelle umane fu spaventoso.  Per usare l’espressione di un esponente della Ghepeù, i forzati addetti alla realizzazione di questi progetti, “morivano come mosche”; ma si provvedeva a sostituirli immediatamente con altri forzati, che non difettavano mai.

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