fonte: Libertà e Persona
Ha fatto molto discutere, qualche settimana fa, lo spot televisivo pro-eutanasia che doveva essere mandato in onda in Australia e che, a causa di un intervento dell’authority locale, è stato, almeno per ora, sospeso. C’è mancato poco, avranno pensato in molti . Purtroppo, al di là della pubblicità eutanasica curata da Exit International e fortunatamente bloccata, gli organi di informazione già da tempo hanno un ruolo pericolosamente attivo nella diffusione di messaggi negativi o addirittura mortiferi.
Basta una rapida occhiata ai notiziari televisivi e alle pagine dei quotidiani, infatti, per imbattersi in un vero e proprio stillicidio di violenze, stupri e suicidi. Come se le buone notizie non esistessero. Il caso più lampante, per stare alla cronaca, riguarda il modo con cui imass media italiani hanno liquidato il miracoloso salvataggio dei 33 minatori cileni – azzardando talora demenziali paralleli col Grande Fratello – per poi concentrarsi, con morbosità quotidiana e crescente, sul delitto della povera Sarah Scazzi. La popolarità delle notizie di cronaca nera – in particolare di quelle relative ai suicidi – produce conseguenze sociali devastanti. Vediamo perché.
La correlazione tra mass media e il fenomeno suicidario è nota ai sociologi come “effetto Werther”, dall’omonima opera di Goethe che innescò, una volta pubblicata nel 1774, una così forte tendenza al suicidio da indurre i governi di alcuni paesi a proibirne la diffusione. Un effetto, questo, comprovato da numerosi studi. Uno dei più celebri è quello svolto dallo studioso australiano Riaz Hassan il quale, analizzati circa 20 mila casi di suicidio avvenuti tra il 1981 e 1990, scoprì che la media giornaliera di persone che si tolgono la vita sale di circa il 10% nei giorni successivi alla comparsa, sui principali quotidiani, di notizie suicidarie. Analogamente, analizzando le statistiche relative ai suicidi negli Stati Uniti dal 1947 al 1968, è stato rilevato come nei due mesi successivi a un suicidio da prima pagina si siano verificati 58 suicidi in più rispetto alla media.
E’ altresì dimostrato che laddove i mass media, per qualche ragione, latitano, il numero delle persone che si tolgono la vita tende a diminuire. Lo si è potuto accertare a Detroit, quando, nel 1968, uno sciopero bloccò l’uscita dei giornali per 268 giorni, quasi nove mesi; l’eccezionalità dello scenario consentì agli studiosi di effettuare delle verifiche e fu riscontrato un decremento del numero dei suicidi, in particolare fra le donne sotto i 35 anni di età. Ad aggravare o meno l’influenza mortifera degli organi di informazione, poi, contribuisce la modalità col quale la notizia di un suicidio viene data. Gli studiosi Fekete e Schmidtke, ad esempio, hanno spiegato il maggior tasso di suicidio in Ungheria rispetto a quello riscontrato in Germania soffermandosi sulla tendenza, da parte della stampa ungherese, di porre in secondo piano gli aspetti più drammatici e negativi del suicidio.
Al di là di questi rilievi formali, che una più prolungata esposizione aimass media incentivi, in particolare tra i giovani, la tentazione di farla finita sembra provato anche in Italia: all’evoluzione incessante e alla diffusione dei media è difatti corrisposta, negli ultimi 20 anni, una crescita del 13% del tasso dei suicidi. Ma il problema non è affatto peculiarità italiana, anzi: in Europa i decessi annuali per suicidio – oltre 58.000 – sono più numerosi alla somma di quelli dovuti a incidenti stradali (50.700) e omicidi (5350). Numeri a dir poco agghiaccianti, che dovrebbero far riflettere su quanto devastante sia già oggi – anche senza spot pubblicitari pro-eutanasia – un certo modo di fare informazione. E che dovrebbero altresì responsabilizzare maggiormente i giornalisti affinché si ricordino che il loro é un compito di importanza vitale. Nel vero senso della parola.