di Giovanni Lugaresi
Primi anni Novanta del secolo scorso, all’indomani dello sconquasso di Tangentopoli e della fine della D. C. (e non soltanto di quel partito), con un vecchio ex democristiano incontrato a Ravenna alla vigilia di elezioni provinciali: “XY è una brava persona ma non possiamo votare per un candidato appoggiato dagli eredi di quelli che ci ammazzarono don Minzoni”. Ipse dixit!
Già. Vero. Però… Perché gli “altri” non ci avevano, forse, ammazzato don Pessina? E pure un giovanissimo seminarista, Rolando Rivi (martire della fede beatificato di recente), per il solo fatto di indossare la veste talare? – Sia detto per inciso: oggi non potrebbe succedere, perché preti o seminaristi che indossino quella veste sono in numero assai esiguo! Ergo, non correrebbero pericolo alcuno di essere riconosciuti… Chiuso l’inciso.
Questo ricordo, e l’accostamento fra don Minzoni e don Pessina, è suscitato non tanto dal fatto che quando vennero ammazzati indossassero la veste talare, quanto da un filo ideale, morale, spirituale, che li unisce. Quello della fede, che vuol dire poi, anche, libertà dei figli di Dio, amore per le anime, riconciliazione, soprattutto in periodi di odio e di vendetta. Vendetta contro don Pessina, perché bollava le mattanze dei rossi anche a guerra finita; vendetta contro don Minzoni vent’anni prima, perché si ostinava a voler esercitare la libertà dei figli di Dio, appunto, negando allo Stato-partito l’esclusiva dell’educazione della gioventù. E una riflessione andrebbe fatta, oggigiorno, su una statolatria latente anche nel mondo cattolico, che è la negazione del pensiero del sacerdote romagnolo aggredito da una squadraccia di fascisti in quel di Argenta (provincia di Ferrara, diocesi di Ravenna), dove era parroco.
Ma a suscitare una riflessione, dopo avere evocato quel lontano incontro ravennate, è in primis un libro molto coinvolgente, sia per la scrittura colloquiale, sia per la serietà documentale. Del resto, non poteva essere altrimenti, trattandosi di un autore che alla storia (soprattutto religiosa) ha dedicato approfonditi studi. Si tratta di Enzo Tramontani, del quale è uscito, appunto, “Don Giovanni Minzoni viaggio nel martirio” (Edizioni Commissione per i Problemi Sociali della Diocesi di Ravenna; pagine 127; Euro 5,00; Presentazione di monsignor Alberto Graziani. La Prefazione reca la firma del cardinale Ersilio Tonini, che sarebbe morto poco dopo averla scritta).
La bibliografia minzoniana è abbastanza ampia; occorre poi tener presente la pubblicazione del diario tenuto dal sacerdote, ultimamente apparso in veste integrale. La figura del prete ravennate medaglia d’argento al valor militare nella Grande Guerra, dove era stato cappellano al fronte, è tratteggiata da Tramontani a tutto tondo, senza toni eccessivi, senza esaltazioni. L’esaltazione è peraltro nella vita e nell’opera stesse di don Minzoni. Il quale, come l’autore ben sottolinea, non fu una sorta di “Matteotti cattolico”, ancorchè l’impegno politico non gli fosse estraneo, avendo aderito al Partito Popolare di don Luigi Sturzo. Fu semplicemente, ed eroicamente, prete di Dio, fedele alla vocazione, fedele alla missione, senza scendere a compromessi di sorta. A incominciare dalla e nella vicenda di un “turbamento di sentimenti” nei confronti di una donna, che lo videro impegnato in una lotta tremenda, per restare fedele alla promessa fatta a Dio, per non macchiare il suo sacerdozio. Don Minzoni fu uomo di preghiera prima di tutto, non di organizzazione, di impegno sociale. Certo, ci furono anche questi nella sua vita, ma prima di tutto la preghiera – e pregare paga. Si affidò alla Madonna, alla cui grotta di Lourdes era stato pellegrino. E ritrovò serenità e spirito di equilibro, come annota Tramontani. Sottolineando poi come, anticipando i tempi, don Minzoni considerasse nella giusta ottica la presenza femminile nella Chiesa e pure accanto al sacerdote…
Vittima di una violenza cieca e brutale, in Romagna è sempre stato considerato un santo. Martire non di una idea politica, ma martire cristiano, per via di quello spirito di libertà dei figli di Dio al quale si accennava prima, per via di quella negazione allo Stato-partito di avere l’esclusiva dell’educazione dei giovani, che egli voleva portare a Cristo. Una vita sacerdotale, insomma, la sua, esemplare, fatta di dedizione alla sua gente, nella predicazione del Vangelo, di fedeltà alla Chiesa, e alla sua missione. Una vita vissuta nella trasparente luce della grazia.