di Alessia Affinito
Si discute, già da qualche tempo, di introdurre in Italia una procedura semplificata nel processo di separazione tra coniugi, almeno nel caso in cui non vi siano figli. Il “divorzio breve” è una realtà in Francia – dai tre ai sei mesi per completare la procedura, se consensuale – e in Svezia; anche se il caso più noto è quello della Spagna, dove recentemente sono stati eliminati sia il periodo di separazione che la discussione davanti al giudice, al fine di rendere assai più spedita la richiesta. Le proposte di semplificazione avanzate in Italia non sembrano molto differenti. Un primo testo presentato in Parlamento, che puntava a ridurre la durata della separazione portandola da tre anni ad un anno, risale al 2003. Attualmente sono in esame alla Camera tre disegni di legge (due presentati dalla maggioranza e uno dall’opposizione). Pressoché identiche nella sostanza, le tre proposte differiscono quanto alla considerazione di eventuali figli. Nella proposta di legge dell’opposizione il periodo necessario a sciogliere il matrimonio passerebbe in ogni caso da tre anni ad un anno, mentre nei testi della maggioranza tale riduzione non potrebbe verificarsi in presenza di figli minori, o risulterebbe variabile in base alla loro età (sei mesi in assenza di figli o se maggiori di 14 anni, un anno se vi sono figli d’età inferiore ai 14 anni). E’ poi notizia di questi giorni l’ipotesi – avanzata nell’ambito di una consultazione permanente con il notariato, al fine di individuare soluzioni per il funzionamento della giustizia civile – di assegnare ai notai la composizione patrimoniale nel caso di separazioni senza figli, e più in generale il procedimento nel suo complesso. L’iniziativa, in questo caso, avrebbe come principale novità quella di spostare la separazione dal tribunale allo studio di un notaio, le cui rinnovate competenze sarebbero finalizzate a semplificarne le fasi, smaltendo al contempo il carico della giustizia civile.
Al di là del giudizio sull’istituto del divorzio in quanto tale, giova richiamare i precedenti di una tale misura. Sbaglierebbe, infatti, chi ritenesse il “divorzio lampo” un’esigenza emersa solo negli ultimi anni, dettata magari da una più marcata fragilità dei legami affettivi rispetto al passato. In Unione sovietica, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, il Codice di famiglia si distinse per un’apertura sul tema fino ad allora sconosciuta e impensabile in altri ordinamenti, in quanto poneva su un piano di perfetta eguaglianza il matrimonio civile e l’unione di fatto. Inoltre, per ottenere il divorzio tale Codice prevedeva semplicemente una richiesta unilaterale, da manifestarsi anche per lettera. Una rivoluzione i cui risultati non tardarono a manifestarsi. Aborti, instabilità familiare, atteggiamenti di puro cinismo, vagabondaggio sessuale, abbandoni di neonati si moltiplicarono in modo incontrollato, al punto che lo stesso Lenin, nei colloqui con Klara Zetkin pubblicati dopo la sua morte, espresse una ferma opposizione al disordine privato e sessuale che si stava in tal modo favorendo, e che annunciava di mettere a rischio gli stessi ideali della Rivoluzione. La situazione precipitò ad un punto tale che gli aborti arrivarono a superare le nascite, mentre la percentuale di divorzi registrata a Mosca nel 1935 toccò il 44,3%. Per correre ai ripari si decise quindi di introdurre un sistema di assegni familiari e di appesantire al contempo la procedura per il divorzio – in senso contrario rispetto a quanto stabilito in precedenza – rendendo obbligatori la presenza dei coniugi, una sentenza pubblica e un aumento generale dei relativi costi.
Perché un richiamo alle origini storiche del “divorzio breve”? Per imparare sempre e di nuovo da quel che il passato può insegnare. L’aspetto da valutare con la necessaria attenzione riguarda infatti il particolare messaggio che attraverso una procedura semplificata di divorzio finirebbe per affermarsi, quello di una procedura al pari di altre da svolgersi, una volta presa la decisione, nel minor tempo possibile. Anche la principale motivazione addotta – un’attesa di mesi per la prima udienza, persino nel caso di separazioni consensuali – rischia di rimuovere l’elemento di estrema delicatezza presente nella valutazione di questi casi. Il problema è che non si tratta affatto di una decisione come le altre, ma di una “soluzione” dai costi spesso più rilevanti dei possibili vantaggi. La legislazione relativa al divorzio ha prodotto – e non solo in Italia – devastanti risultati di natura economica, sociale e culturale. E’ da segnalare la recente iniziativa dei comuni di Milano e Roma volta a realizzare residenze per uomini piombati in una condizione di grave indigenza in seguito ad un divorzio, mentre è ormai manifesto il pesantissimo costo umano che i figli di coppie separate sostengono nel corso della loro vita. Le conseguenze per la collettività non sono meno gravose se misurate in termini di assenza di stabilità, allentamento delle relazioni, abbandono educativo, promiscuità sessuale, violenza e traumi post-separazione.
Equiparare un divorzio ad un qualsiasi atto di natura burocratica significherebbe pertanto rinunciare ad affermarne il carattere profondamente negativo, impedendo tra l’altro a coloro che lo chiedono di impiegare il tempo a disposizione per meditare, ed eventualmente rivedere, la propria decisione. Ma l’aspetto ancora più sorprendente è rappresentato dal fatto che il legislatore, attraverso una semplificazione, lungi dal dichiarare la propria neutralità di fronte alla decisione opererebbe di fatto per incentivarla, e ciò attraverso l’adozione di una procedura analoga alla tutela di una libertà o di un diritto fondamentali. In altre parole, l’ordinamento rinuncerebbe ad un pur essenziale ruolo dissuasivo o di deterrenza – giustificato dai costi umani di cui s’è detto – per favorire un ricorso al divorzio quanto più agevolato, come se si trattasse di difendere un bene irrinunciabile.
Il deteriorarsi dell’istituto familiare, in Italia come altrove, è già molto serio. Forse è tempo di impiegare le scarse risorse a disposizione per salvare quel che resta, piuttosto che impegnarsi a distruggerlo definitivamente.
IL DISASTRO “DIVORZIO BREVE”: QUANDO DAL PASSATO NON SI TRAGGONO LEZIONI