Il 10 gennaio 1977 moriva a Roma Cristina Campo.
Ricognizioni la ricorda con questo articolo uscito sul nostro sito in occasione del centenario della nascita e, nei prossimi giorni,
con uno speciale di Radio Ricognizioni.
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Sempre che il solito ritardo non abbia ormai superato la soglia dell’imbarazzo circa gli impegni del viaggio, ogni qual volta passo per Bologna esco a Casalecchio e mi avvio verso il cimitero della Certosa. Dalla fioraia sulla destra dell’ingresso scelgo tre rose bianche, le porto sulla tomba di Cristina Campo e mi fermo a pregare. La ricordo a Dio un po’ con il suo nome “secolare”, Vittoria Guerrini, e un po’ con quello assunto al suo ingresso nelle lettere, che per lei fu ingresso in religione. Nella beata dormizione, doni il Signore l’eterno riposo alla sua serva defunta Vittoria, la cui anima nessuno mai ha potuto sondare nel profondo, se non il suo Creatore. E possa pesare con i meriti di Cristina la mia gratitudine per aver detto parole definitive sulla mia vita.
Le tre rose bianche che mi accompagnano in questa enclave appartata della Certosa non hanno significati esoterici. I fiori sono quelli in cui l’inesorabilità delle linee e dei profili è esplicitamente posta a protezione di una delicatezza destinata altrimenti a essere incompresa, così come accade in certe pagine di Cristina Campo. Sono di colore bianco perché non ne troverei un altro capace di contenere la purezza e l’innocenza di cui il cuore di questa donna aveva inestinguibile nostalgia. Sempre in numero di tre in onore alla Trinità, il cui manifestarsi in terra Cristina mi ha insegnato a cogliere dentro i raggi di luce di certe icone, tra certi avverbi e certi aggettivi capaci di rendere perfetti una pagina, un capoverso, anche un solo rigo che valgano la pena di essere scritti ed essere letti.
E poi, tre rose bianche come tre sono i candidi aggettivi ritagliati da Cristina Campo nello spirito delle lettere per definire Marianne Moore, una delle poetesse che più ha amato e ammirato: “Meticolosa, speciosa, inflessibile come tutti i veri visionari”. Sembra di vedere lei, Cristina, in quei tre durissimi colpi di scalpello, e vorrei dire qualcosa almeno sui primi due.
Quel “meticolosa” mi ricorda una lettera della lunga corrispondenza che ho tenuto con una sua vecchia amica, Federica D.P., grazie alla quale ho acquisito molto materiale di prima mano. Nel maggio del 2006, la signora Federica mi inviò il ritaglio di un articolo uscito nel 1967 sul “Giornale d’Italia”. Nella lettera diceva che “Cristina, con questo suo scritto, intese aiutarmi in un momento molto difficile, suggerendomi di valermi ‘dei dardi’ giaculatori, visto che non riuscivo a concentrarmi in preghiera”.
Lo scritto in questione, come si sarà intuito, è “Dardi verso il Cielo”. Oltre la finezza spirituale del disquisire sulle giaculatorie e la dedica scritta a mano “Con tanti cari saluti C.”, in quel ritaglio colpisce la “meticolosa” presenza delle correzioni di tre refusi poste di pugno dalla “meticolosa” autrice, che non poneva limiti nella sua umile devozione alla perfezione.
Quanto a “speciosa”, che in italiano suona abitualmente come “non sostanziale”, bisogna rammentarne il senso latino di “abbagliante”, “più che bellezza”. Su questa traccia, nell’introduzione a Il flauto e il tappeto, si avventurò in poche righe Guido Ceronetti ascrivendo la Campo alla razza dei visionari che lavorano “su un’abbagliante insostanzialità, per rivelare un’asciutta realtà soprasostanziale. (…) lavoro squisitamente specioso. Un vuoto riempito di luce…”.
Ma qui abbandono i sentieri di una mente, per cui pure provo sommo rispetto, come quella di Ceronetti, poiché la “meticolosa, speciosa, inflessibile” Cristina ha seguito un’altra ispirazione per comprendere cosa sia quella Luce capace di riempire il vuoto. Lei che ha scoperto di essere creata per null’altro che inginocchiarsi davanti al Dio Uno e Trino capace di farsi carne senza averne orrore, anzi…
Nei giorni scorsi sono stati ricordati i cento anni della nascita di questa singolare, nel senso di unica oltre che di bizzarra, figura del mondo delle lettere: chi dice il 28 aprile e chi il 29. Ma la data conta così poco che sulla sua tomba c’è solo una piccola lapide con un giorno che potrebbe essere preso per quella della morte, 14-11-1977: se non fosse che Cristina Campo ha lasciato questa terra la notte tra il 10 e l’11 gennaio 1977. Il 14 novembre potrebbe essere il giorno in cui l’amica Ida Samuel portò quel suo ricordo, in calce al quale pose il suo nome: “qui riposa Vittoria Guerrini / in arte / Cristina Campo / nipote del prof. Putti / 14-11-1977 / la tua cara amica Ida Samuel”.
Questo per dire che uno spirito meticoloso, specioso, inflessibile non disdegna di impreziosirsi delle distrazioni e delle imprecisioni proprie e anche di quelle altrui. Dunque, non mi pare fuori posto un ricordo che giunge qualche giorno dopo le date convenzionali.
D’altre parte, il mio rapporto con Cristina Campo è amabilmente maculato di piccole bizzarrie. Per farne un esempio, tra le varie copie delle sue opere che stanno nello scaffale dietro la mia scrivania, ne tengo come particolarmente preziose una di Sotto falso nome e una di Gli imperdonabili che mia figlia Chiara, da piccola, macchiò abbondantemente di inchiostro blu: quei libri segnati per sempre dall’incontro con Chiara erano l’indizio che Chiara, più avanti, sarebbe stata segnata per sempre dall’incontro con Cristina Campo.
A parte questa consuetudine domestica con le distrazioni dedicate agli scrittori più amati, ciò che mi ha indotto a ritardare la stesura di qualche nota sul centenario campiano, è il sorprendente e improvviso pullulare di articoli dopo decenni di adorabile silenzio. C’è chi ne ha detto male, e ciascuno ha diritto a una sua opinione, purché non la esprima malamente circa stile, tono e frequentazione della materia. Molti ne hanno detto bene, ma anche in questo caso vale lo stesso limite censorio, che applico a me prima che agli scritti altrui.
Non penso di essere lontano dal vero se definisco opportuni quei decenni silenziosi quando ricordo che nel 1962, alla pubblicazione di Fiaba e mistero, la Campo ebbe a scrivere: “Ora anche di questo libretto mi è venuto un enorme desiderio che nessuno se ne accorga. Una parola è sufficiente per toglierti tutto il piacere di averlo scritto, farti sentire ‘as pubblic as a frog’, il che equivale a non scrivere più”.
Mi pare qualcosa in più del semplice stare un passo indietro: un tratto dell’anima inesprimibile, ma trasmissibile a pochi veri amici per contagio spirituale. Circa venticinque anni fa parlai a lungo con Alessandro Spina, uno tra i pochi veri amici di Cristina, per arrivare in fondo alla conversazione e sentirmi chiedere di non pubblicare nulla: “Tanto, quello che ci siamo detti serve soltanto a noi”.
Lo spirito della Campo ha poco o nulla della vanità di una scrittrice. Ricorda piuttosto quello dei monaci di cui parla in Detti e fatti dei Padri del deserto, che curò per Rusconi due anni prima di morire. Nell’introduzione alla raccolta scrive di “mani che, levate, sprigionano fiamme, che bisogna abbassare in fretta nell’orazione per non esserne travolti via, nell’estasi. Corpi su cui un’aquila di fuoco cala a piombo durante la Sinassi, un lenzuolo di fuoco si posa durante la vestizione. Risplendente, minacciosa autonomia di una cocolla, di un cordiglio, di un salterio così inzuppati della vita di un santo da ustionare il nemico come ferro incandescente, strappandogli alte grida.
In poche righe, vengono evocate parole che si alimentano del silenzio originario acquisito dal cuore di chi le enunciava e del silenzio riflesso nel cuore di chi le udiva. Emissioni di grammatica spirituale così preziosa da essere spesso celate a una vista e a un udito solo carnali. I Padri erano arrivati al punto in cui il loro ego era semplicemente svanito. Non c’era più psiche a cui appendere una qualunque psicologia. Anche dei divini carismi di cui soffrivano, perché i divini carismi sono cose terribili, cosa pensavano? Silenzio, silenzio.
Nel dire di Cristina Campo circa i detti dei Padri del deserto non si trova traccia di studio o di accademia. Così come nel suo discorrere di liturgia, di letteratura, di poesia e persino delle cose del mondo non c’è giudizio. Tutto è già studiato, tutto è già giudicato. Qui si procede lungo i gradini della visione e, più si sale, più è evidente che sono esclusi altri criteri e altre misure.
Ecco lo snodo in cui tante letture dei suoi scritti mi sembrano tronche, anche quando sottolineano questioni fondamentali in maniera rispettosa e senza mettere il piede in fallo. Più d’uno tra i commentatori ha, giustamente, valorizzato il lavoro della Campo per la salvaguardia della liturgia tradizionale gregoriana. Quella è stata una fase decisiva della sua vita, con la fondazione dell’associazione “Una voce”, la collaborazione alla stesura del “Breve esame critico” del nuovo messale, la scrittura di tanti articoli e i fruttuosi contatti con uomini di cultura e anche di fede.
Chiunque voglia anche solo conoscere almeno un po’ Cristina Campo deve forzatamente passare di lì. Ma in cambio ne deve uscire almeno un po’ mutato, se ha saputo davvero guardare in profondo. Se ciò non accade è segno che le esche celesti calate da questa donna all’altezza delle nostre anime davvero non sono per tutti. O, quanto meno, vuol dire che è necessario affilare terribilmente gli spiriti prima di poterle riconoscere e cibarsene consapevoli di avere inghiottito l’amo che ci salva invece di quello che ci perde.
Mi riferisco, in particolare a quella ghiottissima esca che è il breve scritto “Note sopra la liturgia”, in cui si leggono cose come queste:
“La liturgia cristiana ha forse la sua radice nel vaso di nardo prezioso che Maria Maddalena versò sul capo e sui piedi del Redentore nella casa di Simone il Lebbroso, la sera precedente alla Cena. Sembra che il Maestro si innamorasse di quello spreco incantevole. Non soltanto lo oppose alteramente alla torva filantropia di Giuda che, molto tipicamente, ne reclamava il prezzo per i poveri: ‘Avrete sempre i poveri, ma non avrete sempre me’ – parola terribile che mette in guardia l’uomo contro il pericolo delle distrazioni onorevoli: Dio non c’è sempre e non rimane a lungo e quando c’è non tollera altro pensiero, altra sollecitudine che Se stesso – ma addirittura replicò quel gesto la sera dopo, quando, precinto e inginocchiato, lavò con le Sue mani divine i piedi dei dodici Apostoli, allo stesso modo che Maddalena, scivolando tra il giaciglio e il muro, aveva lavato i Suoi. Dio, come osservò uno spirito contemplativo, si ispira volentieri a coloro che ispira.
‘Ella mi prepara per la mia sepoltura’ disse il Salvatore con quell’accento che nessuno, intorno a Lui, penetrava. Nemmeno Maddalena comprese, naturalmente. Ma quando, tre giorni dopo, venne al Sepolcro con altri balsami, in cerca del corpo venerato, esso non era più là. Come sempre non l’utile aveva servito alla vera celebrazione ma il superfluo: non l’azione ma la liturgia dell’azione. (…) Inesauribile è il gesto di Maddalena, e in realtà Cristo affermò che per sempre ci si sarebbe ricordati di esso. Ciò che lo rende inesauribile è appunto la sua gratuità: tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a una dramma sola di quel nardo, come tutti i poveri della terra non potrebbero pretendere a un solo grano d’incenso bruciato al cospetto di Dio con cuore ardente. Nel ‘Mattutino del Grande Sabato’ del rito bizantino si cantano, rivolte a Giuda, queste parole: ‘Se sei l’amico dei poveri e ti rattristi dell’effusione di un balsamo per la consolazione di un’anima, come hai potuto vendere la luce a prezzo d’oro?’”.
Il lettore di fede o cultura occidentale che coglie la densità letterale di questi passi si trova salutarmente lontano anni luce dalla distruzione liturgica portata quasi a termine nella Chiesa latina. Ma difficilmente può dire di esserne giunto al cuore se li lega soltanto, o primariamente, alla banale cronaca della militanza di Cristina Campo in difesa della tradizione liturgica. Lo splendore, lo spreco, la gratuità, lo spirito di adorazione della liturgia sono solo continenti, pur vasti e salvifici, che galleggiano sul vero nucleo incandescente rinvenuto da Cristina Campo nel suo peregrinare spirituale.
Il cenno al lettore di fede o cultura occidentale non cela intenti polemici. Dipende solo dalla constatazione che, personalmente, ho dovuto attendere di diventare ortodosso per comprendere davvero la chiave della luminosa rivelazione racchiusa nelle “Note”. Mi riferisco alle poche righe poste quasi in calce al testo: “Nel ‘Mattutino del Grande Sabato’ del rito bizantino si cantano, rivolte a Giuda, queste parole: ‘Se sei l’amico dei poveri e ti rattristi dell’effusione di un balsamo per la consolazione di un’anima, come hai potuto vendere la luce a prezzo d’oro?’“.
Il paradigma liturgico, è Cristina Campo a svelarlo con l’innocente leggerezza degli scrittori di fiabe, sta dunque nelle celebrazioni ortodosse della “Grande e Santa Settimana” di Pasqua. Non è un caso, poiché nulla è liturgicamente casuale, se il “Grande e Santo Mercoledì” si celebra proprio in ricordo dell’episodio evocato in “Note sopra la liturgia”. “I Padri divini” recita il Canone del Triódio “stabilirono che il Grande e Santo Mercoledì si faccia memoria della meretrice che unse il Signore con unguento profumato, perché questo avvenne poco prima della passione salvifica”.
E, fiore da fiore, si trovano passi come questi:
“La meretrice mescolò alle lacrime il preziosissimo myron, e lo versò sui tuoi piedi immacolati coprendoti di baci e subito tu la rendesti giusta. Dona anche a noi il perdono e salvaci, Tu che per noi hai patito”.
“Mentre la peccatrice offriva il myron, proprio allora il discepolo si accordava con gli iniqui. Essa si rallegrava versando l’olio preziosissimo, mentre l’altro si affrettava a vendere Colui che è senza prezzo. Essa riconosceva il Sovrano, quello dal Sovrano si separava. Essa fu liberata, mentre Giuda divenne schiavo del nemico. Orrenda è l’indolenza! Grande la metanoìa! Donacela, o Salvatore, che per noi hai patito e salvaci”.
“Oh, la meschinità di Giuda! Vedeva la meretrice baciare i piedi del Signore e meditava il falso bacio del tradimento. La donna scioglieva i capelli e lui era legato alla rabbia, invece del myron offriva malvagità maleodorante. L’invidia, infatti, non sa scegliere ciò che giova. Oh, meschinità di Giuda! Da essa libera, o Dio, le anime nostre”.
Anche il “Grande e Santo Giovedì” è trapunto di memorie circa il tradimento di Giuda. E anche queste, oltre che lode a Dio, sono invito per gli uomini a cogliere il vero senso di quanto stanno compiendo: riconoscere il Sovrano, come ha fatto la meretrice che lo ha unto di nardo profumato e nel gesto di sciogliere i capelli ha dato un simbolo carnale all’accoglimento della Grazia. L’unica alternativa è il rifiuto di Giuda, che si chiude nella sua rabbia, il cui simbolo sono i trenta denari.
La ghiotta esca gettata da Cristina Campo nelle sue brevi “Note” ne cela dunque una ancora più ghiotta. E questa, a sua volta, ne porta in seno una definitiva che, per essere gustata, chiede di aver prima abboccato e provato il gusto delle prime due. Mi riferisco alla citazione del “Grande Sabato”, poiché evidentemente sta qui il senso ultimo, che coincide perfettamente con il senso primo, della liturgia cristiana. Nella prima Ode del “Cantico di Mosè” composto da Marco, vescovo di Idra, si recita:
“In alto in trono, e in basso nella tomba, tale ti contemplarono o mio Salvatore, gli esseri ipercosmici e quelli sotterranei, sconvolti dalla tua morte, poiché Tu, oltre ogni comprensione, ti mostravi sia morto sia suprema origine di vita”.
“Oltre ogni comprensione” di ciò che non è comprensibile per la ragione, la “morte” insieme alla “suprema origine della vita”, è possibile solo l’adorazione. Ma la liturgia non è solo dettato divino sulle modalità attraverso cui debba essere adorato. È azione cosmica che rimette in asse il mondo materiale e quello spirituale. È azione alla quale l’uomo è chiamato a vivere con l’animo della meretrice adorante per partecipare, gratuitamente nel dare e gratuitamente nel ricevere, alla propria salvezza. Non è solo sacrificio, è anche resurrezione, poiché l’uno e l’altra stanno insieme per il nostro destino: “Tu, oltre ogni comprensione, ti mostravi sia morto sia suprema origine di vita”.
Tra le molte parole definitive che Cristina Campo ha detto sulla mia vita, ho molto care proprio queste. Tracce luminose e insieme discrete che mi hanno permesso di arrivare a comprendere l’uomo come “animale liturgico”. Animale liturgico e quindi razionale. Dove “quindi” non ha un valore causale, deduttivo e conclusivo, ma un più soave e riposante valore temporale. L’uomo è “animale liturgico” e quindi solo dopo, persino molto dopo, è anche “razionale”. Grazie a Dio.
1 commento su “Tre rose bianche per Cristina Campo”
Sono troppo ignorante per commentare, ma posso ringraziare per l’articolo davvero profondo che aiuta a riflettere nel silenzio della ricerca spirituale.