di P.Giovanni Cavalcoli,OP
Nota: questo articolo si propone come completamento di quanto esposto nell’articolo “L’evangelizzazione degli islamici”, che potete leggere cliccando qui http://riscossacristianaaggiornamentinews.blogspot.com/2010/09/levangelizzazione-degli-islamici.html
Un male che oggi viene spesso denunciato sia in campo ecclesiastico – vedi i numerosi interventi del Papa – sia in campo culturale, anche laico – c’è chi a questo proposito ha parlato di “dittatura del relativismo” -, è il cosiddetto “relativismo”.
Di che si tratta? Della tendenza a ridurre tutto al relativo, a non vedere altro che il relativo, e quindi a relativizzare l’assoluto. Chi non ha mai sentito il detto corrente: “tutto è relativo”? Ma questo detto di una certa saggezza a buon mercato, è stato rivestito, come si sa, anche dei paludamenti della filosofia, per cui è famoso il principio di Auguste Comte, il fondatore del positivismo: “tutto è relativo; e questo è l’unico principio assoluto”. Potremmo chiedere a Comte: se esiste un assoluto, come fai a dire che tutto è relativo? Allora non tutto è relativo! Oppure tu relativizzi anche l’assoluto. E quindi fai crollare il tuo principio nel momento che lo poni.
Il fatto è che il relativo si definisce in rapporto all’assoluto. L’uno ha senso in rapporto all’altro, per cui negare uno vuol dire negare l’altro. Ed è assurdo identificarli, per cui se il relativo è assoluto, non c’è il relativo e se l’assoluto è relativo non c’è l’assoluto.
Se il mondo (relativo) è assorbito in Dio (assoluto), non c’è più il mondo ma tutto è Dio ed esiste solo Dio. E abbiamo il panteismo. Se Dio è assorbito nel mondo, abbiamo solo il mondo, e non c’è Dio. E abbiamo l’ateismo.
Certo Dio (assoluto) potrebbe esistere anche senza il mondo (relativo), ma questi non può esistere senza Dio. Tuttavia – e torno a dire quel che ho detto – anche l’assoluto non può essere per noi definito senza far riferimento al relativo. Ma un conto è l’esistere e un conto è il definire, se non vogliamo fare come gli idealisti che confondono l’essere col pensiero.
In realtà, anche il relativista più convinto, proprio per sostenere il suo relativismo, non può non ammettere un assoluto, che però non sarà più distinto e trascendente, cioè non sarà più un vero assoluto, ma sarà, come abbiamo visto, un’assolutizzazione del relativo.
A parte il fatto che la mente umana non può comunque non affermare un assoluto. Per cui – contrariamente a quanto sostengono atei e relativisti – essa non può non tendere ad un assoluto, non può non desiderare un assoluto.
Tutto ciò che è consentito al libero arbitrio umano è la scelta alla quale non può sfuggire: o il vero assoluto, per cui l’uomo riconosce il vero assoluto che è Dio; oppure un falso assoluto, ed è l’assolutizzazione del mondo e della creatura, cosa che può avvenire in tanti modi: assolutizzando il proprio io o l’umanità o la storia o la scienza o il piacere o il potere e via discorrendo.
C’è chi dice: ma esiste anche un sano relativismo! Perché no? A costoro possiamo dare ragione: se qualcosa è realmente relativo, va riconosciuto come tale, tanto più che c’è una grande quantità di cose relative peraltro indispensabili alla nostra vita ed alla vita sociale. Il problema è che esse stiano al loro posto, né sottovalutate né sopravvalutate, ossia assolutizzate.
Il relativismo purtroppo esiste anche nella Chiesa, esiste tra noi cattolici, sotto molti aspetti. Ed una forma a volte inapparente di relativismo, seducente ma assai pericolosa, è un certo modo di concepire e fare ecumenismo ed anche il dialogo interreligioso, un modo per il quale il cattolicesimo perde la sua assolutezza ed universalità divinamente fondati su Nostro Signore Gesù Cristo e la Chiesa cattolica, e diventa qualcosa di relativo ai tempi, ai luoghi, alle culture, agli umori di singoli o gruppi, una religione particolare e limitata tra le altre, non priva di difetti e bisognosa di essere integrata o completata da altre religioni.
Da qui la necessità, spesso predicata da certi ecumenisti quasi fosse un dogma o fosse insegnata dal Concilio Vaticano II, che le aree di antica o recente tradizione cattolica conservino sì se stesse, ma non pretendano di attuare un “proselitismo” – come essi dicono – nei confronti di aree di tradizione religiosa diversa, perchè ciò, a loro dire, sarebbe violenza, mancanza di rispetto dello “altro”, sarebbe “fondamentalismo”. Il vero cristianesimo – essi sostengono – è quello di esortare il protestante ad essere un buon protestante, il musulmano ad essere un buon musulmano e così via.
Per questo essi sostengono come dovere assoluto e invalicabile, piena realizzazione del cristianesimo, che ogni area viva in pace con le altre, così come in un giardino le rose devono stare assieme con le viole, i lecci devono convivere con i pini e le formiche con le api.
Ma a tutti dovrebbe apparire evidente come questo modo di impostare l’ecumenismo è in assoluto contrasto col mandato perentorio e chiarissimo di Cristo agli apostoli, alla Chiesa e ad ogni cristiano di annunciare il Vangelo a tutto il mondo, minacciando la pena eterna a chi non lo accoglie.
Tutti i santi missionari di tutti i tempi si sono attenuti a questo irrinunciabile mandato di Cristo e il Concilio non ha affatto ignorato tale comando, anzi lo ha ribadito. E come avrebbe potuto fare diversamente? Semmai ha corretto, nell’esecuzione di tale comando, certi errori del passato.
Oggi la Chiesa sta soffrendo di questo terribile dualismo tra ecumenismo ed evangelizzazione malintesi, dualismo che pare lontano dalla soluzione, perché tutte le volte che si parla di ecumenismo si evita di parlare dell’evangelizzazione e viceversa.
Quando si parla di quest’ultima, si sta solo sulle generali, si fa un discorso astratto che non tocca nessuno, né si parla mai, per esempio, di evangelizzazione dei protestanti o degli ortodossi o degli ebrei o dei musulmani o dei buddisti. Non si parla mai dell’elaborazione di un metodo di evangelizzazione per ciascuna religione. Si parla sempre di “pastorale”, ma non si sa che cosa è la pastorale.
Questa situazione rischia di creare in noi cattolici una cattiva coscienza e un’alternativa parimenti conturbante – almeno per coloro che amano la coerenza -: o si parla in modo giusto di uno dei due termini sottacendo l’altro nella convinzione che lo neghi; o si parla di uno dei due in modo falso, nella conseguente incapacità di conciliarlo con l’altro, che di nuovo viene taciuto.
La questione non è quella di tornare a prima del Concilio mandando al diavolo l’ecumenismo; ma non è neppure quella di un postconcilio modernista, che rinuncia all’evangelizzazione o la concepisce come lo stand cattolico della fiera delle religioni.
Questo non vuol dire che quando il Papa è andato in Inghilterra, avrebbe dovuto invitare la Regina a convertirsi al cattolicesimo. L’ecumenismo è una cosa sacrosanta, ispirata dallo Spirito, e guai se volessimo tornare alla polemica acida e ingiusta di certe tendenze preconciliari.
Ma anche il Papa certamente, – non posso credere diversamente – nel suo cuore, desidererebbe che la Regina si convertisse al cattolicesimo e per questo prega ed offre sacrifici. E lo desidera con quell’amore del cuore che parla al cuore, s’intende il cuore di Cristo.
Ma perché non glie lo dice apertamente? Questo è un altro discorso. L’amore vero non sempre dice tutto alla persona amata. Esistono desideri segreti che nutriamo per la persona amata, desideri che proprio per il suo bene, per il momento non le riveliamo.
L’ecumenismo – lo dico sempre – non è fine a se stesso, ma è finalizzato all’evangelizzazione. Quando avremo compreso questo, non intendendo l’ecumenismo in modo meramente strumentale ma come grande ed urgente valore, allora il dualismo che ci sta lacerando e rischia di farci apparire degli ipocriti, si sarà risolto, avremo attuato veramente il Concilio e giungerà quella “nuova Pentecoste” che fu profetizzata ed auspicata dal Beato Giovanni XXIII.