di Filippo Giorgianni
terza ed ultima parte
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2.2 Il problema della Modernità. Dio come Coscienza, Dio come Tradizione
Si potrebbe invece porre piuttosto un problema diverso, a causa della filosofia moderna. Il punto è: la realtà esterna, da cui si è mutuata razionalmente l’esistenza di Dio, è realmente esistente? Perché è chiaro che, se si negasse la realtà esterna all’uomo, cadrebbe anche la conoscibilità di Dio nel creato, cioè la conoscibilità di Dio nella realtà esterna alla mente umana. E tale negazione è proprio ciò che compie la filosofia moderna che pone a proprio fondamento la negazione della prospettiva realista di cui si è detto e si basa sulla negazione della realtà esterna alla mente umana. Del resto, è vero che ammettere che la ragione possa conoscere è una fede, perché si può ammettere che essa possa conoscere solo se ci si fida, si ha fede nella capacità di conoscere della ragione stessa, solo se si crede nella sua capacità conoscitiva. Ebbene, a partire dalla filosofia di René Descartes e, ancora più, da quella di Hume, la Modernità ha iniziato a contestare radicalmente questa fiducia, ha contestato la stessa possibilità di conoscere la realtà esterna all’uomo da parte della ragione umana: di tutto deve dubitarsi (dubbio iperbolico) e l’unica cosa di cui l’uomo può aver conoscenza certa sarebbe solo se stesso, il proprio pensiero (cogito), l’esistenza di se stesso. Non più “res sunt”, non più “le cose sono”, bensì “le idee sono”: esiste solo ciò che la mente concepisce, non esistono le cose, ma esse sono invece sostituite dalle idee presenti nella mente umana – è bene segnalare velocemente che questa prospettiva nulla ha da spartire con quella platonica –. In questo modo si giunge a un soggettivismo relativista assoluto: nulla l’uomo può conoscere e questa impossibilità conoscitiva investe ovviamente anche gli altri uomini e il resto della realtà naturale: persino la scienza, se tutto è inconoscibile, diviene inutile e non può dar certezza alcuna, perché semplicemente non v’é certezza addirittura che l’oggetto che essa studia sia realmente esistente. È chiaro che, in quest’ottica, venendo meno qualunque conoscenza, si sfocia nel puro nichilismo. Esiste solo il soggetto e la sua coscienza, tutto dipende dal soggetto ed è in sua balìa, tutto dipende dal suo arbitrio, mentre qualunque oggetto è di incerta esistenza, anche il creato, sul quale dunque non si potrebbe far leva per dimostrare in via mediata l’esistenza di una realtà trascendente e quindi quella di Dio. È chiaro che questa impasse, se presa coerentemente, renderebbe la vita dell’uomo assolutamente invivibile: l’uomo non potrebbe neanche esser certo dell’effettiva realtà dei rapporti con gli altri uomini. Si arriva insomma ad esiti assurdi: l’uomo, nel momento in cui ama, per esempio, non può esser certo di stare amando un essere veramente esistente. Questa prospettiva è evidentemente parossistica e può essere confutata con una brillante osservazione: in realtà non si può negare la realtà esterna a sé e dire che nulla esiste al di fuori del puro spazio interiore della propria coscienza, perché per potere definire, intendere, delimitare, cosa sia il proprio “puro spazio interiore” è necessario averlo trasceso, cioè esserne usciti al di fuori, essere andati al di là di esso e quindi aver conosciuto lo spazio esteriore a se stessi, la realtà fuori di se stessi, ed essersi relazionati con essa. Eppure, nonostante ciò, questo rifiuto della realtà da parte del pensiero moderno è incomprensibilmente accettato a livello accademico e, di riflesso, dalla società (influenzata dal pensiero egemone), per negare la conoscibilità di una verità oggettiva in campo morale e per negare Dio. È chiaro che ci si guarda bene, a livello mediatico, dal propagandare apertamente un approccio alla vita in tutto e per tutto coerente con questa prospettiva, altrimenti ne seguirebbe una reazione sociale negativa che riterrebbe (giustamente) assurdo dubitare persino dell’esistenza della persona che ci è accanto, eppure velatamente si porta comunque avanti questo sistema di pensiero palesemente assurdo. In effetti i processi sociali di mutazione culturale sono più semplici a farsi procedere mediante la paziente e dissimulata sedimentazione e non mediante l’imposizione sociale diretta e immediata; dunque, sebbene il pensiero punti decisamente in quella direzione, non si annuncia apertamente che, essendo tutto inconoscibile, si debba diffidare dell’esistenza stessa di chi e di ciò che ci è intorno, ma, pur ammettendosi candidamente in premessa che nulla è conoscibile, si restringe il campo della sfiducia nella conoscibilità delle cose al solo campo morale e del trascendente, inviando alla società il messaggio che è necessario diffidare solo dell’esistenza di una realtà trascendente e di principi morali oggettivi inscritti nella realtà, nella natura dell’uomo, con ciò influenzando naturalmente le convinzioni diffuse nella società. In altri termini, il cittadino non crederà che l’uomo fuori di sé stesso non esiste, ma solamente che non esiste la realtà morale oggettiva nonché quella trascendente, anche se l’inconoscibilità del reale dovrebbe colpire logicamente anche la conoscenza stessa degli uomini: si accetta quindi il principio assurdo che tutto è riconducibile al soggetto, ma non si accettano tutte le conseguenze del principio stesso, in quanto evidentemente troppo inaccettabili. E ciò non è certamente privo di conseguenze devastanti nel vivere sociale quotidiano. Tuttavia, nonostante l’evidente schizofrenia di questa posizione che non giunge alle conseguenze di ciò che esprime, cioè alla negazione di tutta la realtà, negando invece soltanto una parte di essa (la realtà trascendente), nonostante l’assurdità delle conseguenze ultime di questa visione soggettivista moderna e post-moderna e nonostante la confutazione di quest’ultima, occorre tuttavia fare necessariamente i conti con tale contesto post-cartesiano che nega radicalmente l’oggettività delle cose e riduce il vivere dell’uomo al solo soggetto, alle sue preferenze arbitrarie: le vecchie dimostrazioni dell’esistenza di Dio presupponevano che non si contestasse l’esistenza della realtà, laddove oggi ciò è invece contestato. Ci si deve dunque spostare sul piano soggettivista moderno per mostrare (qualora sia possibile) come, anche in un quadro nichilista e soggettivista che nega l’esistenza del reale, sia dimostrabile razionalmente l’esistenza di Dio anche in una chiave puramente soggettivista. In tal senso soccorre la nuova prova dell’esistenza di Dio, introdotta dal geniale filosofo tedesco contemporaneo Robert Spaemann e da lui definita prova “Nietzsche-resistente”, cioè resistente all’ottica nichilista che nega il reale. Essa fa leva proprio su un aspetto riguardante la soggettività dell’uomo e non su fattori oggettivi quale, ad esempio, la realtà. Questo fattore interno alla mente umana, e di cui dunque in un’ottica moderna non è possibile mettere in dubbio l’esistenza, in quanto interiore all’uomo, è la memoria. Nota Spaemann: «Dire di qualcosa che è adesso, equivale a dire nel futuro che quella cosa è stata. In questo senso ogni verità è eterna. Il fatto che il 10 dicembre 2009 numerose persone siano riunite a Roma per una conferenza di Robert Spaemann su “Razionalità e fede in Dio” non è vero solo oggi, ma è vero per sempre. Se noi oggi siamo qui, noi domani saremo stati qui». Tuttavia, aggiunge Spaemann, questo “essere stato”, questo evento passato rimane nel tempo nelle tracce che esso lascia di sè. Detto altrimenti, se l’esistenza delle cose dipende tutta dalla coscienza dell’uomo (ché la realtà esterna non è indipendente da essa), un evento passato sarà esistito solo in quanto esso permanga nel ricordo che di esso si ha. Ma questo ricordo, col passare del tempo e con la morte di chi ricorda, diviene sempre più “diradato”, sempre meno vivido, finché «il ricordo prima o poi svanisce. E prima o poi nessun uomo ci sarà più sulla terra. Alla fine persino la terra scomparirà». Se noi ammettiamo che la realtà non esiste di per sé, ma essa, compreso l’evento passato, dipende solo dalla mente umana, dal soggetto, cioè dal suo ricordare, dovremo allora concludere che il passato (il nostro presente) non esiste, una volta venuto meno chi lo ricorda nel futuro più lontano (“futuro anteriore”, dice Spaemann). Dunque, dal punto di vista del puro soggetto, sarebbe messo in dubbio anche che una persona sia esistita in un dato momento, una volta venute meno le persone che la conoscono e ricordano: venuti meno i ricordi, la persona non esisterà più. Insomma, nonostante lo scetticismo moderno sostenga che l’unica cosa certa è il soggetto, anche l’esistenza s tessa del soggetto stesso è negata, una volta che, essendo la sua esistenza dipendente dagli altri soggetti, non vi siano più questi altri soggetti che la ricordino. Tuttavia, sottolinea Spaemann, «la proposizione “nel futuro più lontano non sarà più vero che noi questa sera eravamo riuniti qui” è insensata. Non si lascia pensare. Se noi un giorno non saremo più stati, allora noi di fatto non siamo reali neanche adesso». Infatti, se ammettiamo che l’esistenza di una persona dipende solo dal ricordo che se ne ha, dire che, venuto meno il ricordo, non esisterà la persona, significa dire che essa non è mai esistita realmente: «Se la realtà presente un giorno non sarà più stata presente, allora essa non è affatto reale». Al di là del risultato insensato dovuto al soggettivismo moderno che riduce l’esistenza delle cose al solo soggetto, Spaemann mostra come questa impasse moderna sia sorpassabile solo ammettendo che esiste Dio: il soggetto esiste solo se Dio esiste. L’unica modo per poter affermare che il soggetto esiste, l’unica possibile soluzione alla logica follia moderna che, riducendo tutto alla mente umana, proclama indirettamente la stessa non esistenza del soggetto, è riconoscere che vi sia una sorta di “Memoria delle memorie”, una Mente che non viene mai meno col passare del tempo, una Coscienza eterna che, dopo la sparizione di tutte le altre coscienze e delle loro memorie, tutto e tutti ricorda: «siamo costretti a pensare una coscienza che custodisce tutto ciò che accade, una coscienza assoluta. Nessuna parola pronunciata un giorno sarà un giorno non pronunciata, nessun dolore non sofferto, nessuna gioia non vissuta. Il passato può diradare, ma non si può fare in modo che non sia stato. Se la realtà esiste, allora il futuro anteriore è inevitabile e con esso il postulato del Dio reale». Spaemann dunque individua una prova razionale di Dio che resiste alla negazione moderna della realtà esterna alla mente umana e, al contempo, supera e risolve l’assurdità delle logiche conseguenze di tale negazione. Addirittura, ricollegandosi al filosofo tedesco che fa leva sulla memoria e riprendendo la “vecchia” prova metafisica tomista dell’esistenza di Dio, quella ex causa, che si è esposta al paragrafo 2.1, si potrebbe rielaborare quest’ultima aggiungendo e concludendo che la prova dell’esistenza di Dio è la stessa struttura dell’uomo, cioè la tradizione che è in lui insita. L’uomo, come si è già accennato, è un essere intimamente tradizionale, dovendo tutto ciò che sa agli altri: se non gli venisse trasmessa la stragrande maggioranza di ciò che sa, l’uomo neanche potrebbe sopravvivere. È vero che egli può sempre apportare delle novità a ciò che gli è trasmesso, ma questo elemento innovativo non basta, non esaurisce la tradizione, essendo necessaria invece anche la memoria di ciò che gli è trasmesso dagli altri. Ebbene, questi altri sono gli altri esseri umani, ma, risalendo fino agli albori del mondo, chi sarà l’altro da cui l’uomo mutua ciò che è e sa? In principio, quando uomini non ve n’erano, chi trasmise ai primi uomini? Applicando la terminologia tradizionale alla prova ex causa, si potrà dire, insomma, che Dio è anche Tradizione, la causa prima, originaria della tradizione, cioè della trasmissione sociologica di conoscenze: poiché l’uomo necessita di una trasmissione e questa sua caratteristica gli è strutturale, la logica impone che, risalendo al momento in cui non vi erano altri uomini predecessori, i primi uomini non avrebbero potuto apprendere le conoscenze da altri che li avessero preceduti. Essi avrebbero dunque dovuto ricevere una trasmissione da una causa diversa che non un altro uomo, e questa causa non può che essere Dio, poiché una trasmissione di conoscenze vera e propria può avvenire solo tra intelligenze comunicanti, laddove invece la conoscenza meramente recepita dall’ambiente circostante non è una reale trasmissione, ma semmai invenzione (in senso etimologico di “ritrovamento” o “scoperta”, dal latino inventio), ritrovamento autonomo da parte del soggetto, acquisizione dovuta unicamente alla sua attività, priva di una trasmissione proveniente da altri che lo abbiano preceduto. In conclusione, se l’uomo intimamente è tradizione, è necessario che vi sia un’origine di questa tradizione e, non potendo essere l’uomo stesso né ciò che lo circonda, tale origine non potrà che essere Dio.
2.3 Le radici irrazionali dell’ateismo e dell’agnosticismo
Mostrata la razionalità della fede in Dio, ci si deve appuntare sull’ateismo. Come sorge allora la scelta ateistica? Si è detto che essa, scientificamente non ha maggiori, né minori, sicurezze della scelta teistica, ma, alla luce di quanto detto, essa ha il medesimo valore della scelta teistica in termini probabilistici, in termini razionali di ragione cognitiva? E, se la radice dell’ateismo non dovesse essere la ragione cognitiva, qual è allora la sua radice?
Prima di tutto è necessario distinguere tra ateismo e agnosticismo. Il primo è una vera e propria fede al contrario. Chi non crede in Dio, di fatto, crede che Dio non esista. É dunque una vera e propria fede, un credere in qualcosa di opposto alla fede in Dio, un credere nel nulla, nel non senso, nell’inesistenza di Dio. L’agnosticismo invece si configura come una non posizione, una non scelta, un non credere o un credere a entrambe le prospettive: il soggetto si chiude in un dubbio eterno tra le due opzioni, ritenendo possibile sia che vi siano ragioni adeguate per credere nell’esistenza di Dio, sia che ve ne siano per credere nella Sua non esistenza. Detto ciò, si tratta di capire se le due posizioni siano razionali.
Con riguardo all’ateismo si deve sottolineare come esso si basi su una fede che, da un punto di vista scientifico, è indimostrata tanto quanto lo è la fede teista, in quanto, come s’è detto, non ci possono esser prove né per l’esistenza né per l’inesistenza di Dio. In questo senso, l’ateismo non è più razionale del teismo. Ma la vera questione dell’ateismo, specie quello contemporaneo, è se esso parta da un dato razionale non scientifico oppure no. In realtà, come si è visto, ci sono ragioni per credere, ma la domanda è se vi siano altrettante ragioni per non credere. È interessante notare che, in verità, quando intende negare la fede, l’ateista medio parte all’assalto su moltissimi fronti, ma sempre senza mai chiarificare il proprio assunto ultimo di base. La motivazione usuale dell’ateo non è un ragionamento come quello teista (ad esempio, la prova ex causa, frutto di passaggi logici consequenziali, per quanto non scientifici), bensì una constatazione alquanto confusa. Di solito, quando l’ateo (e, ancor più, l’ideologo ateo) deve motivare il proprio rifiuto dell’esistenza di Dio, non porta ragionamenti che smontino i passaggi logici dei teisti, portando delle ragioni contrarie, ma invece si limita a far leva su alcuni tópoi ripetuti, per lo più riconducibili tutti al pessimismo in fronte alla condizione umana. Cioè l’ateo, che attacca la fede con (presunte) ragioni che svariano su più fronti, come “ragione” ultima della sua convinzione – “ragione” su cui basa ogni altra argomentazione ulteriore – porta solamente una valutazione preliminare che nulla ha di razionale. In breve, quando l’ateo deve motivare il suo rifiuto, si limita a osservare la sofferenza degli uomini, le difficoltà, la negatività che invade le vite, e ne deduce che il credere in qualcosa dopo la morte sia solo illusione. Ebbene, come notava il filosofo Gabriel Marcel, questo però non è un ragionamento, non è argomento razionale, ma semplice e puro pessimismo. Davanti alla sofferenza, l’ateo dice “non ci può essere un senso”, ma l’impressione suscitata dalla sofferenza umana non è razionale, non è un argomento, è invece un sommovimento passionale di tipo negativo, un’emozione pura e semplice. Dunque il rifiuto dell’ateo non è altro che un rifiuto basato tutto unicamente su di una sensazione, un rifiuto a base passionale, sentimentale, istintiva. L’ateo non può dunque presentarsi come l’uomo oggettivo e razionale perché, nel dibattito su Dio, è il primo (e spesso l’unico) ad essere tremendamente soggettivo e irrazionale e a basarsi unicamente su una scelta che implica sentimento. Il teista invece, pur credendo, non necessariamente sente un trasporto emozionale verso Dio – non a caso per la Chiesa Cattolica fede (credere in Dio) e carità (amore, anche verso Dio) sono due virtù distinte, non coincidenti; inoltre Essa ricorda sempre che esistono i momenti di “aridità”, in cui il credente sa bene che Dio esiste, crede che Lui esiste, ma non riesce a sentire niente, non Lo sente – e, anche quando lo senta, può portare argomenti logici in campo metafisico che il non credente comunque non può portare – al limite, questi li squalificherà come “sofismi”, ma si guarderà bene da portare ragioni serie dalle quali si deduca che siano realmente dei sofismi –. Alla fine, nel peggiore dei casi, il credente meno istruito può non portare argomenti razionali, ma potrebbe portarli se avesse una formazione maggiore, il non credente invece si troverebbe e si trova in ogni caso sguarnito di adeguate ragioni, potendo far leva unicamente su un moto passionale: è la filosofia dell’“ebbene no!”, quasi un capriccio, un atto di superbia (consapevole o inconsapevole, voluta o non voluta), e comunque uno scoramento immotivato di fronte alla tragica realtà umana, in quanto privo delle “prove” che ostentatamente e insistentemente egli richiede al teismo. Ancor più immotivato qualora poi si ponesse mente al fatto che la realtà non è riconducibile solo alla sua componente tragica e sofferente. L’ateo, infatti, davanti a un fiore che avvizzisce, si limita a vederne il momento negativo, dimenticando che, in quel medesimo e preciso istante, altri fiori stanno fiorendo altrove, anche nei luoghi più inospitali per la vita. Una visione adeguata, completa, della realtà, che non si limitasse a vedere il celebre “bicchiere mezzo vuoto”, saprebbe vedere anche il lato positivo, così come fa il credente, che non si limita a un eguale e contrario (nonché rozzo) ottimismo, ma sa vedere sia la sofferenza che la speranza insite nella realtà umana. Ciò porta a concludere che, oltre a non poter essere scientifico (come, del resto, il teismo), l’ateismo in sé, non soltanto non è la più razionale tra le opzioni date, ma addirittura si trova ad essere la posizione più irrazionale. Si assiste così ad un completo ribaltamento di prospettiva: contrariamente a ciò che comunemente i media fanno credere alla società, non è la fede ad avere un fondamento passionale, di sentimento, e ad esser priva di ragioni, ma, semmai è proprio la scelta ateistica ad avere tali caratteristiche, nonostante si ammanti di rispettabilità e getti ombre sulla legittimità della fede.
Per quanto concerne invece il secondo, l’agnosticismo, è da dirsi che esso è sì una posizione più equilibrata dell’ateismo, ma non la più equilibrata. In effetti, si è detto, esso equivale a un rifiuto a prendere una posizione. Ma chi non voglia prendere posizione su una questione di qualunque genere, lo fa normalmente per mancanza di dati adeguati per compiere una scelta. Colui che non compie una scelta, resta nel mezzo perché è convinto di non avere elementi tali per poter ritenere l’una o l’altra opzione in gioco più valida: in base ai dati in suo possesso, entrambe le posizioni si equivalgono. V’è da chiedersi allora se, nel caso della “questione Dio”, le posizioni in gioco siano poi equivalenti. In realtà, come si è avuto modo di notare, le due opzioni sono tutto fuorché su pari condizioni. L’ateismo non porta, si è detto, argomenti adeguati contro quelli teisti, e perciò tali da poter controbilanciare questi ultimi, ma, al di là della validità dei vari attacchi che esso muova ai singoli elementi delle religioni esistenti, esso si fonda unicamente su un rifiuto istintivo, passionale. Ebbene, se questa è la premessa, l’agnosticismo allora si trova ad essere improponibile e privo di fondamento. Se la non scelta presuppone che vi siano due ipotesi di scelta alla pari, e però una delle due opzioni (l’ateismo) è in realtà più precaria e meno motivata dell’altra (la fede), l’agnosticismo si configurerà allora come un non voler prendere posizione tra opzioni impari, non eguali per solidità. Infatti, non v’è un alea così netto, non si tratta di scegliere tra due opzioni equivalenti e intercambiabili, perché l’una delle due opzioni è meglio fondata dell’altra. La non scelta dell’agnostico dunque si trova ad essere priva della ragione unica che lo costringerebbe a non scegliere: egli può essere ben sicuro che un’opzione è più valida dell’altra e quindi che la scelta e gli argomenti pendono verso l’un polo rispetto all’altro. Se l’agnostico, davanti a tale evidenza, si arrocca ostinatamente sulla volontà di non scegliere, significa semplicemente che in fondo non è agnostico bensì ateo, poiché, come l’ateo, cede alla passionalità del pessimismo assoluto in fronte alla sofferenza, non portando ragioni più o meno evidenti che neghino Dio. E comunque, quand’anche fosse solo un alea, vale sempre la scommessa di Pascal (anch’essa spesso accusata di esser sofistica, ma senza alcun argomento): la scommessa consiste nel rimettere una vita finita che sappiamo esser certa per guadagnare la vita infinita (eterna) che non sappiamo esser certa: è vero che si rischia di sprecare la vita terrena che è finita per qualcosa di infinito che è incerto ma, poiché vi sono tante possibilità che vi sia la vita eterna quante ve ne sono che non esista, a parità di condizioni, è più vantaggioso scegliere la vita infinita che, in quanto eterna, sarebbe un guadagno ben maggiore.
Nonostante l’uomo contemporaneo paia sordo a tali argomenti e sembri voler realizzare il monito del Cristo che domandava: “ma quando il Figlio dell’uomo tornerà troverà la fede sulla terra?” (Lc XVIII, 8), si tratta di ritornare al cuore del problema, mettere da parte l’equivoco moderno, per sorpassare finalmente le difficoltà che l’uomo di oggi pone alla fede. Tornare a una fede che non sia sentimento e a un equilibrio tra fede e ragione, come sempre ricordato dal Magistero della Chiesa Cattolica: è questa la soluzione obbligata, la voce della vera ragione.
R. SPAEMANN, Benedetto XVI e la luce della ragione, in AA.VV., Dio salvi la ragione, Cantagalli, 2007, pag. 160.
Su cui il discorso è però più complesso, come intuibile in Robert Spaemann e dimostrato da Augusto Del Noce. Cfr. R. SPAEMANN, La diceria immortale. La questione di Dio e l’inganno della modernità, Cantagalli, 2008, pagg. 42-46 e A. DEL NOCE, Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, Biblioteca Universale Rizzoli, 2006, pagg. 105-105.
A. PIERETTI, Realismo, voce in Enciclopedia filosofica vol. X, op. cit., pagg. 9461-9462. Per conferme cfr. R. CARTESIO, Discorso sul metodo, Oscar Mondadori, 2000, pagg. 17 e 33-34.
E. GILSON, Il realismo. Metodo della filosofia, Leonardo da Vinci, 2008, pag. 96.
R. SPAEMANN, Benedetto XVI e la luce della ragione, op. cit., pagg. 151-152.
IDEM, La diceria immortale, op. cit., pagg. 31 e ss.
Ibidem, pagg. 45-47 e anche IDEM, Le ragioni di Dio, in Il Riformista 11 dicembre 2009, pagg. 1 e 13 [per comodità tutte le citazioni del filosofo tedesco che seguiranno saranno prese dalla pagina 13 di questo articolo].
F. GIORGIANNI, op. cit.
Ibidem.
J. F. HAUGHT, Dio e il nuovo ateismo, Queriniana, 2009, pag. 30.
G. MARCEL, op. cit., pagg. 48-49.
Ibidem, pag. 49.
Ibidem.
J. F. HAUGHT, op. cit., pagg. 28-29.
B. PASCAL, Pensieri e altri scritti, Oscar Mondadori, 2008, pagg. 200-205.
Da ultimo, tra le altre pronunce, Benedetto XVI laddove parla di ellenizzazione e Lógos, ma anche il Venerabile Giovanni Paolo II Magno. Cfr. BENEDETTO XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni. Discorso ai rappresentanti della scienza dell’Università di Regensburg del 12 settembre 2006, in L. LEUZZI, Allargare gli orizzonti della razionalità. I discorsi per l’Università di Benedetto XVI, Paoline, 2008, pagg. 69-73 e GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, § 16-17, in IDEM, Tutte le encicliche, Paoline, 2005, pagg. 1445-1448.