Un fantasma si aggira nel dorato mondo progressista: il sospetto che Marx oggi nonandrebbe d’accordo con l’attuale sinistra politico-culturale “fucsia”, dal Partito Democratico targato Schlein allo spagnolo Sànchez sino alle brigate woke americane e ai sedicenti Social Justice Warriors di estrema sinistra finanziati dai miliardari. Già da anni la tesi è stata tematizzata in Francia, soprattutto da Jean Paul Michéa, che si definisce socialista, ma non “di sinistra”. Adesso il sospetto riecheggia nelle considerazioni di una pensatrice svizzera, Elena Louisa Lange. Ha destato sensazione un intervento sul settimanale tedesco Die Weltwoche. “Vale la pena chiedersi cosa ne penserebbe Marx, combattente contro la censura prussiana, della cultura della cancellazione di sinistra oggi, o cosa penserebbe Marx dei Verdi tedeschi, la cui politica si basa su un nuovo collettivismo centrato sul virus o il cambiamento climatico”. E su un bellicismo forsennato, rappresentato dal ministro Annalena Baerbock, che contraddice decenni di pacifismo arcobaleno.
La Lange individua nella controcultura nata negli anni Sessanta del Novecento e nella Scuola di Francoforte la svolta epocale della sinistra occidentale. I francofortesi partirono sì dal pensiero di Marx, ma per rivoltarlo come un calzino, sino a disinteressarsi dell’elemento base, l’abolizione della proprietà privata come elemento fondamentale della liberazione dell’umanità. Lo stesso internazionalismo stava loro stretto: optarono per un cosmopolitismo astratto, il cui sbocco paradossale fu il più acceso soggettivismo, punto d’incontro con il liberalismo. Herbert Marcuse, la figura chiave di quegli anni, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, pur fortemente segnati dal marxismo classico, non furono mai interessati “all’emancipazione sociale delle classi lavoratrici. Adorno e Horkheimer, influenzati dall’esperienza di Auschwitz, sostituirono la lotta di classe con la politica identitaria ebraica, Marcuse vedeva il soggetto rivoluzionario nei dannati della Terra (Frantz Fanon), nel Terzo Mondo, nelle donne, nei neri, negli omosessuali.”
Non siamo d’accordo sul giudizio relativo a Adorno e Horkheimer: i due furono certo influenzati dalla radice ebraica – comune a tutti i francofortesi – ma il loro bersaglio polemico furono soprattutto la società autoritaria – simbolo di una sorta di fascismo eterno (La personalità autoritaria) e la cultura di massa (Dialettica dell’illuminismo), che detestavano in nome di un intellettualismo elitario. Il disinteresse per la sorte del proletariato e per i suoi problemi concreti è palese. Anzi, ritenevano che la classe operaia non fosse affatto rivoluzionaria, interessata piuttosto al miglioramento della propria condizione economica e sociale, dunque conservatrice.
In questo, concordiamo con la tesi della Lange. “Per Marcuse, questi emarginati, i dannati della terra, in una sorta di riedizione del conflitto culturale maoista, dovrebbero avere il ruolo storico di tagliare con i vecchi schemi e formare un uomo nuovo contro il predominio culturale delle idee borghesi di felicità: una famiglia bianca ed eteronormativa, televisori a colori, automobili, casa di proprietà. Da allora non si parlò più di emancipazione di tutte le persone; cioè della liberazione dall’oppressione in generale. Nell’idea della Nuova Sinistra la giustizia si avrebbe solo quando gli emarginati avessero conquistato un posto al tavolo del potere”.
Altrettanto duro è il rigetto nei confronti della classe degli accademici e degli intellettuali dagli alti redditi e dalla vita comoda, abituati al privilegio, che “chiamano oppressori gruppi sociali che vivono assai peggio di loro. L’idea di dividere le persone in oppressori e oppressi in base al colore della pelle, al genere e alle preferenze sessuali, e non in base al loro ruolo nella struttura del potere, contraddice tutta la filosofia politica di Marx. Per Marx, dichiarare nemico l’uomo bianco ed eterosessuale, anche se è solo un operaio, invece di voler migliorare la vita di tutti, sarebbe un segno di una fondamentale degenerazione politica”, afferma Lange.
Le persone di sinistra che incarnano questa degenerazione sono oggi nelle stanze del potere: una classe ricca di professionisti, docenti, intellettuali, privilegiati che Marx “avrebbe tacciato senz’altro di socialismo piccolo-borghese e contro cui avrebbe combattuto.” La Lange ricorda che Marx fu uno strenuo nemico della tecnocrazia, convinto altresì che la libertà collettiva è impossibile senza la libertà individuale, e per questo pensa che “si sarebbe opposto alle pulsioni del collettivismo totalitario che abbiamo visto apparire con la crisi del coronavirus e del cambiamento climatico”.
Possibile, pur se l’idea di dittatura fu accolta da Marx, sia pure come fase transitoria nell’edificazione della società comunista. Vero è che “dovette fuggire dalla Germania nel 1849 a causa della persecuzione statale, e oggi sarebbe colpito da un destino simile. Ma non sarebbero i conservatori a perseguitarlo, bensì gli uomini di sinistra”, conclude la Lange ed è l’asserzione più dirompente. La filosofa elvetica è sostenitrice della controversa esponente politica tedesca Sahra Wagenknecht, formatasi nella DDR, il cui programma unisce misure contro la disuguaglianza sociale con altre considerate conservatrici.
La Wagenknecht è autrice di un libro dal titolo significativo, Freiheit gegen kapitalismus (Libertà contro capitalismo) e del più noto Contro la sinistra neoliberale, in cui sono tematizzate le stessi tesi della Lange. “Questo libro – scrive – esce in un clima politico in cui la cultura della cancellazione ha sostituito i confronti leali. Lo faccio sapendo che potrei finire cancellata anch’io. In fondo però Dante, nella Divina Commedia, a quelli che in tempi di profondi mutamenti si astengono, agli ignavi, ha riservato proprio il livello più basso dell’Inferno”.
Il partito in cui militava – Die Linke, la sinistra – è scivolato nel “neoliberismo progressista” che ha contagiato tutte le sinistre occidentali, le quali hanno “buttato nella pattumiera della Storia nozioni quali la lotta di classe e la lotta alle disuguaglianze per diventare una sinistra alla moda, fautrice di uno stile di vita appannaggio di una ristretta élite – rappresentata dal nuovo ceto medio dei laureati delle grandi città – ispirato ai dogmi del cosmopolitismo, del globalismo, dell’europeismo, del multiculturalismo, dell’ambientalismo, dell’identitarismo vittimista di mille minoranze e del politicamente corretto.”
Una élite che non ha nulla da dire sull’impoverimento della classe media e sullo sfruttamento dei lavoratori, che non solo promuove gli interessi dei vincitori della globalizzazione, ma disprezza apertamente i vinti, ossia le classi popolari e i loro valori, accusati di essere fascisti, razzisti, retrogradi, sessisti, nazionalisti, populisti. Una élite sempre più ristretta in termini elettorali, che esercita una fortissima egemonia sui media e sulla cultura. In opposizione alla sinistra dei privilegiati, Wagenknecht delinea una visione radicalmente alternativa, un programma fondato su valori non individualistici ma comunitari – tra cui concetti aborriti dai progressisti come patria, comunità, appartenenza – capaci di definire l’identità, non più di una minoranza intellettualistica, ma di una maggioranza di persone concrete.
Il sociologo César Rendueles sottolinea che per Marx la lotta contro le disuguaglianze non è mai stata questione di rinunciare alle libertà, ma di approfondirle. “Il mercato del lavoro è stato creato con il sangue e il fuoco, approfittando di circostanze storiche favorevoli con l’obiettivo di creare una classe sociale maggioritaria con libertà imbrigliate: abbastanza indipendente perché i datori di lavoro si svincolassero dalla loro sussistenza, abbastanza subordinata e politicamente disarticolata da garantire ogni mattina una sufficiente fornitura di forza lavoro a buon mercato”. Nessuna liberazione dalle catene. “Marx era preoccupato dell’assenza di libertà nelle società capitaliste quanto o più della disuguaglianza, in cui le norme democratiche e l’autonomia dei cittadini sono sospese. È ridicolo pretendere che sia sovrana una società in cui le grandi aziende hanno un voto implicito che pesa più di quello dei loro parlamenti nazionali”.
Le domande su Marx di marxisti pensanti si moltiplicano. Cosa penserebbe della miseria di paesi “socialisti” come Cuba, Venezuela e Nicaragua? Come giudicherebbe la Cina e il suo sistema autoritario, un misto di Orwell (1984) e Huxley (Il mondo nuovo)? Marx sarebbe censurato dalla sinistra woke per il rapporto inappropriato con la sua domestica e per i testi eurocentrici? Per Elizabeth Duval, giovanissima filosofa, Marx è solo uno tra i tanti referenti di sinistre confuse, un microcosmo dalla sottocultura settaria e autoreferenziale. Sicuramente Marx sarebbe d’accordo nel ripudiare il crescente divorzio culturale tra la sinistra accademica e le classi popolari. “La militanza universitaria è diventata borghese: sembra un teatro della rivoluzione”, spiega parlando delle sue esperienze alla Sorbona.
Non si sottrae al dibattito Slavoj Zizek, marxista critico con l’oppressione del comunismo reale sperimentato nell’ex Jugoslavia. Zizek sottolinea la crescente insoddisfazione che produce il globalismo reale, in cui il capitalista “nella sua avidità illimitata di piaceri immaginari rinuncia a tutti i piaceri reali”. Chiaro il riferimento ai miraggi del metaverso e al potere delle reti sociali in cui una vita parallela sostituisce la realtà, sempre più insoddisfacente, incapace di corrispondere alle enormi aspettative imposte dal sistema.
Chissà se Marx redivivo sarebbe “di sinistra”. Di certo non utilizzò mai il termine; fu sempre dalla parte delle classi basse (cui peraltro non apparteneva…), che oggi fuggono da quell’etichetta politica. Del resto, le sinistre egemoniche non sono più maggioritariamente marxiste o non lo sono affatto. Paradossalmente, fingono di diventarlo le élite, ossessionate dalla volontà di dominio: non avrai nulla (cioè non sarai nulla) e sarai felice, ma lo slogan del Grande Reset vale per noi, plebe eccedente. Loro hanno il diritto di possedere tutto, anche le nostre persone, anche il foro interiore che chiamiamo coscienza. Hanno portato a compimento l’ammirato giudizio di Marx per la rivoluzionaria classe “borghese” (oggi diremmo gli iperpadroni globalisti), espresso nel manifesto comunista del 1848.
“La borghesia ha giocato nella storia un ruolo altamente rivoluzionario. La borghesia ha distrutto i rapporti feudali, patriarcali, idillici dovunque abbia preso il potere. Essa ha spietatamente stracciato i variopinti lacci feudali che legavano la persona al suo superiore naturale, e non ha salvato nessun altro legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il crudo puro rendiconto. Ha affogato nelle gelide acque del calcolo egoistico i sacri fremiti della pia infatuazione, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Essa ha dissolto la dignità personale nel valore di scambio, e al posto delle innumerevoli libertà patentate e ben meritate ha affermato l’unica libertà, quella di commerciare, una libertà senza scrupoli. In una parola, al posto dello sfruttamento celato dalle illusioni religiose e politiche ha instaurato lo sfruttamento aperto, senza vergogna, diretto, secco. La borghesia ha spogliato delle loro sacre apparenze tutte le attività fino ad allora onorevoli e considerate con pia umiltà. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo di scienza in suoi salariati. Ha strappato alle relazioni familiari il loro toccante velo sentimentale per ricondurle a una pura questione di denaro”.
“La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, dunque i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. L’ininterrotta trasformazione della produzione, il continuo sconvolgimento di tutte le istituzioni sociali, l’eterna incertezza e l’eterno movimento distinguono l’epoca della borghesia da tutte le epoche precedenti. Vengono travolti tutti i rapporti consolidati, arrugginiti, con il loro codazzo di rappresentazioni e opinioni da tempo in onore. E tutti i nuovi rapporti invecchiano prima di potersi strutturare. La necessità di uno sbocco sempre più vasto per i suoi prodotti lancia la borghesia alla conquista dell’intera sfera terrestre.”
Analisi perfetta, senonché questo è per Marx il prologo necessario all’instaurazione del comunismo. Missione fallita, ma solo nella forma marxista. Più astuti, i francofortesi hanno immaginato e fornito basi teoriche a un nuovo capitalismo non più “borghese”: comunismo in basso, feudalesimo in alto, con i popoli distrutti, disidentificati, ridotti a figurine spettrali a cui fornire con modalità moderne l’antico panem et ciorcenses. Pane in modica quantità attraverso un reddito universale informatizzato, da spendere dove, come e nei termini da loro stabiliti. Circenses, ossia svaghi volgari, limitati alla sfera pulsionale, vere e proprie dipendenze.
La verità è che marxismo e liberalismo sono figli della stessa madre. Perciò, no, Marx redivivo non sarebbe né si considererebbe conservatore. Forse resterebbe marxiano senza diventare marxista, albero spurio nella foresta liberale, in cui l’innesto ha soffocato la radice della libertà.