Come le cattedrali gotiche, stupenda bellezza resistente alle tragedie dei secoli che oggi non solo non sarebbe a norma ma nemmeno gli architetti sarebbero in grado di costruire, così il pensiero di Dominique Venner non è scalfito dai guasti della cancellazione culturale, né dal disprezzo del postfascismo imborghesito.
Pagine ribelli è una lettura che permette la comprensione di quest’uomo adamantino nel carattere e nella fedeltà alla condotta di vita. Egli stesso si è definito “cuore ribelle, ribelle per la fedeltà ai valori di rettitudine della mia infanzia”. Si ritirò dalla politica dopo la cocente sconfitta elettorale del 1967. Rimase sempre legato a questioni su cui era il caso di mettere una croce sopra come fece Alain De Benoist, sulle quali non ho evidentemente il diritto di giudicare, poiché si erge un vallo spietato fra l’uomo Venner e chi scrive ampio almeno il doppio del freddo che va dalla terra a Urano, perciò, mi limiterò a presentare come posso queste pagine ottimamente proposte dai tipi di Passaggio al bosco.
Dominique Venner è stato forse l’uomo che tutti avremmo voluto essere (lo sappiamo, ma lo ricordiamo, “Noi siamo i migliori. Abbiamo le ragazze più belle… Cosa che fa venir loro il mal di pancia! Già solo quello giustificava il ‘putsch’…”), ovvero un uomo dall’adorabile illegalismo. Finì in prigione, se pure non per l’omicidio di quel borghese rancoroso e feroce che fu de Gaulle, “catilinario bastardo della borghesia”, delitto che aveva effettivamente pianificato. Durante gli anni di detenzione alla Santè Venner affina le proprie convinzioni. riflette sulla situazione, scrive Per una critica positiva e altri saggi che poi condizioneranno la sua generazione. Ammiratore dei samurai e degli stoici romani che impostavano la vita sulla gravitas la virtus e la dignitas fino a contemplare il suicidio, atto che poi compirà senza timore, come “atto filosofico per eccellenza, un privilegio negato agli dei” in quanto “è decidendo di se stessi, volendo veramente il proprio destino che si è vincitori del nulla”. Proprio nella detenzione, matura il passaggio da attivista a “storico meditativo”.
Nella prefazione a Pagine ribelli, Alain de Benoist scrive: “Ciò che è certo, in ogni caso, è che la sua morte è stata in linea con ciò che è stata la sua vita: l’esatto contrario di tutte le disperazioni, di ogni codardia”. Ha scelto la morte come segno per il futuro, non sopportava più di assistere al suicidio dell’Europa. Alla sua morte, però, nulla lasciava presagire che il “samurai d’Occidente” avrebbe lasciato ai posteri un gran numero di appunti manoscritti in grado di costituire un corpus impressionante.
Trattasi di una trentina di quadernetti intitolati semplicemente Carnets. Queste pagine ribelli sono i lavori di preparazione di “Coeur rebelle” e riflessioni sulla quotidianità militare in Algeria, ovvero i taccuini 2, 3 e 4. Essi non hanno solamente un valore biografico, ma sono rivelativi dello stile e della qualità di Venner come scrittore. Il suo concetto dello scrivere è “frasi brevi e stile pulito, con delle citazioni”, perché “tutto sta nello scorcio”. Farne tesoro.
In essi Venner si autodefinisce “un europeo di lingua francese” che avrebbe voluto “nascere suddito della corona d’Inghilterra” e invece la malasorte lo ha fatto nascere (come noi tapini) “in un luogo che non fa che rinnegare se stesso”. Un paese che lo ripugna, una miseria e una beffa priva di fantasia.
Per l’esponente dell’ultima generazione che avrebbe potuto fare qualcosa, “gli ultimi Europei e, magari, i primi di un mondo che verrà”, nonché combattente per necessità interiore, la guerra d’Algeria fu “ultima avventura. Poi solo cupa e miserabile banalità”.
Dopo la guerra, “sogno d’irresponsabilità”, i ragazzi della sua generazione furono reduci “costretti a fuggire da quei compatrioti che oramai sono per noi degli estranei”, soprattutto Dominique, che è sempre stato un dissidente, lo era già a 8 anni ai tempi di Stalingrado. La sua preferenza andava ai ribelli, ai solitari e a coloro che si ostinano nella fedeltà: “I reietti del Baltico, i Sudisti, o gli appassionati di armi (ciascuno a modo suo) sono tutti dissidenti”. Da ciò un gande insegnamento dello storico Venner: “Il dissidente non è necessariamente un rivoltoso. La sua insurrezione è, innanzitutto, mentale ed estetica. Essa lo colloca necessariamente ai margini”.
Fu, come il suo maestro Jünger, sempre assillato dal “bisogno interiore di rompere con questa mediocrità”. Dai suoi appunti si evince uno spirito “bolscevico di destra” pronto a “far fronte alle prove, temprarsi nel dolore, vivere pericolosamente”, ma anche un uomo per certi versi tormentato per cui “il disprezzo è lo stimolante più efficace per la creatività”.
A noi, che lo possiamo sentire vicino, lascia un augurio e un compito. L’augurio è “Fare attenzione a non guarire mai dalla giovinezza” e il compito: “Gli Europei sono vulnerabili perché non hanno coscienza di ciò che sono. Non sono coscienti della propria identità né dei propri valori peculiari. Il compito più urgente è dunque quello di restituire loro le fondamenta di una struttura mentale, di una coscienza della propria identità”.
Perché ora “tutto è in rovina, ma forse esiste qualche gesto a partire da cui ogni cosa potrà rinascere”.