Tra le sgradevoli stranezze di cui facciamo esperienza in questi anni c’è l’indifferenza generale per le rilevazioni che denunciano un peggioramento drastico e continuo dei risultati scolastici. Più che l’incredulità o la rassegnazione, sembra qui all’opera il ricordo di uno spettro: sembra che il liceo gentiliano, finalizzato al compito prioritario di selezionare una ristrettissima élite per la dirigenza politica, abbia suscitato ovunque un odio così inestinguibile contro di sé che ormai da mezzo secolo la nostra scuola rinuncia alla didattica e ricorre a ogni ipocrisia pur di non affrontare l’eventualità di una ripetenza.
Tra le ipocrisie la più usata è lo slancio innovativo, vale a dire l’imitazione della scuola americana, quantunque sia universalmente noto che essa non istruisce e che gli Stati Uniti sono costretti a importare dall’estero gli alunni capaci di frequentare le loro università. Pur essendo egemoni in molti campi, gli Stati Uniti non hanno un modello valido di scuola da esportare. Il loro compiaciuto pragmatismo, addolcito dal naturalismo romantico e corroborato dall’eccezionalismo messianico, li rende refrattari a riconoscere le ragioni del primato che la civiltà ellenica conferì alla teoresi, e nelle questioni scolastiche li condanna a restare incantati dalla pedagogia attiva o progressiva.
Nata dalla mente inquieta di Rousseau, questa pedagogia poggia su due dogmi: il primo, caro al romanticismo, è che la mente del bambino matura da sola e secondo un suo ritmo naturale; il secondo, di natura pragmatica, è che la conoscenza teorica trasmessa a voce o per iscritto dagli adulti ai bambini è una zavorra dannosa per lo sviluppo della loro intelligenza. Dai due dogmi segue l’imperativo che gli adulti rinuncino a tenere lezioni ai bambini e si limitino a predisporre un ambiente di cose, o di schermi e visori, in cui il loro sviluppo mentale proceda indisturbato.
La pedagogia che poggia su questi dogmi dovrebbe essere qualificata come passiva, perché vuole che l’adulto rinunci al ruolo di guida impostogli se non altro dall’età, e come regressiva, perché esige che si metta al seguito della spontaneità infantile. Essa ha però già operato su di sé il capovolgimento completo che esige dagli adulti e già guarda il mondo con gli occhi del bambino; si qualifica dunque come attiva perché sostiene che il bambino maturi attraverso le sue sole attività; e si qualifica come progressiva perché, nell’esigere che l’adulto si inchini alla spontaneità infantile, essa si accosta all’ugualitarismo più radicale.
La mentalità americana che abbiamo importato dal dopoguerra e che imperversa nelle nostre famiglie come nelle nostre scuole è il frutto di questa prospettiva capovolta: tutti avranno notato che Qui, Quo e Qua sono più saggi e più avveduti degli adulti. Oltre ai fumetti, però, non c’è alcuna ragione, né teorica né fattuale, di riconoscere l’ammissibilità della pedagogia capovolta. Poiché qualificarla come attiva o progressiva, anziché come passiva e regressiva, comporta un tacito consenso al suo capovolgimento irragionevole, è preferibile indicarla come puerocentrica.
La falsità del primo dogma della pedagogia puerocentrica è di evidenza immediata. Esso presuppone infatti un’impossibile indipendenza del bambino dagli adulti, tanto più assurda nella specie umana, in cui il bambino è strettamente legato agli adulti per molti anni passati ad assorbire attraverso il linguaggio le conoscenze ereditate dalla tradizione. Lo sviluppo mentale infantile ha così poco di indipendente dal mondo adulto che è molto problematico parlare di sviluppo mentale del ‘bambino’ in astratto, perché ogni sviluppo dipende non solo dalle specifiche individualità coinvolte nel rapporto educativo, ma anche dallo specifico linguaggio e dalle specifiche tradizioni che vi sono racchiuse.
Il secondo dogma, la conoscenza teorica come zavorra, è invece una convinzione così universalmente popolare che contro di essa ha dovuto mobilitarsi la filosofia fin dai suoi primordi. La costruzione della cosa a partire dalle sensazioni provate è una prestazione del nostro apparato percettivo di tale virtuosismo, che la cosa stessa, afferrabile con la mano, appare già come il vertice dell’essere. È questa apparenza che dà vita alla concezione empirista e a quella pragmatista. La dottrina delle idee platonica, che le ha contrastate prima che fossero formulate consapevolmente, nasce dall’osservare che anche la cosa, non meno delle sensazioni, è sotto il segno del divenire; dunque, le manca quella definitività necessaria a una conoscenza che sia ἐπιστήμη, scienza dell’essere. Solo la conoscenza scientifica è in grado di ascendere dal divenire delle cose alla regolarità di questo divenire stesso, cioè all’essere che è espresso nelle leggi delle cose. Esse sono però pensate ed espresse nel linguaggio umano fatto di nomi legati tra di loro da riferimenti necessari. Conoscere significa dunque scoprire la legalità nel divenire delle cose e fissarla nel linguaggio; istruire significa trasmettere al futuro le leggi già scoperte dagli sforzi delle intelligenze del passato e affidate al linguaggio. Il linguaggio dei nomi (ciò che Platone indicava con la metafora del mondo delle idee) non è così un superfluo raddoppiamento di una inesistente solidità delle cose, come credono l’empirismo e il pragmatismo, ma lo scrigno dei concetti che consentono di innalzarsi dal divenire all’essere delle cose, vale a dire alla legalità da cui sono dominate. Per questo motivo i nomi hanno una dignità ontologica superiore alle cose sensibili, e la loro contemplazione, in cui consiste l’autentica teoresi, non ha nulla dell’ozioso o del fantastico che l’empirismo pragmatico è solito insinuarvi.
L’esaltazione dell’atteggiamento teoretico, risultato primo della filosofia ellenica, è stata ripresa dalle scienze biologiche attuali. Konrad Lorenz ha mostrato che la conoscenza, nella sua forma inconsapevole, è l’essenza stessa della vita naturale: l’adattamento del vivente all’ambiente, che ne determina la struttura corporea e i comportamenti, non è altro che l’insieme delle conoscenze che gli consentono di acquisire l’energia di cui ha bisogno per conservarsi e riprodursi. Esse sono registrate nel genoma, una scrittura nel senso più proprio del termine, capace di trasmetterle di generazione in generazione. In questa trasmissione le casuali mutazioni vantaggiose, rarissime, sono le scoperte di nuove conoscenze, che danno origine a nuove forme biologiche, in grado di trarre dall’ambiente nuove forme di energia. Infine, un salto trasfigura la semplice vita, che è conoscenza inconsapevole, nello spirito dell’uomo. Rispetto alla natura che progredisce soltanto per mutazioni del genoma, l’uomo progredisce perché ha nel linguaggio e nella scrittura gli strumenti con cui tesaurizzare e trasmettere universalmente le conoscenze acquisite dall’impulso all’esplorazione del genio individuale. E l’inaudita possibilità di sottrarre alla dimenticanza i risultati ottenuti dalla sua curiosità disinteressata che conferisce all’individuo umano una prossimità all’eterno riscontrabile soltanto nella nostra specie.
Ha dunque qualcosa di ottuso e di antiumano considerare un vizio la curiosità puramente teoretica, una zavorra le conoscenze da essa acquisite e un danno la loro trasmissione, come usano fare il pragmatismo e la sua versione pedagogica. Esse sono verità definitive sul mondo, dunque strumenti necessari per fare esperienze significative e punti di partenza per nuove acquisizioni. Se non potessero giovarsi della trasmissione di ciò che i loro avi hanno imparato, gli uomini regredirebbero al di sotto dello stato primitivo.
Poiché il linguaggio e le conoscenze ereditate per suo tramite sono la sostanza dello spirito, il senso dell’istruzione scolastica non può essere inteso, nello stile della pedagogia puerocentrica e del pregiudizio comune, come ambiente d’esperienza pratica delle cose, nel quale il bambino e il giovane maturano soltanto abilità formali. Le stesse abilità formali, ciò che con espressione ridondante si indica con pensiero critico, non nascono dal manipolare le cose, ma possono essere acquisite solo nello sforzo di apprendere le conoscenze ereditate, anzitutto quelle linguistiche (grammatica, lingue classiche). Il significato essenziale dell’istruzione scolastica deve essere dunque inteso come trasmissione ai bambini e ai giovani del tesoro delle conoscenze ereditate. Una pedagogia che non riconosca la loro preziosità è un controsenso e la sua applicazione è la rovina della scuola.
Il linguaggio racchiude il tesoro di conoscenze trasmesse dal passato. Acquisirlo è difficile, perché esso non si è affatto accumulato, come crede la faciloneria empirista o pragmatista, a partire dalle esperienze banali, comuni a tutti, ma dagli sforzi spasmodici degli individui geniali. Questa difficoltà è essenziale per l’acquisizione delle abilità superiori; non può essere evitata e deve essere superata. Occorre che chi ne ha già acquisito una parte aiuti chi deve farlo. La scuola è il luogo di questo aiuto. Se dunque consideriamo come centro lo scopo, il centro della scuola è la trasmissione della conoscenza ereditata alle nuove generazioni; se consideriamo come centro il mediatore tra il bambino e la conoscenza ereditata, il centro della scuola è l’insegnante. Il bambino e il giovane sono centro solo nel senso che il loro sforzo è oggetto di rispetto e di cura; per il resto, non attorno al loro mondo ruotano l’insegnante e la conoscenza; questi sono al servizio della loro esigenza di diventare adulti.
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Lev Vygotskij rappresenta un caso unico nella pedagogia del Novecento. Dapprima, negli anni ’20, seguendo le simpatie dei rivoluzionari sovietici per Dewey, aderisce a una concezione spiccatamente puerocentrica dell’educazione; poi, negli anni ’30, la condanna e aderisce a una concezione che valorizza l’istruzione scolastica e il ruolo attivo dell’insegnante. Il capovolgimento, anzi il recupero, della prospettiva dell’istruzione ebbe probabilmente una determinante storica. La scuola puerocentrica, nella sua convinzione pragmatista che la scienza si origini da semplici esperienze e possa fare a meno delle «certe dimostrazioni», rinuncia all’istruzione e si rende inutile agli alunni; poiché però dalla scienza dipende la tecnologia, la scuola puerocentrica si rende inutile anche allo sviluppo produttivo. Fallita già negli anni ’20, essa fu abbandonata del tutto quando Stalin ebbe bisogno di ingegneri e tecnici per avviare l’industrializzazione accelerata. Vygotskij si conformò a questo cambiamento e lo sostenne dal punto di vista teorico rilanciando i motivi della didattica della conoscenza.
Il suo pensiero ha esercitato un notevole fascino sulla pedagogia occidentale della seconda metà del secolo scorso, ma senza che si sia rilevata la svolta che esso subisce, senza dunque portarla a una svolta. La percezione di una svolta presuppone la percezione di un’antitesi, ed è fatale che una disciplina abituata a vedere l’antitesi dove non c’è, per esempio tra adulto e bambino o tra conoscenza e abilità, non riesca a scorgerla dove c’è, e così la trasformi nell’identità. È dunque diventato un luogo comune attribuire al Vygotskij degli anni ‘30 la valorizzazione del ruolo educativo dell’ambiente sociale, come se questo suo punto di vista fosse una semplice variante della valorizzazione dell’ambiente fisico propria del puerocentrismo. Tra i due punti di vista c’è invece opposizione radicale. Negli anni ’30 Vygotskij ha recuperato il senso della realtà e ha elaborato una concezione radicalmente opposta al puerocentrismo, in grado di rettificare la didattica e di riqualificare la scuola.
Il recupero del senso dell’istruzione è espresso apertamente da Vygotskij nella sua opera più importante, Pensiero e linguaggio: «Come si sa, al tempo in cui presso di noi dominava il sistema di insegnamento scolastico per complessi, venivano fornite delle argomentazioni pedagogiche di questo sistema. Si affermava che il sistema per complessi corrispondeva alle caratteristiche del pensiero infantile. L’errore fondamentale stava nel fatto che l’impostazione stessa del problema era errata in linea di principio» (Vygotskij, p. 274). Questa impostazione consisteva nel basare la didattica «su ciò che il bambino sa fare da solo nel suo pensiero» e nel trascurare che «l’istruzione deve far progredire lo sviluppo» (ibidem). Nel 1934 Vygotskij dichiara apertamente di considerare erronea l’impostazione dominante negli anni ’20, che pone al centro il fare autonomo del bambino e fa dell’insegnante un suo satellite, e confessa quindi che il suo pensiero attuale è antitetico a quello del decennio precedente.
E tuttavia nel libro che nel 2021 ha dedicato a Vygotskij, Luciano Mecacci non vede l’antitesi e procede sul filo dell’identità. L’equivoco si era già presentato nella sua traduzione di Pensiero e linguaggio, nel sesto capitolo, dove diventa di importanza saliente il rapporto tra lo sviluppo mentale e il concetto espresso in russo con la parola obučenie. Sembra che questa parola rientri nel novero delle parole solo imperfettamente traducibili in italiano – ma è un’apparenza che Mecacci per primo di fatto smentisce.
Nel libro su Vygotskij, egli riporta dall’Enciclopedia pedagogica della Menčinskaja questa definizione illuminante: obučenie è «il processo di trasmissione e appropriazione delle conoscenze, delle capacità, delle abilità e dei metodi dell’attività conoscitiva dell’uomo. L’obučenie è un processo bilaterale, attuato dal docente […] e dal discente […]» (Mecacci, p. 115).
Se si sta a questa definizione, obučenie non è altro che la formazione scolastica, e non si vede che problema possa sussistere a tradurlo con istruzione, nome che significa non solo l’attività di insegnamento, ma anche il risultato, cioè il complesso delle conoscenze e della abilità che l’alunno acquisisce. Un problema insussistente si può però sempre creare. Mecacci prosegue infatti così: «Nelle prime traduzioni occidentali delle opere di Vygotskij, obučenie era tradotto o con ‘insegnamento’ o con ‘apprendimento’, a seconda dell’accento posto più sull’insegnante o sull’allievo, perdendo così il significato di rapporto bilaterale o circolare tra l’insegnante e l’alunno» (Ibidem).
In verità, non solo le prime traduzioni occidentali hanno creato il problema insussistente, come scrive Mecacci, ma esso si è propagato fino alla sua traduzione di Pensiero e linguaggio, dove obučenie è reso quasi sempre con apprendimento. L’effetto di rendere un termine che indica l’interazione tra insegnante e alunno con un termine che indica la sola azione dell’alunno è imponente: una pedagogia che, come quella di Vygotskij, si sforza di dimostrare il valore dell’istruzione scolastica sullo sviluppo mentale viene capovolta per i lettori italiani in un tentativo confuso di pedagogia puerocentrica. Il problema insussistente sembra peraltro anche insolubile; conclude infatti Mecacci: «È oramai invalso l’uso di tradurre obučenie con “insegnamento/apprendimento” (in inglese, teaching/learning)» (Ibidem). E perché mai, a un termine italiano perfettamente adeguato e trasparente come istruzione, si dovrebbe preferire un calco tratto da una tradizione culturale che non ha mai raggiunto minima chiarezza nelle questioni pedagogiche? Il nostro sospetto è che la mentalità fideistica propria della pedagogia puerocentrica le impedisca non solo di pensare la possibilità di una pedagogia dell’istruzione, ma anche di tollerarne la realtà. Per questo essa non può evitare di far diventare oscuro il chiaro.
Mecacci attribuisce giustamente agli scritti degli anni ’20 di Vygotskij la concezione «secondo la quale l’educatore non deve educare: nel senso che la sua lezione non deve essere costituita essenzialmente dalla trasmissione e valutazione di nozioni e regole delle varie discipline, ma deve fornire soprattutto strumenti di lavoro e riflessione» (Mecacci, p. 113). Imbevuto lui stesso di puerocentrismo e non avendo sentore della svolta degli anni ‘30, Mecacci non mobilita la critica di questa proposizione e non vi vede all’opera il peccato originale della pedagogia puerocentrica, di considerare come antitetici termini identici: per un verso, trasmettere e fornire non sono affatto incompatibili come voleva Vygotskij, ma sono sinonimi, per l’altro le nozioni e le regole delle varie discipline non sono affatto antitetiche agli strumenti di lavoro e di riflessione, sono anzi gli strumenti indispensabili di ogni lavoro e riflessione.
Vygotskij pose l’identico, le nozioni e gli strumenti, come antitetico, Mecacci lo segue senza accorgersene: mostra di credere che le nozioni non abbiano utilità e acconsente alla richiesta assurda che la scuola assegni loro un ruolo marginale. L’educatore, rincara anzi Mecacci, «deve insegnare a leggere autonomamente la realtà, senza imporre una versione ‘confezionata’» (p. 113). Qui egli accetta di considerare lo stesso rapporto tra mezzo e fine come un’antitesi, mentre è evidente che imparare a leggere e a scrivere con le lettere e la grammatica ‘confezionate’ dal passato non impedisce affatto che si diventi capaci di leggere autonomamente la realtà, anzi, l’accesso ai libri e alla conoscenza teorica è un mezzo indispensabile per raggiungere il fine del pensiero critico. Mecacci non doveva concedere al suo autore la tesi assurda che si possa leggere adeguatamente i libri e la realtà se la scuola non ha trasmesso la grammatica ‘confezionata’ dalla tradizione; doveva opporgli l’osservazione che l’analfabeta e l’ignorante sono condannati a restare ristretti nel cerchio angusto dell’uso spontaneo del linguaggio.
Sempre negli anni ’20, l’odio pragmatista del linguaggio portò Vygotskij a rifiutare la nozione. La nozione è una conoscenza in apparente isolamento; nella sua forma minima essa è il nome. Il nome, tuttavia, non serve soltanto a comunicare un’immagine, un contenuto psicologico isolato, ma veicola anche un concetto, cioè un elemento all’interno di un sistema teorico (il nome «stella» non indica soltanto l’immagine di una stella per gli scambi linguistici quotidiani, ma è anche una determinazione della teoria astronomica), necessario per affrontare con intelligenza l’esperienza.
Rifiutando la nozione, Vygotskij rinunciò di fatto anche all’elemento teorico che vi è contenuto. Per recuperarlo abbandonò il terreno della realtà presente e, com’è tipico di ogni utopismo rivoluzionario, si volse al nebuloso, al nuovo: «Sul maestro cade un nuovo ruolo di responsabilità. Si prefigura come l’organizzatore di quell’ambiente sociale che è l’unico fattore educativo»[1] (Mecacci, p. 114). Il nuovo a cui si riferiva Vygotskij era, in realtà, tutt’altro che nuovo, era invece il precetto che già un secolo e mezzo prima Rousseau aveva dettato all’istitutore, rimesso in auge da Dewey, quello di evitare la guida diretta dell’allievo, e di condizionarlo invece attraverso le esperienze predisposte – quelle che poi saranno i complessi. La novità si limitava all’aggettivo «sociale» che, negli anni ‘20, fu aggiunto al nome «ambiente» allo scopo di approssimarlo all’ortodossia rivoluzionaria.
La convinzione che con il suo sviluppo naturale e senza nozioni il bambino possa acquisire le abilità formali superiori indusse Vygotskij ad aderire ai pregiudizi più biechi del puerocentrismo: «Dove svolge la funzione di una semplice pompa che imbottisce gli alunni di conoscenze [il maestro] può essere sostituito con successo da un manuale, da un vocabolario, da una carta geografica, dal fare delle gite» (Mecacci, p. 114). Queste proposizioni contengono due falsità e una contraddizione: la trasmissione delle conoscenze non equivale ad azionare una pompa, perché presuppone l’attenzione e l’intelligenza attiva, non la passività o la resistenza dell’alunno; è anche falso che i manuali e i vocabolari siano strumenti utilizzabili direttamente dagli alunni, senza maestri, perché la scrittura non è un mezzo linguistico spontaneo; infine, la falsa immagine della pompa, in quanto suggerisce che insegnare equivalga a forzare nell’alunno un contenuto estraneo, è in contraddizione con la falsa affermazione che leggere un manuale, un vocabolario o una carta geografica siano attività eseguibili dall’alunno senza la mediazione del maestro. Per il pedagogista che si volge al nuovo, l’esistente è il ricettacolo di ogni male, anche di quelli incompatibili tra loro.
Senza che Mecacci e con lui l’intera pedagogia del secondo Novecento se ne accorgano, negli anni ’30 Vygotskij abbandona consapevolmente, come s’è visto, la concezione esposta nel 1926, e ne fa l’oggetto di critiche radicali. È così che Pensiero e linguaggio fa di Piaget un bersaglio critico. Mentre infatti Piaget ha sempre concepito una separazione completa tra lo sviluppo mentale e l’istruzione, Vygotskij li concepisce ora come interdipendenti. Mentre per Piaget non c’è uno sviluppo mentale nel senso proprio della parola, perché, secondo lui, «le particolarità del bambino stesso non giocano un ruolo costruttivo» (Vygotskij, p. 213) e il bambino si limita a deporre le forme mentali immature così da assumere in modo automatico le forme adulte, per Vygotskij lo sviluppo mentale presuppone l’esercizio spontaneo delle forme mentali immature e «consiste nella presa di coscienza progressiva dei concetti e delle operazioni del proprio pensiero» (Vygotskij, p. 230) e nel loro uso volontario.
Per esempio, il bambino è in grado di pronunciare correttamente una parola intera, ma non è in grado di pronunciare un gruppo di lettere interno alla parola; oppure usa le congiunzioni nel parlare, ma non è in grado di dire che cosa significhino e di completare con proposizioni adatte frasi con congiunzioni sospese. Il suo sviluppo mentale consiste dunque per Vygotskij non nel deporre lo spontaneo, ma nel passare dallo spontaneo al consapevole e al volontario, dall’immediato al riflesso.
Questo passaggio si compie quando l’io, nel percepire la cosa con cui è impegnato, percepisce anche sé stesso, ciò che Kant ha indicato come «appercezione» e Vygotskij chiama «introspezione»: «la presa di coscienza è un atto della coscienza il cui oggetto è l’attività stessa della coscienza» (Vygotskij, p. 238). Per esempio, se nell’agire sono assorbito completamente dal mio fine, agisco senza consapevolezza; la acquisisco se, oltre al fine, considero anche la forma del mio agire, il suo lato soggettivo. Mediante questa introspezione, il fine cessa di essermi l’intero essere; dunque, mi diventa particolare, una delle possibili cose con cui la mia volontà può scegliere o meno di impegnarsi. Per questo consapevolezza e volontà sono intimamente legati.
Per Vygotskij l’istruzione scolastica ha il compito di sviluppare nel bambino la consapevolezza delle funzioni psichiche e il loro uso volontario. Nell’età scolare «il bambino passa dall’introspezione non verbale a quella verbale. In lui si sviluppa una percezione interna del senso dei suoi processi psichici» (Vygotskij, pp. 238-239). Vale a dire, prima della scuola la consapevolezza di sé è ancora muta, perché il linguaggio del bambino è ancora spontaneo, non riflesso. Solo l’istruzione scolastica lo spinge ad acquisire un rapporto consapevole e volontario con il linguaggio e, a sua volta, il linguaggio consapevole consente la consapevolezza linguistica di sé, l’introspezione del senso dei suoi processi psichici.
L’esercizio spontaneo del linguaggio è segnato dalla prevalenza del rapporto tra il nome e la cosa. Dapprima i nomi sono percepiti secondo il modello dei nomi propri: sono sigilli dell’oggetto; lo evocano, senza però determinarlo, senza permetterne la conoscenza. Durante l’esercizio spontaneo del linguaggio, il bambino associa dunque al nome solo l’immagine della cosa. Il rapporto consapevole con il linguaggio porta in primo piano il lato soggettivo del nominare, fa dunque emergere l’indipendenza del nome e i suoi rapporti: da una parte esso non indica più una cosa singola, ma una classe di cose, dall’altra non è più isolato, ma è legato agli altri nomi. Mentre il primo rapporto eredita la convenzionalità del nome proprio, nel secondo rapporto si affaccia la necessità, ossia la logica; il rapporto interno tra i nomi è infatti costituito dalla definizione, dalla classificazione e dalla dimostrazione. Ecco perché alla luce della consapevolezza il nome diventa concetto, ossia diventa determinante, conoscitivo. «I concetti scientifici, con il loro rapporto affatto diverso con l’oggetto, mediato attraverso altri concetti, con il loro sistema gerarchico di relazioni reciproche, sono il campo in cui la presa di coscienza dei concetti, e cioè la loro generalizzazione e padronanza compare per la prima volta. Una volta comparsa in tal modo in una sfera di pensiero, la nuova struttura della generalizzazione è trasferita […] a tutti gli altri campi del pensiero e agli altri concetti» (Vygotskij, p. 239).
Vygotskij chiama generalizzazione l’effetto della consapevolezza che trasforma i nomi in concetti. Come si vede, il termine indica la loro natura essenzialmente sistematica. Il concetto, infatti, in quanto generale subordina a sé più concetti particolari, e in quanto particolare, insieme ad altri concetti particolari con i quali è coordinato, è subordinato a un concetto più generale. A differenza della parola come nome proprio legato a una cosa, la parola come concetto è un nodo di una rete logica, è un elemento di un sistema. La mente è consapevole e padroneggia un nome solo in quanto, come concetto, le è inserito in una rete di rapporti logici. E attraverso il concetto la consapevolezza linguistica si estende su tutte le funzioni psichiche completandone lo sviluppo.
Da queste riflessioni Vygotskij conclude che il bambino è dapprima immaturo, non perché sia egocentrico, come crede Piaget, ma, al contrario, perché il suo io, privo di consapevolezza linguistica di sé, è assorbito dalle cose: «Abbiamo scoperto che la causa della non presa di coscienza sta non nell’egocentrismo, ma nella non sistematizzazione dei concetti spontanei, che per tale ragione devono essere inconsapevoli e spontanei» (Vygotskij, p. 243].
Poiché dunque lo sviluppo della mente è l’acquisizione della consapevolezza e dell’uso volontario dei suoi mezzi, e questa acquisizione dipende dalla percezione del lato sistematico del nome che solo l’istruzione può dare, Vygotskij è in grado di conferire alla scuola un’importanza immensa. E non certo perché essa sia un ambiente a disposizione della spontaneità del bambino, ma, al contrario, in quanto vi domina il concetto, in quanto un insegnante consapevole vi espone i nomi come fondamenti di rapporti logici, cioè li propone come elementi della definizione, della classificazione e della dimostrazione.
Così Vygotskij è in grado di esercitare contro l’impostazione puerocentrica una critica che procede secondo il metodo dialettico: tesi, antitesi, sintesi. 1) Il puerocentrismo concepisce istruzione e sviluppo mentale del bambino come separati. Rousseau sottoscriverebbe senz’altro l’opinione che «lo sviluppo può seguire il suo corso normale e raggiungere il suo livello superiore senza alcuna istruzione; quindi i bambini che non seguono un’istruzione scolastica sviluppano tutte le forme di pensiero accessibili all’uomo, e manifestano tutta la pienezza delle facoltà intellettive nella stessa misura dei bambini istruiti a scuola» (p. 245). Infatti, per Rousseau l’istruzione è una necessità esterna imposta dall’inevitabile rapporto di Emilio con la società corrotta; essa deve dunque essere per quanto possibile ritardata, in modo da non disturbare lo sviluppo.
Nel separare istruzione e sviluppo, Piaget crede che «l’istruzione dipenda dallo sviluppo», ma che «lo sviluppo non si modifichi affatto sotto l’influenza dell’istruzione» (pp. 245-246). Per lui l’essenziale è lo sviluppo mentale, che va indisturbato per la sua strada; l’istruzione può aggiungersi, ma solo dopo che lo sviluppo ha compiuto il suo corso e ha prodotto le funzioni che la rendono possibile. Effetto di questo atteggiamento è la preoccupazione dei pedagogisti americani per il «developmentally appropriate»: il termine «è usato generalmente per dissuadere le scuole dall’insegnare certi contenuti troppo presto, ma raramente, o mai, per suggerire che quei contenuti non sono appropriati allo sviluppo perché sono stati insegnati troppo tardi» (Hirsch, p. 249).
2) L’associazionismo di James e Thorndike ha elaborato, secondo Vygotskij, la visione esattamente opposta a questa precedente: ha identificato apprendimento e sviluppo mentale, ma solo perché ha ridotto l’apprendimento alla formazione di nessi percettivi inconsapevoli, in base al meccanismo di stimolo-risposta. In quanto riduce la mente a una congerie di associazioni mentali particolari, questa impostazione non può concepire il ruolo della consapevolezza nello sviluppo e non può neanche accettare la realtà dell’istruzione.
3) La psicologia della Gestalt ha associato istruzione e sviluppo, senza però elaborare i modi concreti del loro nesso. Vygotskij vi trova dunque i presupposti della sua pedagogia dell’istruzione. In particolare, Koffka ha riconosciuto che «l’istruzione influenza in un certo modo la maturazione e la maturazione in un certo modo l’istruzione» (Vygotskij, p. 249). Egli inoltre ha identificato il processo di istruzione con la «comparsa di nuove strutture e con il perfezionamento di quelle vecchie» (Vygotskij, p. 250). Una struttura è una forma definita dalla possibilità di essere trasferita su una materia diversa da quella a cui dapprima ineriva. È evidente che questa possibilità di trasferimento propria della struttura nel senso del gestaltisti coincide con la consapevolezza e la volontarietà che Vygotskij indica come mete dello sviluppo mentale. L’istruzione influisce dunque sullo sviluppo mentale in quanto essa sviluppa nel bambino strutture consapevoli, che non restano isolate in sé stesse, ma si trasferiscono su tutte le sue funzioni psichiche trasformandole. Per questo motivo, dalla posizione di Koffka risulta che «l’istruzione può andare non solo dietro lo sviluppo, non solo può andare passo passo con esso, ma può precedere lo sviluppo, spingendolo in avanti e suscitandovi nuove formazioni» (Vygotskij, p. 251).
Vygotskij riconosce che questa concezione di un’istruzione capace di suscitare strutture trasferibili che alimentano lo sviluppo non è nulla di nuovo, anzi è stata patrimonio comune della pedagogia, in particolare era apparsa nella nozione di «disciplina formale» di Herbart. Per questa concezione, le materie disciplinari, quanto più importanti, tanto più offrono conoscenze e abilità non solo utili al loro interno, ma utili per tutto, conoscenze e abilità universali, che coincidono dunque con lo sviluppo ultimo della mente. È la nozione di «disciplina formale» che ha consentito alla scuola europea dell’Ottocento di sottrarsi alla morsa puerocentrica predisposta da Rousseau, e di dare origine al liceo ginnasio fondato sul latino e sul greco e al liceo scientifico fondato sulla matematica. Al latino, al greco e alla matematica si è riconosciuta la dignità di discipline formali per eccellenza, in grado di sviluppare una mente universale.
La nozione di «disciplina formale» fu attaccata da Thorndike sulla base del principio che le risposte acquisite in una data situazione possono essere trasferite solo a situazioni simili. Vygotskij mostra che gli argomenti di Thorndike presuppongono la ristrettezza del principio associazionistico, secondo il quale l’apprendimento è costituito da connessioni mentali empiriche, consolidate sulla sola base della soddisfazione del soggetto, quindi insensate. Questo principio è adatto al gatto famelico che dopo molti tentativi ed errori preme infine la leva che apre la gabbia e gli permette di raggiungere il cibo, ma è impari di fronte alla consapevolezza e alla volontarietà proprie della mente umana. Applicato comunque all’istruzione, esso la riduce a un mero addestramento in abilità meccaniche – e queste certamente possono essere trasferibili solo «per accidens». Se invece si considerano le funzioni superiori della mente umana, resta perfettamente valida l’idea di istruzione fondata sulla natura di disciplina formale delle materie scolastiche.
Prima ancora che il latino e il greco, sono discipline formali la scrittura e la grammatica, nonché la matematica, vale a dire il leggere, lo scrivere e il far di conto, bersagli dell’ironia e del disprezzo della pedagogia puerocentrica, nondimeno da sempre base comune di ogni competenza intellettuale. Vygotskij dedica alla scrittura e alla grammatica pagine di rara lucidità psicologica. Egli osserva che la scrittura è difficile per il bambino a causa della sua profonda differenza dal parlato.
Mentre parlare è spontaneo, scrivere è un’operazione consapevole e volontaria (solo uno scrittore molto esperto può darsi alla pratica surrealista della scrittura automatica). Proprio per questo da una parte segue di sei anni il linguaggio parlato, dall’altra è in grado di elevarlo a una consapevolezza analitica e a una volontarietà che esso non avrebbe mai raggiunto da solo. Stessa funzione è svolta dalla grammatica. Essa non offre nuove conoscenze, e per questo la si accusa di essere inutile; tuttavia, è in grado di dare al bambino la consapevolezza e la padronanza delle abilità linguistiche spontanee; per questo è indispensabile allo sviluppo della sua mente.
Mentre il puerocentrismo crede che l’istruzione sia separata dallo sviluppo e che debba seguirlo, Vygotskij sostiene dunque che «l’immaturità delle funzioni all’inizio dell’istruzione è una legge generale e fondamentale» (p. 262). Da una parte l’istruzione segue lo sviluppo mentale, dall’altra lo precede. Questo significa anzitutto che tra istruzione e sviluppo non c’è uno stretto parallelismo, che il loro rapporto deve essere pensato nei termini dell’hegeliana «linea nodale della misura», nota nella tradizione marxista come rovesciamento del progresso quantitativo in salto qualitativo: il progredire dell’istruzione, che segue la forma delle materie disciplinari, produce i progressi degli sviluppi mentali solo raggiunte certe soglie.
Inoltre, che l’istruzione segua e insieme preceda lo sviluppo mentale, dà origine alla nozione più caratteristica di Vygotskij, quella di «zona di sviluppo prossimo». Lasciato solo, il bambino risolve problemi di un certo livello di difficoltà, quello che il suo sviluppo attuale gli consente; aiutato dall’istruzione, l’alunno risolve problemi di livello superiore. L’istruzione permette al bambino di superare i suoi limiti, e la differenza tra i due livelli è appunto la «zona di sviluppo prossimo». Come nell’esempio platonico del «Menone», l’aiuto suscita nel discente conoscenze e abilità di cui egli non dispone se lasciato a sé stesso, ma che, una volta acquisite con l’aiuto del docente, diventano una proprietà di cui dispone autonomamente: «ciò che il bambino sa fare oggi in collaborazione, saprà fare domani indipendentemente» (Vygotskij, p. 273).
La zona di sviluppo prossimo indica dunque l’apertura del bambino all’azione del docente. Essa ha due limiti. Rispetto al limite inferiore, costituito dal livello attuale di sviluppo, l’istruzione è efficace solo se «va avanti allo sviluppo e lo trascina dietro di sé» (Vygotskij, p. 273). Questo andare avanti ha però un limite superiore, non è indeterminato, come nell’affermazione di Bruner che si possa insegnare tutto a tutti: l’insegnante può insegnare solo ciò che il bambino può imitare. L’imitazione dell’adulto è il comportamento con cui il bambino va oltre sé stesso; le potenzialità che egli vi rivela delimitano dunque la soglia superiore della zona di sviluppo prossimo.
Vygotskij è consapevole che il suo orientamento pedagogico non ha nulla di nuovo, che è anzi un ritorno all’istruzione in senso tradizionale. Egli si è liberato dall’ossessione del nuovo che negli anni ’20 lo aveva portato al capovolgimento puerocentrico, e ha capovolto il capovolgimento, in modo da tornare alla realtà. «Così, quando diciamo che l’apprendimento deve basarsi sulla zona di sviluppo prossimo, cioè sulle funzioni non ancora maturate, non prescriviamo alla scuola una nuova ricetta, ma semplicemente ci liberiamo del vecchio errore per cui lo sviluppo deve necessariamente percorrere i propri cicli, preparare interamente il terreno su cui l’apprendimento può costruire il proprio edificio» (Vygotskij, p. 273).
La pedagogia puerocentrica è un vecchio errore, perché la sua concezione dello sviluppo mentale irrigidito in una successione inesorabile di stadi porta con sé l’idea di impotenza dell’istruzione: la riduzione della scuola ad ambiente passivo e l’emarginazione dell’insegnante. Che l’istruzione scolastica svolga una funzione indispensabile nello sviluppo del bambino, che questa funzione consista nell’accesso a ciò che Vygotskij chiama concetto e Platone mondo delle idee, cioè al fondamento di ogni scienza e cultura, è una conoscenza del tutto ovvia. Occorrevano un rifiuto dell’umano qual esso è effettivamente e l’illusione romantica di una ricostituzione dell’integrità naturale, occorrevano il disprezzo dello spirito e la nostalgia dell’innocenza, per inaugurare una scuola che orbitasse intorno all’ignoranza irrimediabile. Il compito che incombe su di noi di sottrarci all’incanto del puerocentrismo e di restaurare la scuola come promotrice di intelligenza attraverso la conoscenza ha in Vygotskij un importante precursore.
Bibliografia
Hirsch, E.D., The schools we need and why we don’t have them, Anchor Books, New York 1999.
Lorenz, K., Vivere è imparare, Lindau, Torino 2018.
Mecacci, L., Lev Vygotskij. Sviluppo educazione e patologia della mente, Giunti, Firenze 2021.
Platone, La repubblica, libro VI
Vygotskij, L.S., Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, a cura di Luciano Mecacci, Laterza, Bari-Roma, 1990.
[1] Qui Vygotskij fu in tutto fedele all’impostazione puerocentrica sostenuta dalla Krupskaja che sul ruolo del maestro scriveva nel 1923: «Certamente […] egli dovrà avere una posizione quanto è più possibile passiva, evitare di pesare con la propria autorità e di assumere un lavoro che invece è molto importante che facciano i ragazzi stessi. In sostanza, il maestro deve influire sull’elaborazione delle forme più giuste di autogestione, ma la sua influenza deve essere indiretta. Egli, cioè, dovrà aiutare i ragazzi a prendere coscienza di quei problemi organizzativi nei quali essi si imbattono durante il gioco e nella vita». In https://www.discorsocomune.info/2014/12/anton-makarenko.html#:~:text=Si%20introduce%20nell’insegnamento%20il,la%20visione%20del%20mondo%20comunista. Consultato il 5/7/2023.