di Clemente Sparaco
Non si fa che parlare di futuro. Ma viene da chiedersi: a quale futuro ci si riferisce? A quello trionfale e ridondante degli illuministi e illuminati, che non solo credevano nel progresso, ma anche presumevano di incarnarlo, o a quello che nasce dal disincanto del presente, incapace di credere come di sperare?
Dal futuro come prospettiva alla morte della speranza
La modernità si è connotata come prevalenza della ragione sulle autorità acriticamente accettate e, nel contempo, come trionfo del nuovo sul vecchio. Ciò ha alimentato il mito del progresso, presente nell’Illuminismo, come nel Romanticismo e nel Positivismo, e ha determinato la visione ottimistica circa il futuro. Palcoscenico dell’azione dell’uomo, la storia è stata, quindi, pensata come processo verso il meglio, come linea di sviluppo continua.
L’ideologia, figlia della ragione illuministica, ha avuto poi la presunzione di incarnare il nuovo della storia. Ne è scaturita non solo l’idea di costruire un ordine nuovo, che troncasse ogni rapporto con il passato, ma anche quella di forgiare un uomo nuovo, quasi che l’uomo si potesse ricreare o rifondare. Per realizzare questo sogno le ideologie hanno non solo forzato la storia, ma anche violentato l’uomo fisicamente e moralmente.
La storia del XX secolo, con tutte le persecuzioni, le stragi, gli olocausti, le purghe e le pulizie etniche, sta lì a testimoniarlo.
Il XXI secolo ci restituisce un uomo smarrito e intimorito di fronte alla storia.
Oggi l’ottimismo è venuto meno. Esso riposava sulla convinzione che il cammino dell’umanità fosse segnato secondo una direzione che fatalmente avrebbe portato verso il meglio. Ma questa convinzione è stata sepolta sotto le macerie materiali e morali della storia del XX secolo. Tramontati i grandi racconti che avevano per protagonisti i partiti, le masse, lo Spirito, tramontati gli scenari di classe descritti dal marxismo, sembra finita non solo l’attesa messianica di una trasformazione rivoluzionaria, ma anche ogni proiezione verso il futuro. Quanto all’idea di nuovo essa, come ha scritto A. Touraine, “ha perso la propria forza di liberazione e di creazione”.
Viviamo oggi la crisi delle concezioni universali dell’uomo e del mondo, e, quindi, non solo della filosofia, dell’etica e della politica, ma anche della scienza. Pertanto, nessuno può più presumere, in buona fede, di sapere quale sia la direzione della storia né se abbia una direzione unitaria e razionale. E quella che appariva come linea continua appare ormai interrotta, franta, involuta addirittura.
Il convivere con le angustie di un presente senza entusiasmi e senza novità sembra essere divenuto inaggirabile. Si avverte di vivere un’epoca di transizione, un’epoca che “dal punto di vista spazio-temporale, viene dopo” (vedi A. Heller – F. Fehér, La condizione politica postmoderna), dopo le grandi speranze e anche dopo le grandi disillusioni. Si ha la sensazione di essere arrivati tardi all’appuntamento con la storia e che, al massimo, ci si debba accontentare di qualche remake. Sembra, e qualcuno pure lo ha sostenuto, finita la storia stessa.
b) Viene da chiedersi: che ne è del futuro nell’epoca della fine della storia?
Oggi sappiamo senz’altro che il futuro è oltre, oltre le presunzioni del passato e anche le disillusioni del presente, oltre quello che possiamo pensare e anche quello che possiamo fare. Forse, di fronte alla crisi dei fondamenti, la realizzazione della propria umanità sarà affidata, non alle certezze ormai malferme della scienza, ma al rischio della fede.
Senza futuro ma con tanto bisogno d’amore
La nostra epoca non è rivolta al futuro come suo orizzonte. Non lo è perché si è scoperta l’abissale vuotezza dei sogni utopistici che, prospettandoci un domani migliore e mitiche città future, affidavano agli uomini il compito di realizzare questo paradiso in terra. Oggi nessuno crede più nel nuovo della storia né lo desidera. Semmai, si va in cerca della novità fine a se stessa, inessenziale e superficiale. Il futuro, in quanto luogo utopico della realizzazione di un progetto, è stato messo in questione. Il progresso si è tramutato in una specie di fatalità che non sorprende più. La speranza ad esso collegata è decisamente morta. Oggi essa non è più una virtù.
La morte della speranza si accompagna alla fine della presunzione che la nostra esistenza sia orientata, abbia un senso in rapporto ad una missione da compiere, ad un progetto da portare avanti. La verticalità della vita si è come abbassata all’immediato, all’episodio del momento. L’orizzonte in cui si vive è di un’immanenza totale. Oltre non pare esserci davvero più nulla. L’individuo alla moda non ha una vocazione data una volta per tutte, né la pazienza e la tenacia di perseguire un progetto lungo l’arco dell’intera sua vita. Egli non va in cerca del nuovo, ma della novità fine a se stessa, inessenziale e superficiale, delle curiosità, delle spettacolarità, del gossip.
Si vive ormai un presente senza memoria e senza speranza, che si confonde con la routine, che finché prosegue indisturbata il suo corso, non dà occasioni di fermarsi a riflettere. Oggi si è definitivamente preso coscienza che niente è per sempre. Si vive al più secondo il momento, o che è lo stesso, secondo la moda. L’individuo alla moda non ha, poi, una vocazione data una volta per tutte, né la pazienza e la tenacia di perseguire un progetto lungo l’arco dell’intera sua vita, ma conserva una straordinaria dinamicità e una camaleontica capacità di trasformazione. Del futuro non ci si dà più pensiero e riguardo al passato ci si sforza di impedirgli di pesare sul presente.
Resta tuttavia un’incommensurabilità fra il tempo naturale e biologico e quello virtuale dei rotocalchi e dei media. In questo spazio la sofferenza, la morte biologica, la solitudine spirituale e materiale, le miserie di vario genere, continuano a rappresentare degli interrogativi inderogabili. Non a caso intorno a tali questioni rinasce un bisogno radicale, non sussumibile nelle vuote verità alla moda, che rimette in questione tutta la costruzione debole e leggera del nostro asfittico presente. Noi abbiamo bisogno di essere chiamati per nome, abbiamo bisogno dell’amore che dà speranza e che ridona al futuro la sua vocazione originaria, che è quella di proiettarci oltre l’indigenza del presente. Abbiamo bisogno, infinatamente bisogno, di riscoprire la parola dell’amore, che fa nuove tutte le cose e ci prospetta terre nuove e cieli nuovi.