Ho ricevuto questo scritto da Giovanni Lugaresi.
Giovanni è una persona che vedo poco, ma a cui voglio bene molto. Molto. Come sempre, quando mi manda i suoi pensieri, gli chiedo se posso pubblicarli e lui, come sempre, mi risponde che ne sono totale padrone.
Giovanni, ottantadue anni come dice in questo pezzo, è a pieno un vecchio guareschiano e un vecchio guarescologo. Direi il padre, o se si preferisce il decano, di tutti i guareschiani e tutti i guarescologi martellati in testa e trapassati dal sole e dalla nebbia della Bassa.
Ma questo non è il solo motivo per cui gli voglio bene. Il primo è che Giovanni Lugaresi è un vero signore, uno di quei signori venuti su tra Romagna e Veneto, come accadeva in tante altre lande italiane e di cui temo si sia perso lo stampo. Giovanni è un vero signore di cui ho grande ammirazione perché la vera letteratura nasce nell’essere signori in quel modo lì: che non è definibile, nulla ha a che fare con censo e nascita, ma con lo spirito. Sprezzatura, direbbe Cristina Campo
Motivo per cui, al termine della lettera in cui gli dicevo che avrei pubblicato questo scritto, ho specificato che prima avrei pubblicato e poi avrei letto. Perché di Giovanni Lugaresi mi piace essere prima lettore e poi editore. E so di non sbagliare. Me lo direte alla fine.
(alessandro gnocchi)
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Disma “il buon ladrone”:“Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Luca 23, 43)
[I cristiani] dimorano nella terra ma la loro cittadinanza è nel cielo…”(dalla Lettera a Diogneto)
Giovannino Guareschi:“… Non credo nelle vitamine, in compenso credo in Dio”
Giovanni Pascoli: “… portatelo anche a me quel pane/ nel vostro mezzodì” (da “Il viatico”)
Al compimento degli 82 anni, ecco una serie di pensieri, riflessioni, confessioni, riferimenti, buttati giù così, come venivano, senza un ordine prestabilito, raccolti qua e là (“a la garboja”, come avrebbe detto Aldo Spallicci) sul filo della memoria, e/o come li ‘sentivo’, scritti per me stesso e per un po’ di amici, soprattutto… per i ‘vecchi’ amici “vecchi”.
C’è uno stato d’animo che attraversa la mia vecchiaia e che si riassume in una parola: nostalgia. Tristezza e rimpianto non della mia adolescenza, giovinezza, maturità lontane, ma di persone che mi sono state care e continuano ad esserlo nel ricordo e nella preghiera quotidiana al Signore.
Persone e momenti e luoghi insieme intensamente vissuti, oltre alle figure familiari, o di parenti, in varie occasioni dell’esistenza, che per me volge al tramonto, e mi induce a ripetere con i discepoli sulla via di Emmaus: “Resta con me, Signore, perché si fa sera”, e ad aggiungere, “… anche la sera della mia vita”.
Certo, il ricordo è gradevole e bello, ma ci sono giorni, momenti, nei quali avvertirei il bisogno forte di quelle presenze, di una loro “fisicità”, per così dire (cioè trovarmeli davanti corporalmente), dei miei genitori, del mio unico fratello più grande di me di sette anni, ma scomparso quarantaduenne… e io sono qui, con quasi il doppio della sua età, a rammemorare, a intristirmi, per i vari i malanni che mi affliggono, inevitabili segni-forme della decadenza senile.
Certo, non trascuro il bene di una moglie preziosa, forte, premurosa, e di due bambini carissimi, Flaminia e Giordano; non dimentico le presenze, vicine e lontane (nello spazio) di amici, una fila che tuttavia va assottigliandosi sempre più col passare degli anni – veramente, tempus inesorabile fugit!
Certo, nella consapevolezza della fede, offro al Signore… tutto: dolori e gioie, melanconie e soddisfazioni.
Ma quello stato d’animo resta; va e viene a momenti, è una costante in quel che mi resta da vivere.
Amarcord…
… La gioia di quel settembre 1962, quando (a luglio ero stato rimandato in diritto) mi diplomai ragioniere. E poi il servizio militare: Battaglione addestramento reclute a Siracusa, Caserma Abela in Castello Maniace, successivamente svuotato di militari e restaurato, come meritava di essere, millenaria fortezza all’estrema punta dell’isola di Ortigia. E lì, a Siracusa, un giorno provai una sensazione forte e una consapevolezza (quasi) pungente. Di mattina, comandato con altre reclute, andare in centro per la provvista del pane. Era l’ora della “campanella”, e scendendo dal camion davanti al panificio attiguo a una scuola, più che capire, avvertii fortemente, vedendo tanti giovani attendere l’ora per l’ingresso (fino a pochi mesi prima era stato così anche per me) che una fase della mia vita si era definitivamente conclusa. Ne ebbi piena consapevolezza, con un filo di rimpianto… Qualcosa – un tempo – era finito, per sempre…
Dalla Sicilia a Udine, Quinto Reggimento Genio -7^ Compagnia Minatori, dattilografo. Ancorché mi pesasse la lontananza (peraltro assai ridotta in Friuli) da casa, un’esperienza (soprattutto umanamente) molto positiva, quella del servizio militare, e poi, visione di paesaggi, ambienti, monumenti mai dimenticati: dalla Sicilia, appunto, al Friuli.
Finita la naja, ragazzo di bottega nella redazione ravennate del Resto del Carlino e l’inaspettata svolta della vita: l’incontro con Giuseppe Longo, direttore del Gazzettino, giornale del quale ero corrispondente dalla mia città, e l’assunzione come praticante giornalista nella redazione di Belluno – successivamente a Padova, dove vissi, pur cambiando per qualche tempo giornale (e ruoli), per ben 36 anni: 1970-2006.
Quanto rivivrei quel tardo pomeriggio estivo del 1966 nel giardino dell’Hotel Savoia di Rimini, dove Longo era in vacanza con la moglie Adele! Mi avevano accompagnato gli amici don Francesco Fuschini e don Giovanni Zanella, testimoni di quel momento cruciale della mia esistenza, e al ritorno, gioiosissimi quanto me per l’assunzione, per la realizzazione di quella che si era manifestata da tempo la vocazione della vita – niente banca, dove pure il direttore Serra mi avrebbe voluto dopo l’imminente pensionamento del mio babbo!!! – e al Gazzettino, il giornale della mia vita, amato come una creatura, ho dato l’addio il 31 dicembre 2022, dopo una collaborazione protrattasi anche dopo il pensionamento, avvenuto l’1 febbraio 2001…
Una amicizia, quella coi due “pretini” (come li chiamava Marino Moretti), forte e duratura, alla quale si sarebbe aggiunta quella con Walter Della Monica, ravennate di altissimi meriti, oltre i confini della Romagna e d’Italia, anche lui punto di riferimento affettuosissimo quando tornavo in vacanza nella mia Ravenna, insieme alle famiglie della “signora Lalla” (Laura Franchi Malagola) e di “Palino” (Pasquale) Mazzucca, già campione di pallavolo…
Se proseguo nel viaggio a ritroso nel tempo, e rivedo volti e figure, constato che tantissimi sono passati (come usava scrivere don Fuschini) “nel mondo dei più”, o che ho perso di vista, come si suole dire.
Della vecchia Banca Popolare dove mio padre lavorò ben 44 anni, sono in contatto con Claudio Martinelli, ultimo presidente, prima che l’istituto di credito cambiasse… orizzonti. E degli amici del “Picchio studentesco”, restano due contatti: Franco Gabici e Alfredo Cottignoli – se ne è andato, da pochi mesi, il direttore, l’amabilissimo Claudio Morgagni.
Del mondo giornalistico ravennate nel quale nacqui e crebbi, scomparso, novantenne, l’anno scorso, Vanni Ballestrazzi, l’unico contatto rimasto è con Claudio Santini, peraltro “naturalizzato” bolognese.
Fra gli sportivi, Umberto Suprani, collega in giornalismo e già arbitro di pallavolo a livello internazionale, e nei ricordi indelebili, ecco Orfeo Montanari, Angelo Costa, Mario (al secolo, Carlo Alberto) Lelli, Meo Bagioli, Elio Marfoglia, Celso Minardi, eccetera.
E del mitico bar Byron, coi suoi Cecé Fabbri, Nanni Savorelli, Bruno Carnoli, i Serena, il dottor Facchini, Gianni Abbondanza, Mario Salvagiani, Cesare Fucchi, Piccolo, “Ghino”? L’ultimo al quale ero ancora legato, Giancarlo Donati… anche lui passato oltre la vita – restano la moglie Giancarla, il figlio Filippo, albergatore, che di quando in quando ho occasione di sentire, vedere…
Dell’ambiente della politica, da lungo tempo ho perso di vista il mio compagno di classe all’Istituto tecnico Ginanni, e frequentatore del Ricreatorio arcivescovile (pallacanestro), già deputato al Parlamento e sottosegretario per il (fu) Partito Repubblicano Gianni Ravaglia, mentre sono tuttora in rapporto con Antonio Patuelli, esponente di spicco del (e pure qui, fu) Partito Liberale, già esponente di governo, anche per via alla collaborazione della rivista che dirige “Libro Aperto”, fondata da Giovanni Malagodi. Fra quelli passati oltre la vita, Lucio Paolo Massaroli, medico di fama, democristiano, che mi piace associare al preside Orselli; i repubblicani Guerrino Ravaioli, Michele Vincieri (mio preside all’Istituto Tecnico Ginanni) e il comunista (ma lo era proprio, in fondo all’anima?) Elios Andreini, nonché il suo compagno di partito Giordano Angelini, tuttora attivo.
Potrei continuare nelle citazioni: dai gemelli Caravita, cattolici, al liberale Carlo Simboli, al missino Renzo Amadei – fra i veneti conosciuti e frequentati: Luigi Gui e Giuseppe Bettiol, e mi fermo qui sui politici.
Sempre a Ravenna, restano poi due vecchi-amici-vecchi che furono in cordialissimi rapporti col mio babbo: il ragionier Franco Casadio e l’avvocato Daniele Bulgarelli.
Quanto a istituzioni, tre sono sempre nel mio cuore: l’Opera Santa Teresa del Bambino Gesù (fondata da quel santo prete che fu Angelo Lolli), da me definita una volta sull’Osservatore Romano della Domenica: “il cuore del cuore di Ravenna”, unendo alla ubicazione centralissima nella città la missione assegnatale dal fondatore, per i vecchi malati cronici e abbandonati; e poi il monastero delle Carmelitane (sempre nella mia città); infine, a Sarmeola (Padova), l’Opera della Provvidenza di Sant’Antonio, nota come “il Cottolengo dei veneti” – e si capisce bene il perché…
Altri luoghi ai quali sono legato: i santuari mariani di Loreto, Lourdes, Fatima, quello jacopeo di Santiago di Compostella (con l’abbraccio al busto dell’apostolo, dicendogli: ‘Amico, raccomandami a Dio’), e poi l’abbazia benedettina di Praglia, la basilica del Santo e la tomba di padre Leopoldo a Padova.
Incontri memorabili: con Giuseppe Prezzolini, che mi stimò e mi volle bene, nonché alcune delle persone a lui legatissime: lo storico Emilio Gentile, sister Margherita Marchione, il figlio Giuliano, il pittore Luciano Guarnieri, Diana Rueesch, già conservatrice del suo Archivio nella Biblioteca Cantonale di Lugano, Knud Ferlov primo traduttore italiano di Kiekegaard; Marino Moretti e la sorella Ines; Nicola Lisi, Piero Bargellini; Giannantonio (Nane) Paladini. Della redazione del Gazzettino, oltre all’amato Giuseppe Longo, Emanuele De Polo, Sergio Gervasutti, Giancarlo Graziosi, Pierluigi Tagliaferro, Michelangelo Bellinetti, il generoso e gran galantuomo Gabriele Cescutti, Gian Antonio Cibotto (perorò la pubblicazione di due miei libri con Neri Pozza: “La lezione di Prezzolini”, “Anarchico il pensier…”), ed altri.
Non dimentico le visite prenatalizie nella casa protetta ravennate a Dante Arfelli insieme a Walter Della Monica – una volta fu con noi anche Sergio Zavoli, non immemore di quel grande dimenticato della letteratura.
Dell’ambiente giornalistico più in generale, ecco vive le figure di Gaetano Afeltra, Enrico Zuppi direttore dell’Osservatore Romano della Domenica, Baldassarre Molossi, don Alfredo Contran, padre Pasquale Borgomeo della Radio Vaticana. Poi, i musicisti don Fernando Pilli e Fiorella Benetti Brazzale, organista di eccellenza internazionale, e la sua bellissima famiglia (il marito Tino, i figli Gianni, Roberto, Piercristiano)… A proposito, poi di famiglie unite, legatissime, devo ripetermi su quella dell’amico alpino Bepi Campagnola di Bavaria (Nervesa della Battaglia – Treviso), dove moglie, figlie e nipoti condividono con lui la battaglia contro la tremenda SLA che da anni lo affligge.
Altri significativi incontri, inoltre, quelli con Alberto, Carlotta Guareschi e le loro famiglie, nonché con “amici guareschiani” quali Guido Conti, Alessandro Gnocchi, Alberto Vacchi, Giuliana Tebaldi, Giovanni e Giuliana Velicogna, Gianna, Rosetta, eccetera, nonché Olga Gurevich alla quale si devono le traduzioni dei libri di Giovannino in russo. Ancora: Ardito Desio, Ignazio Silone, Diego Fabbri, Igino Giordani, per non parlare degli Alpini, una realtà dalla quale ho ricevuto tanto: umanamente e moralmente, e che credo di avere ricambiato (quel tanto), sia professionalmente, sia umanamente… dalla sede centrale dell’Ana alle sezioni di Padova, Treviso (e della Marca), Belluno, Gorizia, Como, Verona, dal Gruppo di Mede a quello di Arcade, presiedendo per quindici anni la giuria del Premio Parole attorno al fuoco, fino agli incontri conviviali delle adunate nazionali (ne ho seguite sul posto ben 30), chez Osteria La Vecchia di Lino Chies, con Beppe Parazzini, Toni Battistella, Cesare Poncato, Angelo Dal Borgo, ‘Garrincha’, nonché altre care presenze – e all’adunata di Genova nel 2001 ricevetti il premio “Giornalista dell’anno”…
Fra quel che mi tengo ancora nel cuore a livello di affetti familiari, mi rivedo adulto, in redazione a Belluno prima, poi a Padova, colpito dall’influenza. Vivendo solo, in una pensione e poi in albergo, in quelle occasioni facevo ritorno a casa, curato e accudito dai miei vecchi (finché furono in vita). La mamma mi praticava le iniezioni, il babbo si preoccupava con le minestrine e le spremute d’arancio… E nei tardi pomeriggi, capitava nella mia stanza a controllare. Una mano sulla fronte, per sentire “se scottassi”, se avessi febbre alta, poi una carezza, accompagnata da un “babì” (bambino), pronunciato sottovoce, e dal quale trapelava un’affettuosa preoccupazione per la mia salute, rivedendomi bambino indifeso.
Penso di averla ricambiata, quella carezza, nella tarda sera dell’11 gennaio del 1979, in una stanza della casa di cura Domus Nova accompagnando, tenendogli la mano (con mio cugino Ido), la sua agonia…
Avvertito nel pomeriggio della fine imminente, chiesta licenza al direttore, mi ero precipitato nella vicina stazione ferroviaria di Padova, salire su un espresso in partenza, poter cambiare convoglio a Ferrare e una volta giunto a Ravenna, infilarmi in un taxi che a tutta velocità mi avrebbe portato alla Domus Nova: in tempo, appunto, per dargli quell’ultima testimonianza di amore – su questa terra…
Più e più volte sono riandato con mente e con cuore a quei momenti. In virtù dei quali il pensiero si è allargato a una famiglia fatta di amore, quindi di generosità, sia da parte di parenti della mia mamma, sia di quelli del mio babbo, il quale, quando ricordava i “suoi” di Castiglione di Cervia, diceva: “la mì zent”, la mia gente, cioè i familiari, appunto. Da lì, ecco l’ultima cugina in primo grado, Rosina, novantottenne, alla quale sono stato sempre legato in modo particolare, inferma ma lucidissima.
Pochi, ma essenziali, gli insegnamenti ricevuti dai miei genitori, in primis quello religioso, non soltanto trasmessomi… a parole, ma pure con le azioni, con quella fede e con quelle “opere” di cui parla l’apostolo Giacomo.
L’amore del prossimo io l’ho visto (toccato con mano, direi) praticato da babbo, mamma e fratello…
Fra gli affetti “non familiari”, ne nutro comunque tanti per persone che mi hanno fatto del bene (nessun odio o risentimento, per chi mi ha fatto del male!), magari anche senza conoscerle fisicamente, ma attraverso la lettura di loro pagine: da Guareschi a Giuseppe Berto, dal convertito Papini a Giovanni Maria Vianney (il Santo Curato d’Ars), da don Giuseppe De Luca e don Cesare Angelini (c’è qualche cattolico che li ricordi ancora?), ai compianti padre Enzo Poiana rettore del Santo, ai monaci Ireneo Sisti, Giuseppe Tamburrino – aggiungo, fra i vivi, il mio testimone di nozze nell’abbazia di Praglia dom Wladimiro…
Del trasferimento a Giavera del Montello, per il felice matrimonio con Lucia, non ho molto da dire. Il prosieguo del mio forte rapporto con gli alpini, impegni giornalistico-letterari, conferenze in zona e qualche forte emozione. Come quando partecipai alla prima comunione della nostra Flaminia a Lanzago di Silea. Indossava la bianca tunica e il velo che erano stati di sua nonna Lucia, e quando, inginocchiata ricevette sulla lingua l’ostia consacrata, il mio pensiero andò a quella pagina della Seconda nascita (l’ultimo capitolo, “Le innocenti”) di Giovanni Papini, il quale (non ancora convertito) si commosse nell’assistere alla prima comunione di Viola e Gioconda fino a scrivere: “… Quando le mie figliole, tanto sincere e belle, ricevettero il disco del corpo divino, io che non so piangere, mi sentii serrar la gola dall’angoscia, e una gran voglia di singhiozzare, una gran disperazione di non poter credere a tutto, come quelle innocenti a mani in croce che sentivan Cristo dentro di sé, e pareva che lo stringessero coi bracci, come un colombo calato dal cielo a nascondersi sul loro petto”…
Mi prese una intensa commozione e vissi un momento di immensa pace interiore… il cui pensiero ancora mi suscita tenerezza.
E qui faccio una sosta.
Per avvertirvi, cari amici, che non voglio ripetermi. Già in precedenti miei testi scritti in varie occasioni (i miei 80 anni, i 50 anni dalla partenza da Ravenna, gli altrettanti della professione giornalistica), ho citato nomi e cognomi di persone a me legate da stima e affetto, dai maestri dello spirito don Fuschini, don Buzzoni, don Brasini, Prezzolini, Giuliotti, Papini, Bloy, Bernanos, a persone di passatempi giocosi e/o intellettuali come Vittore Branca, Franco Sartori, Manara Valgimigli, Antonio Fusconi (la “mitica sentinella” della tomba di Dante), Giulio Bedeschi, Enrico Reginato, Nardo Caprioli, Bortolo Busnardo, Beppe Parazzini, Nico e Annamaria Luxardo, Marino Capacci, Beppo Toffanin ed Edoardo Pessi suo cugino, Sandro Gherro direttore editoriale di “Opinioni Nuove”, Giorgio Cicognani, (romagnolo trapiantato nel Veneto), Toni Tadiotto, i giovanissimi sodali ravennati dello sport e delle passeggiate vesperali lungo via Corrado Ricci (Portici Ina) – Piazza del Popolo – Via Diaz, con dispute calcistiche e politiche, ciascuno con le sue idee, ma con un grande rispetto gli uni per gli altri, secondo un’educazione ricevuta che ci accomunava tutti.
Atti di bullismo? Neanche a pensarli! Definivamo “un bullo” chi si dava delle arie. Tutto qui…
L’essermi “trapiantato” poi nel Veneto non ha cancellato il “sentimento romagnolo”, che fra l’altro, mi fa riandare alla famosa “esortazione” di Alfredo Panzini: “Restate fedeli alla Romagna: perché quel poco di buono che c’è ancora nel mondo è in Romagna”. Una terra che, almeno un tempo, era intrisa di valori, a incominciare da quel senso del dovere che si tramandava – si può dire – di generazione in generazione, che i genitori ci avevano insegnato
E nella mia vita l’espressione senso del dovere è sempre stata presente, messa in pratica! Come lo sviscerato amore per la mia terra coltivato, seppur lontano nel tempo e nello spazio, anche attraverso la letteratura, la poesia: Pascoli, Spallicci, Renato Serra, Lorenzo Stecchetti (al secolo, Olindo Guerrini), il lughese Enzo Guerra, al quale si devono versi straordinariamente toccanti, commoventi, in vernacolo – per esempio:
“Com’èla ch’ la créss la mi cros i nt e’ cor,/ e a sent ch’a so iquà daparmé, e’ mi Signor,/ senza piò inson ch’m s’ asarméja in sta tèra?/ L’è séra… l’è séra”…” (*)
– che nulla hanno da invidiare (anzi!) a quelli della famosa “Ed è subito sera” di Salvatore Quasimodo…
Ed è giunto il tempo di por fine a questo lungo soliloquio. Che, avviato con riferimenti di fede, all’insegna della fede vuole concludersi:
“Credo […] et unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam” – … nonostante tutto!!!
P. S. Alla Messa della Fraternità sacerdotale san Pio X: “Hic manebimus optime”.
(*) “Com’è che cresce la mia croce nel cuore e sento che sono qua da solo, o mio Signore, senza più nessuno che mi assomigli [riferimento ai familiari, ndr] su questa terra? E’ sera… è sera…”
1 commento su “ “In manus tuas, Domine…””
Splendida lettera! Un cesello! Grazie di cuore!
Solo una segnalazione di un chiaro refuso (non l’avrei segnalato se non fosse nel titolo!): “In MANUS tuas Domine! E non MANOS).